Il principio di proporzionalità nel diritto penale
Sebbene non espressamente affermato da nessuna specifica disposizione legislativa, il principio di proporzionalità costituisce certamente uno dei cardini dell’intero sistema penale: affinché la pena possa assolvere le funzioni di retribuzione e di rieducazione del reo è infatti indispensabile che la stessa risulti proporzionale alla gravità del fatto commesso.
Sotto questo profilo è certamente possibile rinvenire un fondamento costituzionale del principio in parola nell’art. 27 della Carta fondamentale, il quale, assegnando alla pena il compito di pervenire ad una risocializzazione del reo, impone l’applicazione di una sanzione che possa ritenersi proporzionata alla gravità del reato.
Autorevole dottrina, d’altra parte, riconduce l’esigenza di proporzionalità della sanzione penale al principio della necessità della pena, la quale può considerarsi giustificata esclusivamente nel caso in cui sia stata posta a tutela di beni fondamentali, sia idonea a sopperire all’inadeguatezza delle altre sanzioni e risulti graduata all’entità della offesa arrecata ai beni giuridici protetti.
A tal proposito si deve richiamare l’art. 13 della Costituzione, il quale nel sancire l’inviolabilità della libertà personale né ammette limitazioni esclusivamente nei casi e con le modalità previste dalla legge, prescrivendo altresì la necessità che la restrizione derivi da un atto giudiziario adeguatamente motivato.
L’esigenza di proporzionalità della pena trova inoltre il proprio fondamento nell’art. 3 della Legge fondamentale, costituendo logica espressione dei criteri di uguaglianza e ragionevolezza dallo stesso ricavati.
Nel diritto sovranazionale, invece, il principio di proporzionalità risulta essere espressamente affermato dall’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE – alla quale è stato attribuito lo stesso valore giuridico dei trattati istitutivi – nonché dall’art. 52 della CEDU.
Secondo quanto affermato in ambito europeo, in particolare, le pene devono essere prevedibili, come tali in grado di consentire all’agente la possibilità di prefigurarsi le conseguenze penali della condotta posta in essere ed orientare così il proprio comportamento.
Affinché le pene possano ritenersi conoscibili, si osserva, è necessario che le stesse siano scritte, certe ed irretroattive, nonché proporzionate al fatto concreto.
A livello di normazione ordinaria è l’art. 133 c.p. a garantire l’applicazione pratica di tale principio, limitando la discrezionalità del giudice nell’applicazione della pena, la quale, oltre ad essere comminata entro la forchetta edittale prevista dalla norma penale incriminatrice, deve essere commisurata alla gravità in concreto della condotta e alla pericolosità sociale del reo.
Secondo il dettato dell’art. 133 citato, in particolare, la gravità del fatto è desunta da tutti gli elementi che evidenziano il disvalore della condotta (quali per esempio il luogo e le modalità dell’azione), da quelli che definiscono l’importanza dell’offesa arrecata al bene giuridico protetto (si pensi al riferimento alla gravità del danno e del pericolo cagionato) e dall’intensità del dolo o dal grado della colpa.
La capacità a delinquere, invece, dovendosi intendere come tale la probabilità che il reo commetta in futuro altri reati, è desunta dai motivi a delinquere e dal carattere di questo, dai precedenti penali e giudiziari, dalla sua condotta antecedente, contemporanea o successiva al reato e, infine, dalle sue condizioni di vita individuale, familiare e sociale.
Nella determinazione della pena, dunque, il giudice si trova ad esercitare una discrezionalità vincolata al rispetto di specifici limiti, sia esterni, in quanto coincidenti con la cornice edittale, sia interni, in quanto relativi alla gravità del fatto in concreto realizzato e alla capacità a delinquere del reo.
L’art. 133 bis c.p., d’altra parte, prescrive che nella determinazione della pena pecuniaria il giudice debba tener conto delle condizioni economiche dell’imputato.
Si deve inoltre considerare come la funzione dell’art. 62 bis c.p., disciplinante l’istituto delle attenuanti generiche, sia proprio quella di mitigare il trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore quando questo risulti sproporzionato alla gravità del reato e alla personalità del reo; nel riconoscere tali attenuanti, infatti, il giudice deve far riferimento ai criteri di commisurazione della pena di cui all’art. 133 c.p.
Tanto premesso in ordine alla base normativa del principio di proporzionalità, secondo quanto ritenuto dalla Consulta la pena può ritenersi proporzionata soltanto nel caso in cui sia finalizzata a reprimere forme di aggressione aventi ad oggetto beni giuridici di specifica rilevanza o comunque caratterizzate da particolare disvalore, in quanto implicanti l’uso di mezzi dotati di spiccata offensività, quali per esempio la violenza, la minaccia o l’inganno.
In quest’ottica, la Corte costituzionale ha censurato la possibilità per il legislatore di criminalizzare quelle condotte il cui danno sociale risulti qualitativamente e quantitativamente incompatibile con il sacrificio della libertà personale.
In altri termini, nel caso in cui la misura detentiva risulti sproporzionata alla gravità del fatto commesso, considerati il bene giuridico offeso o le modalità di aggressione, è possibile presidiare il precetto facendo ricorso ad una sanzione amministrativa, evitando cioè la restrizione della libertà personale.
L’ordinamento interno distingue infatti tra sanzioni penali, aventi carattere tendenzialmente punitivo, come tali soggette al principio di legalità nelle sue componenti di determinatezza ed irretroattività, e sanzioni amministrative, le quali assumono invece natura principalmente ripristinatoria, risultando pertanto soggette a minori tutele.
L’intervento della Consulta ha condotto il legislatore ad intraprendere un processo di depenalizzazione di quegli illeciti considerati di minore gravità, per i quali la sanzione detentiva finiva per non essere proporzionata al grado di lesività del fatto, risultando pertanto in contrasto con gli artt. 3, 13 e 27 della Carta fondamentale.
Tale processo è iniziato con la l. n. 689/81, con la quale si è pervenuti alla trasformazione di numerosi reati in illeciti amministrativi, prevedendo altresì l’estensione a tali fattispecie di alcuni principi generali che informano il diritto penale, quali quello di tassatività, irretroattività e colpevolezza.
Il processo di depenalizzazione è proseguito in forza della legge delega n. 67 del 2014, in attuazione della quale sono intervenuti i decreti legislativi nn. 7 e 8 del 2016.
Con il primo dei decreti citati si introduce la figura dell’illecito civile sanzionato pecuniariamente, sulla falsa riga dei c.d. “punitive damages” del modello statunitense.
In pratica, alcuni fatti che dapprima costituivano reato vengono attribuiti alla competenza del giudice civile, il quale, oltre a poter concedere il risarcimento del danno alla vittima, può altresì condannare il responsabile al pagamento di una somma di denaro a titolo sanzionatorio, la quale viene devoluta alla Casse delle ammende.
Con il secondo dei decreti citati, invece, si prevede la generale trasformazione in illeciti amministrativi di tutti i reati puniti con la sola pena pecuniaria, fatta eccezione per alcuni fatti rientranti in particolari materie e per talune fattispecie di reato tassativamente indicate.
In altre parole, data la non particolare gravità dei fatti considerati si ritiene che l’effetto dissuasivo nei confronti dei consociati possa essere adeguatamente raggiunto attraverso l’applicazione di sanzioni meno invasive di quelle penali, quali quelle civili o amministrative.
Secondo quanto ritenuto dalla giurisprudenza della Corte Edu, tuttavia, alcune sanzioni amministrative, considerata la particolare afflittività che le caratterizza, devono essere giuridicamente equiparate alle pene e considerate alla stregua di misure sostanzialmente penali, come tali sottoposte alle garanzie che il diritto europeo, e in particolare la CEDU, prevede per le pene.
Nel diritto sovranazionale si afferma così una concezione autonomistica dei reati e delle pene, la quale ammette la possibilità per il giudice europeo di pervenire alla qualificazione degli istituti di diritto interno in modo differente rispetto a quanto previsto dal legislatore nazionale, superando così la c.d. “truffa delle etichette”.
Tale fattispecie si verifica quando un ordinamento nazionale attribuisce ad una sanzione una natura giuridica diversa da quella che si ricava dall’analisi del suo contenuto sostanziale, con conseguente rischio di sottrarre gli illeciti depenalizzati alle garanzie offerte dalla CEDU.
Secondo il giudice europeo, infatti, la qualificazione di una sanzione deve avvenire considerando una serie di elementi, primo tra tutti il suo grado di lesività, il quale deve essere valutato anche in rapporto alle possibili alternative sanzionatorie.
D’altra parte, dovranno essere presi in considerazione altri fattori, quali la qualificazione della misura ad opera del diritto interno, i presupposti della sua applicazione, la natura del procedimento e del giudice competente a comminarla.
La Corte Edu introduce così la figura delle sanzioni c.d. “quasi penali”, ovvero quelle misure che sebbene formalmente amministrative, in quanto comminate all’esito di un procedimento amministrativo da un’autorità non avente carattere giurisdizionale, assumono in concreto la natura di sanzioni sostanzialmente penali.
A seguito della riqualificazione in termini sostanzialmente penali della sanzione amministrativa e della conseguente applicazione delle garanzie offerte dalla Convezione, si è pervenuti a riconoscere la violazione del principio del “ne bis in idem” nel caso in cui il giudice nazionale abbia irrogato una sanzione penale ed una misura amministrativa di carattere afflittivo/punitivo a fronte dei medesimi fatti.
L’esigenza di proporzionalità della pena, d’altronde, è stata affermata dalla Consulta al fine di garantire la ragionevolezza della misura rispetto a fattispecie penali sostanzialmente omogenee ma sottoposte a trattamento sanzionatorio fortemente differenziato.
Si pensi, a tal proposito, alle pronunce in tema di oltraggio a pubblico ufficiale, sequestro di persona a scopo di estorsione e alterazione di stato.
Con riferimento al reato di sequestro di persona a scopo estorsivo di cui all’art. 630 c.p., nello specifico, la Corte costituzionale ha subordinato la valutazione in ordine alla proporzionalità della pena alla necessità di procedere all’individuazione di un “tertium comparationis” cui ancorare l’intervento e la relativa declaratoria di incostituzionalità, al fine di evitare che la discrezionalità della Corte possa sostituirsi a quella del legislatore e dunque di garantire il principio di riserva di legge e di separazione dei poteri.
Nel caso di specie, la fattispecie di reato posta a confronto con l’art. 630 c.p. è quella di sequestro di persona a scopo di eversione o terrorismo ex art. 289 bis c.p., cui risulta applicabile l’attenuante ex art. 311 c.p.
Stante l’omogeneità delle ipotesi considerate, osserva la Consulta, appare irragionevole la mancata applicazione dell’attenuante di cui all’art. 311 citato anche al reato di sequestro di persona commesso a scopo di estorsione, quando il fatto risulta di lieve entità.
Con riguardo al reato di alterazione di stato di cui all’art. 567 c.p., invece, si è assistito ad un parziale superamento del tertium comparationis: nonostante le fattispecie previste dalla norma citata non possano infatti considerarsi “gemelle”, la Corte ha ritenuto di poter ugualmente scrutinare la proporzionalità della pena dettata dal secondo comma in relazione a quella prevista nel primo comma, in quanto tali illeciti, pur non essendo identici, non possono considerarsi del tutto disomogenei.
Pur essendo disciplinate diversamente dalle pene principali, e avendo rispetto a queste una differente funzione, anche le pene accessorie devono sottostare ai medesimi principi costituzionali in materia, tra i quali quello di proporzionalità.
A causa delle loro automatica applicazione e della durata in molte ipotesi fissa, infatti, le pene accessorie finiscono in alcuni casi per scontrarsi con il principio di proporzionalità.
In altri termini, l’automatismo applicativo che caratterizza alcune sanzioni interdittive e la loro durata, in alcuni casi predeterminata, contrasta con l’esigenza di proporzionalità e con lo scopo rieducativo della pena.
Si osserva, a riguardo, che l’automatismo applicativo che connota tali sanzioni e la perdita di proporzionalità di alcune di esse, sancite in maniera fissa dal legislatore, non possono ritenersi giustificati, come sostenuto da parte della dottrina, dalla peculiare finalità special/preventiva che le caratterizza, la quale non consente di sottoporle a differenti operazioni di dosimetria sanzionatoria rispetto alle pene principali.
Tali argomentazioni, in particolare, non paiono sufficienti a consentire la violazione dei principi di proporzionalità e di individualizzazione del trattamento punitivo, specialmente a seguito dell’influenza eurounitaria.
Quanto affermato dal giudice europeo, infatti, non coinvolge soltanto le pene principali e le misure di natura sostanzialmente penale, ma anche le pene accessorie, delle quali si deve riconoscere la portata fortemente limitativa dei diritti fondamentali della persona.
Come previsto dall’art. 37 c.p., la durata della pena accessoria, quando non è predeterminata dalla legge, deve corrispondere a quella della pena principale.
Tale norma finisce così per non consentire un’applicazione proporzionata della pena accessoria, come tale graduata alla gravità in concreto del fatto.
Proprio sulla base di tale considerazione, le sezioni unite della S.C. hanno ritenuto che l’art. 133 c.p. possa essere applicato anche alle pene accessorie obbligatorie, ove sia previsto un termine massimo di durata; solo in questo modo, osserva la Corte, la pena accessoria può infatti risultare effettivamente proporzionata.
Tale pronuncia si colloca nel solco tracciato dalla Consulta, la quale aveva precedentemente ammesso la possibilità di escludere l’operatività della regola dettata dall’art. 37 c.p. in riferimento alle pene accessorie della legge fallimentare, pervenendo alla declaratoria di parziale incostituzionalità dell’art. 216 l.f. nella parte in cui predeterminava nella misura fissa di dieci anni la durata delle relative pene accessorie.
Quanto affermato dalla Corte costituzionale è stato di recente esteso a qualsiasi pena accessoria temporanea, rispetto alla quale sia prevista una cornice edittale autonoma o comunque un limite entro il quale il giudice possa comminarla.
L’art. 37 c.p., pertanto, può attualmente essere applicato esclusivamente con riferimento a quei casi nei quali la legge prevede l’applicazione di una pena accessoria senza tuttavia nulla prevedere in merito alla sua durata.
In tutte le altre ipotesi, per contro, il giudice deve procedere ad una valutazione dosimetrica, oltre che della pena principale, anche di quella accessoria, potendo certamente pervenire ad una quantificazione di quest’ultima in misura differente rispetto alla prima.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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L'avvocato Cuccatto è titolare di uno studio legale in provincia di Torino con pluriennale esperienza nel campo del diritto civile, penale ed amministrativo.
L'avvocato è inoltre collaboratore esterno di un importante studio legale di Napoli, specializzato nel diritto civile.
Quale cultore della materie giuridiche, l'avvocato è autore di numerose pubblicazioni in ogni campo del diritto, anche processuale.
Forte conoscitore della disciplina consumeristica e dei diritti del consumatore, l'avvocato fornisce la propria rappresentanza legale anche a favore di un'associazione a tutela dei consumatori.
Quale esperto di mediazione e conciliazione, l'avvocato è infine un mediatore professionista civile e commerciale.
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