Il punto sulla compensatio lucri cum damno

Il punto sulla compensatio lucri cum damno

Con l’espressione compensatio lucri cum damno si ha riguardo al caso in cui il giudice, laddove una condotta antigiuridica abbia prodotto anche effetti positivi nella sfera del danneggiato, deve  tenere conto, in sede di quantificazione del danno, non solo del pregiudizio causato dal fatto illecito ma altresì degli eventuali vantaggi che ne sono derivati.

Giova, per vero, segnalare che l’uso del termine «compensare»  nulla ha a che vedere con l’istituto della compensazione disciplinato dagli artt. 1241 ss. c.c., il quale, diversamente, rientra tra i modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento per elisione di reciproci debiti sino a parità di valore. E infatti, mentre nella compensazione, quale causa di estinzione dell’obbligazione, la reciprocità di debiti e crediti presuppone l’esistenza di due separati e autonomi patrimoni appartenenti a due soggetti diversi, la compensazione da operarsi tra lucro e danno, invece, è riferibile a un unico assetto patrimoniale.

Tanto chiarito, dottrina e giurisprudenza si interrogano, in ragione del silenzio normativo sul punto, se e in che modo detto effetto economico vantaggioso debba essere computato in detrazione a quanto dovuto dal danneggiante a titolo di risarcimento.

Segnatamente, i problemi della compensatio lucri cum damno nascono nel momento stesso in cui si cerca di definirla.

Al riguardo, tre le tesi sul tappeto.

Alcuni autori negano del tutto che nel nostro ordinamento esista un istituto giuridico di tal fatta attesa la mancanza di una disciplina ad hoc. Si evidenzia, inoltre, il carattere iniquo di una fattispecie che altro non produrrebbe se non l’effetto di sollevare l’autore del fatto illecito dalle conseguenze del suo operato.

Un secondo orientamento, all’opposto, ammette che in determinati casi danno e lucro debbano compensarsi ma nega che ciò possa avvenire in applicazione di una regola generale, sicché il problema dell’individuazione delle conseguenze risarcibili di un illecito si atteggia a questione di mero fatto da risolversi caso per caso.

Infine, un’ulteriore e maggioritaria opzione interpretativa sostiene che la figura in disamina, di elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, che ha radici storiche antiche risalenti al diritto romano, rinviene il proprio fondamento normativo negli artt. 1223 c.c. e 2056 c.c., attenendo al danno conseguenza e al nesso di causalità giuridica.

La compensatio peraltro costituisce il logico corollario del principio per cui la responsabilità civile assolve ad una funzione compensativa e ripristinatoria dello status quo ante, ragion per cui, ai fini della determinazione del danno da risarcire, occorre operare un raffronto tra il valore attuale del patrimonio del danneggiato ed il valore che esso avrebbe presentato se l’illecito non si fosse verificato, alla stregua della cd. Differenztheorie.

Per quanto attiene invece al relativo ambito applicativo, divergenti risultano le soluzioni elaborate dagli interpreti.

La tematica in oggetto è venuta in rilievo, in particolare, in seguito alla nota strage di Ustica in occasione della quale è sorto l’interrogativo circa il rapporto tra la  richiesta risarcitoria  avanzata dalla società Aerolinee Itavia s.p.a. ai Ministeri della Difesa, dei Trasporti e dell’Interno, per non aver garantito la regolare circolazione nonché la sicurezza del volo, e la pretesa indennitaria nei confronti dell’assicurazione.

E’ proprio in questo contesto che si collocano le quattro ordinanze del 2017 numeri  15535, 15536  15537e 15543 in cui il giudice rimettente si domanda se, in sede di delimitazione del quantum risarcibile, si debba prendere in considerazione l’indennizzo già corrisposto dalla compagnia assicurativa per il valore del velivolo e per i danni da revoca della concessione di volo.

La problematica surriferita, per vero, offre lo spunto per una profonda rimeditazione sui presupposti nonché sulle maglie operative della compensatio lucri cum damno.

In merito, occorre chiarire come, secondo l’impostazione tradizionale, perché l’istituto in disamina operi la causa delle conseguenze favorevoli e quella degli effetti sfavorevoli per il danneggiato deve essere la stessa. Pertanto, trovando il diritto al risarcimento la sua fonte nel fatto illecito mentre  il diritto all’indennità nella legge o nel contratto, la compensatio dovrebbe escludersi per la diversità dei titoli: il fatto illecito sarebbe, infatti, mera occasione del lucro e non causa di esso.

In direzione del tutto opposta, il giudice rimettente critica queste conclusioni, offrendo interessanti argomenti logici e sistematici.

In primo luogo  si rileva come, richiedendo l’identità di causa sia per il danno sia per il lucro, si finisca di fatto per disapplicare l’istituto in analisi. E’ infatti assai raro, se non impossibile, che l’illecito possa provocare da sé solo, e cioè senza il concorso di nessun altro fattore umano o giuridico, e una perdita e un guadagno. E anzi, l’affermazione secondo cui la regola della compensatio opera soltanto se danno e lucro scaturiscono in modo diretto e immediato dal fatto illecito appare il frutto di un  fraintendimento da parte della dottrina tradizionale che, erratamente, ha trasformato il requisito della medesimezza della condotta nella medesimezza del fatto.

Così opinando, inoltre, si finisce per escludere l’operatività della fattispecie de qua qualora la vittima abbia ottenuto un vantaggio patrimoniale in conseguenza di una norma di legge o di un contratto, giacché il fatto illecito costituirebbe una mera occasione non già la causa del lucro.

In senso critico, si osserva come seguire un tale argomentare significherebbe entrare in contrasto con la moderna nozione di causalità giuridica contemplata nell’art. 1223 c.c. in virtù del quale il nesso di causalità va inteso in modo da ricomprendere nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati che si presentano come effetto normale della condotta antigiuridica, secondo il principio della cd. regolarità causale. Non sarebbe, pertanto, corretto interpretare siffatta disposizione in modo asimmetrico e ritenere che il rapporto tra illecito ed evento possa anche non essere diretto ed immediato quando si tratta di accertare il danno ed esigere, al contrario, che lo sia quando si tratta di accertare il vantaggio originato dal medesimo fatto illecito. Sicché, l’impostazione per cui l’illecito sarebbe mera occasione del lucro quando esso è ottenuto dalla vittima in virtù della legge o del contratto entra in collisione con i principi generali che governano la responsabilità civile.

E’ da rifiutarsi, infatti, al di fuori dei casi espressamente consentiti dalla legge, la logica punitiva del meccanismo risarcitorio. Quest’ultimo, al contrario, assolvendo ad una funzione riequilibrativa e compensativa, oltre che preventivo-deterrente, come già ricordato, è volto non già all’arricchimento del danneggiato ma al mero ristabilimento delle condizioni patrimoniali iniziali, le quali devono essere ricostituite come se non ci fosse stato l’illecito, secondo una concezione differenziale.

Inoltre, l’orientamento che nega la compensatio tra il danno e i benefici erogati dall’ente previdenziale o dall’assicuratore implica il rischio di determinare l’abrogazione dell’azione di surrogazione spettante alla vittima.

E’ noto invero che il limite oggettivo della surrogazione è il danno effettivamente causato dal responsabile, il quale non può mai essere costretto, in ragione dell’estraneità della responsabilità civile ad una ratio sanzionatorio-afflittiva, a pagare due volte: una al danneggiato, l’altra al surrogante. Dunque, se le conseguenze del fatto illecito sono state eliminate dall’intervento di un assicuratore ovvero da qualsiasi ente pubblico o privato, il pagamento effettuato da tale soggetto andrà sempre detratto dal credito risarcitorio, in virtù del c.d. principio di indifferenza del risarcimento secondo cui il ristoro del danno subito non può rendere la vittima  né più ricca né più povera di quanto non fosse prima della commissione dell’illecito. Ciò  si desume da un reticolo di norme diverse. Anzitutto, dall’art. 1223 c.c. il quale prescrive che il risarcimento deve includere solo la perdita subita e il mancato guadagno. In secondo luogo, dagli artt. 1909 e 1910 c.c. che assoggettano l’assicurazione contro i danni al cd. principio indennitario, così escludendo che la vittima possa cumulare il risarcimento e l’indennizzo.

E’ opportuno, inoltre, analizzare il profilo della surroga dell’assicuratore nel caso in cui questi non abbia manifestato la volontà di avvalersene nei confronti del responsabile.

Nel dettaglio, la surrogazione ex art. 1916 c.c. costituisce, secondo unanime giurisprudenza, una successione a titolo particolare dell’assicuratore nel diritto dell’assicurato e, quindi, perché il diritto si trasferisca è necessario che esso sia perso dall’assicurato e acquistato dall’assicuratore. Tuttavia, il venir meno del diritto al risarcimento in capo all’assicurato è il prodotto del solo pagamento, non già della surrogazione.

Tanto chiarito, laddove l’assicuratore rinunci alla surrogazione sin dal momento della stipula del contratto dispone di un proprio diritto, non altrui, e tale atto di disposizione non muta l’effetto estintivo del pagamento. In altri termini, la percezione dell’indennizzo da parte del danneggiato elide in misura corrispondente il suo credito risarcitorio nei confronti del danneggiante, che pertanto cessa di esistere e non può essere più preteso né azionato. Ne discende che il fatto che l’assicuratore della vittima abbia rinunciato alla surrogazione è circostanza irrilevante ai fini del problema, giacché non sussiste alcun nesso di implicazione reciproca tra il diritto di surrogazione e il divieto di cumulo tra indennizzo e risarcimento. Difatti, mentre il primo costituisce una modificazione soggettiva dell’obbligazione, finalizzata ad evitare il depauperamento dell’assicuratore e che può risultare assente senza che il contratto di assicurazione perda la sua natura; l’altro attiene al nucleo causale del contratto in oggetto e la cui mancanza finisce inevitabilmente per trasformare quest’ultimo in un diverso negozio.

La tematica in disamina, per vero, è stata altresì posta all’attenzione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato attraverso l’ordinanza di rimessione del 6 giugno 2017 n. 2719  adottata nel corso di un giudizio di appello, proposto dal Ministero di Grazia e Giustizia, soccombente in primo grado, avverso una sentenza che aveva accolto la domanda di condanna del dicastero al risarcimento del danno biologico e del danno non patrimoniale patiti dal ricorrente in conseguenza dell’esposizione all’amianto, senza la detrazione degli importi già percepiti a titolo di equo indennizzo in quanto aventi carattere previdenziale.

Al riguardo, il giudice amministrativo  con il recente arresto del 23 febbraio del 2018 n.1 ha chiarito come la  presenza di un’unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario.

Ancora, invece, si attende che le Sezioni Unite della Cassazione stabiliscano, così ponendo fine allo spinoso contrasto fin qui delineato, se sia possibile o meno sottrarre dal complessivo importo dovuto al danneggiato a titolo di risarcimento del danno gli emolumenti di carattere indennitario versati da assicuratori privati o sociali ovvero da enti pubblici, specie previdenziali.


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Mariangela De Cesare

Avvocato specializzato in ambito civilistico e nella contrattualistica pubblica.

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