Il profitto illecito
La restituzione del profitto derivante da fatto illecito costituisce da anni una delle tematiche più dibattute dalla dottrina civilistica. Il confronto muove dal pressoché unanime consenso circa l’inidoneità del tradizionale rimedio della responsabilità aquiliana a fronteggiare le ipotesi in cui le condotte illecite abbiano portato al suo autore il conseguimento di un profitto di gran lunga superiore rispetto al danno risarcito o da risarcire. Difatti, anche a seguito dell’esperimento dell’azione risarcitoria ex art. 2043 cc, è ben possibile che il danneggiante conservi la parte del profitto che eccede il danno riparato. In tal senso allora, qualora l’illecito dia vita ad un arricchimento superiore al danno cagionato nella sfera giuridica altrui, è necessario non solo obbligare il suo autore al risarcimento, ma anche alla restituzione o retroversione degli utili illecitamente conseguiti. D’altronde, l’insufficienza del rimedio risarcitorio è intuibile dalla stessa funzione riconosciutagli dall’ordinamento, che lo lega al principio del neminem laedere, guardando allo stesso in un’ottica riparatoria e vittimologica. Tale prospettiva, peraltro, costituisce una novità del codice del 1942, posto che costituisce un ribaltamento della logica precedente, che vedeva nel risarcimento uno strumento prettamente sanzionatorio; il codice del 1865, difatti, diversamente da quello attualmente in vigore, faceva riferimento non al danno ingiusto, bensì al fatto ingiusto, in uno con il comportamento dell’agente. L’ordinamento civile attuale, viceversa, non si preoccupa della stigmatizzazione delle condotte colpevoli, ma si chiede su quale soggetto sia più giusto traslare il peso economico di un danno ingiustamente causato. Poiché tale danno si compone del danno emergente e del lucro cessante, risulta strutturalmente finalizzato a colmare la perdita patrimoniale subìta dal danneggiato, a prescindere dall’eventuale arricchimento prodottosi nella sfera del danneggiante.
Come si evince da quanto fin qui esposto, dunque, il profitto illecito, essendo altro rispetto al danno emergente ed al lucro cessante, necessita di essere sottratto dalla sfera giuridica del suo autore attraverso espedienti diversi da quello previsto ex art. 2043 cc. In particolar modo, si ritiene necessaria l’applicabilità di rimedi che abbiano una finalità prettamente restitutoria, volta, cioè, alla resa di proprio e di tutto ciò che il soggetto agente ha ottenuto operando sulla sfera giuridica altrui, indipendentemente dal pregiudizio alla stessa eventualmente cagionato.
Si tratta, dunque, di una diversità di rimedi che interessa, in prima battuta, l’oggetto dell’obbligazione stessa. Mentre, difatti, l’obbligazione risarcitoria ha per oggetto la riparazione del danno subìto, quella restitutoria la resa dell’arricchimento conseguito. Di qui, come sopra accennato, la necessità di appoggiarsi a strumenti giuridici diversi dal modello della responsabilità civile, al fine di rendere obbligatoria la retroversione dell’arricchimento originatosi dal fatto illecito. In tal senso, l’ordinamento civile contempla un ampio ventaglio di misure restitutorie, molte delle quali, tuttavia, appartengono a discipline settoriali. Tra queste spicca, innanzitutto ed indubbiamente, la previsione dell’art. 125 del codice della proprietà industriale (d.lgs. 30/2005).
Il codice normativo, di recente introduzione, nasce con lo scopo di tutelare le opere dell’ingegno e le invenzioni, oltre a quello di valorizzare e mettere in sicurezza i diritti morali e patrimoniali ad esse legati. La disposizione sopra richiamata ed inserita all’interno del codice, prevede, al comma 1, che il risarcimento del danno debba essere parametrato, tra l’altro, ai benefici ottenuti dall’autore della violazione. In tal senso, ed in un primo momento, dunque, gli utili conseguiti a seguito della violazione delle norme sulla proprietà industriale, consentono la liquidazione di un risarcimento misurato anche sul profitto. Inoltre, la medesima norma, attribuisce, in ogni caso, al soggetto danneggiato il diritto di chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione della speciale normativa, “in alternativa al risarcimento del lucro cessante o della misura in cui essi eccedono tale risarcimento”. Ciò implica la possibilità che l’obbligazione restitutoria possa coesistere con quella risarcitoria, anche se per la sola parte che eccede l’importo liquidato a titolo di lucro cessante. Il titolare del diritto leso avrebbe, così, diritto ad ottenere la liquidazione di una somma di denaro anche superiore al pregiudizio effettivamente sopportato, in virtù dell’esistenza di un diritto che si colloca al di fuori dell’area del risarcimento del danno. La logica della retroversione degli utili si mostra, così, la sua impronta sanzionatoria, incentrata, cioè, sulla necessità, avvertita dal legislatore, di privare il danneggiante dell’utile illecito.
In termini simili si esprime l’art. 158 della legge sul diritto d’autore, la n. 633/1941, recentemente oggetto di riforma. La disposizione, difatti, nell’approntare la tutela risarcitoria nei confronti di chi si ritiene leso nei suoi diritti di utilizzazione economica, prevede la valutazione del lucro cessante in funzione anche degli utili illecitamente realizzati dal danneggiante.
Le due norme sopra richiamate, come già evidenziato, si riferiscono a settori specifici del diritto civile e, come tali, presentano un campo di azione assai ristretto. Per tale ragione, al di là delle azioni speciali, si è cercato di individuare un’azione di portata generale finalizzata alla restituzione del profitto illecito.
Parte della dottrina ha, a tal fine, concentrato la propria attenzione sull’art. 2041 cc, ossia sull’azione di ingiustificato arricchimento, cercando di superare le anacronistiche remore in proposito, dovute alla sussidiarietà di tale rimedio. Difatti, la stessa disposizione prevede la possibilità di ricorrervi solo laddove il danneggiato non abbia a disposizione una diversa azione con cui ottenere l’indennizzo per il pregiudizio subìto. In tal senso, tradizionalmente si è ritenuto di escluderne l’esperibilità in presenza di un illecito civile, dal momento che l’ordinamento mette già a disposizione del danneggiato l’azione di risarcimento del danno. Un atteggiamento più morbido si è, più di recente, mostrato, a seguito della riconsiderazione della ratio primaria su cui si fonda la sussidiarietà dell’azione di arricchimento ingiustificato, legata alla necessità di evitare che il soggetto leso riceva più volte ristoro del medesimo pregiudizio a titoli diversi; in tal caso, difatti, conseguirebbe a sua volta un arricchimento ingiustificato. Reinterpretata teleologicamente allora, la norma consentirebbe sicuramente il ricorso all’azione in maniera alternativa rispetto al rimedio del risarcimento, sicuramente spettante in caso di illecito civile; quanto, poi, alla possibilità di un eventuale cumulo delle azioni, dottrina e giurisprudenza si dividono. Difatti, la prima acconsentirebbe al ricorso della successiva azione ex art. 2041 cc in funzione complementare, qualora, cioè,il risarcimento del danno ottenuto ex art. 2043 cc non fosse integrale. Di diverso avviso la giurisprudenza prevalente, che nega in toto la possibilità di un eventuale concorso.
In ogni caso, tuttavia, si evidenzia l’insufficienza del rimedio così proposto al fine di ottenere la restituzione dell’intero profitto dell’autore dell’illecito, che resta nel suo patrimonio.
Ciò in quanto l’azione di arricchimento ingiustificato consente l’ottenimento di un indennizzo legato alla diminuizione patrimoniale del soggetto tutelato. Il soggetto che abbia ottenuto un arricchimento patrimoniale a discapito di un altrui depauperamento, non è tenuto, ai sensi della lettera della disposizione, al versamento dell’utile netto (o plus-valore) conseguito grazie a proprie capacità o attività professionali in seguito messe in moto. Di conseguenza, nemmeno il ricorso al suddetto rimedio può dirsi satisfattivo al fine di individuare un’azione generale che consenta la retroversione degli utili derivanti da fatto illecito.
Lo sguardo, allora, dovrà dirigersi verso una diversa soluzione, che viene, da più parti, individuata nella disciplina della gestione di affari altrui. Gli artt. 2028 e ss. Cc che la regolano, prevedono che la decisione di ingerirsi nella sfera giuridica altrui, comporti i medesimi effetti del contratto di mandato e consenta, dunque, al gerito di richiedere la restituzione degli utili ingiustamente conseguiti dal gerente, previa ratifica del suo operato. L’atto illecito, in tal caso, si sostanzia nell’ingiustificata ingerenza negli affari altrui, e consente, tramite rimando alla disciplina del mandato, la restituzione del profitto illecito lucrato, a prescindere dagli intenti egoistici o altruistici per i quali ha avviato la gestione. In tali casi, dunque, si tende ad ammettere la duplice possibilità per il gerito di conseguire il risarcimento del danno patito per effetto della condotta del gerente ex art. 2043 cc, e di ricorrere, in alternativa, al rimedio specifico ex art. 2032 cc previsto per la negotiorum gestio.
Si tratta di un espediente avallato anche recentemente dalla Suprema Corte di Cassazione, le cui Sezioni Unite, nel 2012, hanno applicato all’ipotesi in cui uno dei due comproprietari di un immobile abbia locato a terzi senza il consenso dell’altro. In particolare, secondo la ricostruzione proposta, il comproprietario che abbia deciso di locare all’insaputa dell’altro, assume rispetto allo stesso la qualità giuridica di gestore di affare altrui, senza che la contitolarità del bene sia in alcun modo di ostacolo all’applicazione della disciplina di cui agli artt. 2028 e ss cc; ciò in quanto risulta palese che colui che amministra un bene in comproprietà, si occupa di un interesse non solo proprio, ma anche altrui. Quindi, una volta che il comproprietario non locatore sia entrato a conoscenza dell’operazione economica compiuta dal comproprietario locatore, avrà la facoltà di ratificarne l’operato, e, di seguito, ottenere la quota dei canoni di locazioni a lui spettanti e corrispondenti alla quota della comproprietà. Ciò sulla base dell’esplicito rimando che la disciplina della gestione di affari altrui compie agli effetti del mandato, che consente al mandante di sostituirsi al mandatario al fine di esercitare i diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato stesso.
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Giulia Paffetti
Avvocato
Nata ad Arezzo il 21.05.1991.Ha conseguito la laurea in giurisprudenza, cum laude, presso l'Università degli studi di Siena il 29.04.2016 con tesi in diritto penale.In data 09.07.2018 ha conseguito il diploma di specializzazione presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni legali - Università degli studi di Firenze, con tesi in diritto penale processuale.Ha conseguito l'abilitazione per l'esercizio della professione forense in data 19.11.2018.
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