Il quadro normativo nel sistema delle emissioni di gas serra

Il quadro normativo nel sistema delle emissioni di gas serra

Sommario: 1. Introduzione – 2. Uno sguardo alla normativa internazionale – 3. Analisi della normativa comunitaria – 4. La normativa nazionale – 5. Conclusioni

 

1.   Introduzione

La continua crescita economica mondiale ed in particolare quella delle economie emergenti, ha causato, negli ultimi anni, un notevole aumento del consumo di energia primaria con la conseguenza di un significativo incremento delle emissioni di gas serra. Secondo gli ultimi dati del nuovo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), nel 2019 le emissioni totali di gas a effetto serra hanno raggiunto i valori di 59,1 giga-tonnellate di CO2  con un aumento  medio dell’1,4%  rispetto all’anno dal 2010 e con  un picco del 2,6% nel 2019 per l’incremento degli incendi boschivi. Questi dati rischiano di mettere in discussione gli obiettivi previsti per il 2030, presentati come impegni dei singoli Paesi membri proprio in occasione dell’Accordo di Parigi.

Diversi studi, tuttavia, hanno dimostrato che, anche nel caso in cui tutti i Paesi rispettassero gli impegni sottoscritti a Parigi, le emissioni mondiali di gas serra continuerebbero a crescere anche oltre il 2030 e la temperatura arriverebbe a superare a fine secolo la soglia dei +3°C rispetto al periodo preindustriale (la temperatura media del periodo 1850–1900) con conseguenze devastanti per la società e l’economia. I danni reali e potenziali connessi alla crisi climatica, stimati dal World Economic Forum nel 2018, sono stati quantificati in 160 miliardi di dollari ponendo tra le cause principali gli eventi metereologici estremi e il fallimento delle politiche climatiche oltre che l’utilizzo crescente di combustibili fossili che soddisfano l’80% della domanda finale di energia e che solo nel 2018 hanno beneficiato di oltre 400 miliardi di $ di sussidi diretti al consumo.

Nel nostro Paese, secondo gli ultimi dati aggiornati da Eurostat al 2020, le fonti rinnovabili nel corso degli anni sono cresciute notevolmente e, anche se i Paesi del Nord Europa (Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria) soddisfano il loro fabbisogno energetico per oltre il 40% con energie da fonti rinnovabili l’Italia si attesta intorno al 18%.

Per quanto riguarda i livelli di emissioni globali di CO2, derivanti dall’uso di carbone, secondo i dati pubblicati dall’International energy agency (Iea), queste, nel 2020, dopo una piccola diminuzione nel 2019, hanno raggiunto nuovamente i livelli pre-pandemia.

2.   Uno sguardo alla normativa internazionale

Sono veramente numerose le norme che disciplinano la materia delle emissioni sia a livello internazionale che comunitario e nazionale e con il presente lavoro si vuole proporre una sintesi di quelle che sono state più incisive.

Senza dubbio, la prima tappa decisiva delle politiche climatiche in ambito internazionale è stata rappresentata dalla Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite, svoltasi a Rio de Janeiro nel 1992, durante la quale è stata approvata la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) che, partendo dalla constatazione che l’incremento di emissioni di Gas  effetto serra (Greenhouse Gas – GHG) di origine antropica intensifica l’effetto serra naturale, pone l’obiettivo  di “stabilizzare le concentrazioni di gas ad effetto serra nell’atmosfera ad un livello tale che sia esclusa qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico”. La Convenzione riconoscendo la portata mondiale dei cambiamenti climatici, chiede, sulla base del principio di responsabilità, una collaborazione dei singoli Stati che tenga conto delle rispettive capacità di contribuzione e delle loro condizioni economiche e sociali.

In questo contesto, viene istituita la Conferenza delle Parti (COP), che svolge un ruolo fondamentale nell’attuazione della politica di riduzione delle emissioni, presentandosi quale “organo supremo di questa convenzione” che vigila sulla sua regolare attuazione e su quella di qualsiasi strumento giuridico collegato a questa. La prima riunione della COP ha avuto luogo nel 1995 a Berlino, le successive sessioni sono state convocate con cadenze annuali. Al termine della terza Conferenza delle Parti (COP-3), che si è svolta a Kyoto in Giappone, è stato adottato il cosiddetto “Protocollo di Kyoto”, con l’obiettivo di ridurre, nel quinquennio 2008-2012, le emissioni di alcuni GHG di almeno il 5,2% rispetto ai livelli del 1990.  L’Art. 3 del Protocollo prevede la possibilità per le Parti di assolvere agli impegni assunti tramite lo strumento dei carbon sinks, ossia attraverso pozzi di assorbimento di carbonio, e individua il principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”. Ai paesi in via di sviluppo non viene imposto di procedere a una riduzione delle emissioni, poiché si ritiene che l’elevata quantità di GHG presenti in atmosfera sia da attribuire all’attività industriale posta in essere negli ultimi 150 anni dai paesi sviluppati e che di conseguenza debba essere richiesta a questi un’azione volta a contrastare concretamente i cambiamenti climatici. Il protocollo introduce tre meccanismi di flessibilità: la Joint Implementation (JI); l’Emission Trading (ET); il Clean Development Mechanism (CDM).

Il meccanismo della Joint Implementation, regolato dall’Art. 6, permette ad ogni Parte prevista dall’Allegato I di adempiere ai propri obblighi acquistando da ogni altra Parte dell’Allegato I delle unità di riduzione che risultano derivare da progetti volti proprio alla riduzione di emissioni di GHG di origine antropica.

L’Art. 12 disciplina il Clean Development Mechanism, che si propone di incentivare le Parti di cui  all’Annex I a promuovere e a finanziare progetti di riduzione delle emissioni in Paesi non Annex I contabilizzando a proprio favore le unità di riduzione delle emissioni derivanti da tali progetti, ma anche per adempire all’obbligo di trasferire tecnologie tali da consentire uno “sviluppo pulito” nei paesi in via di sviluppo.

Il sistema di Emission Trading, previsto all’Art. 17, permette alle “Parti incluse nell’Allegato B”, con unità di riduzione di emissioni in eccesso, di commercializzarle con altre Parti che, al contrario, sono lontane dal raggiungimento del loro obiettivo, al fine di adempiere agli obblighi che derivano dall’Art 3. L’Italia aveva sottoscritto un obiettivo di riduzione del 6,5% che era stato quantificato sulla base delle indicazioni di alcuni Enti di ricerca nazionali.

Con Agenda 21, vengono identificati i 27 “principi” per declinare a livello locale lo sviluppo sostenibile e nel 2000 è stata presentata la Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite in cui si veniva ratificato l’impegno a raggiungere, entro il 2015, otto obiettivi di sviluppo del millennio, tra cui il 7° era quello di “garantire la sostenibilità ambientale”.

Una piccola evoluzione nella lotta ai cambiamenti climatici si ha con la COP-13 svoltasi a Bali, in Indonesia, nel 2007 e nello specifico con l’accordo detto Bali Road Map con cui viene avviato un processo di negoziazione basato sull’attività di un Ad Hoc Working Group (AWG-KP) volto a negoziare gli obiettivi del secondo periodo del Protocollo e dall’altro lato si stabilisce il lavoro di un Ad Hoc Working Group on Long-Term Cooperative Action (AWG-LCA) volto a stabilire gli impegni futuri delle Parti non firmatarie di Kyoto.

Pur senza alcuna formalizzazione, durante la COP-15, svoltasi a Copenaghen nel 2009, fu raggiunto un accordo tra 25 Paesi, tra cui Stati Uniti e Cina, in cui si faceva esplicito riferimento alla necessità di non superare il limite dell’aumento delle temperature del pianeta di 2°C rispetto al livello preindustriale, ed eventualmente di abbassarlo ad 1,5°C. Si prevedeva, inoltre, un impegno finanziario da parte dei paesi industrializzati a favore dei PVS di 30 miliardi di dollari l’anno tra il 2010 e il 2012 e di 100 miliardi di dollari a partire dal 2020 per favorire politiche di misure di adattamento ai cambiamenti climatici.

Il risultato più importante della COP 17, svoltasi a Durban nel 2011 è stato l’adozione della Piattaforma di Durban che si proponeva di raggiungere un nuovo accordo globale nel 2015 da applicare dal 2020, che ha riunificato nella stessa cornice negoziale i gruppi di paesi sottoscrittori e quelli non sottoscrittori del Protocollo di Kyoto.

Nel 2012, la COP 18 di Doha produsse il The Doha Climate Gateway e l’impegno di assunzione degli oneri economici da parte dei paesi industrializzati per i danni climatici patiti dai PVS (il cosiddetto meccanismo Loss and Damage). Fu, inoltre, emanato l’emendamento di Doha al protocollo di Kyoto, che prevedeva un secondo periodo di impegno dal 2012 al 2020 nella riduzione delle emissioni per tutti i Paesi sottoscrittori ad eccezione di Stati Uniti e Canada e dei PVS, compresa la Cina.  Alcuni Paesi (Giappone, Russia e Nuova Zelanda) non assunsero ulteriori impegni di riduzione delle emissioni, altri si impegnarono a ridurre le emissioni del 18% rispetto ai livelli del 1990 mentre i paesi dell’UE e dell’Islanda del 20 %.

Nell’ambito della COP-21, è stato adottato l’Accordo di Parigi, entrato in vigore il 16 novembre 2016, che dispone obiettivi di riduzione tali da consentire il mantenimento dell’aumento della temperatura media terrestre entro i 2°C ed auspica un incremento degli sforzi per limitare l’aumento di temperatura a 1,5° C rispetto ai livelli preindustriali.

La 25ma Conferenza delle Parti (COP-25) tenuta a Madrid, anziché a Santiago del Cile, ha indicato come priorità le seguenti azioni: energie rinnovabili; elettro-mobilità; estrazione mineraria verde; economia circolare; oceani; foreste e agricolture resistenti al cambiamento climatico; città sostenibili e infrastrutture resistenti; finanza climatica. Di fatto i diversi Paesi non sono riusciti a raggiungere l’accordo di non superare la soglia fatidica di 2° C sopra la temperatura media terrestre preindustriale degli accordi di Parigi; da abbassare a 1,5° C, secondo gli studi scientifici, per evitare il punto di non ritorno. Con i piani attuali, si arriverebbe a + 3,2° entro fine secolo. Durante la COP 25 gli Stati Uniti hanno avviato le procedure per uscire dall’Accordo di Parigi cosa che si concretizzerà nel corso della COP 26 ma anche Arabia Saudita, Australia e Russia si sono opposti ai maggiori tagli delle emissioni. Il Brasile ha bloccato l’accordo sul mercato del carbonio rivendicando di poter conteggiare crediti vecchi mentre Cina e India non hanno attuato misure idonee alla riduzione delle emissioni.

Ulteriori importanti risultati si aspettano dalla COP 26 che doveva tenersi a Glasgow, entro la fine del 2020, ma che è stata rinviata a causa della pandemia a fine 2021. Nella conferenza in questione, tutti i Paesi dovranno presentare nuovi Piani nazionali per non superare la soglia dei 2°C sopra la temperatura media terrestre preindustriale ed essa coincide dal punto di vista temporale con la fine della fase di prolungamento del Protocollo di Kyoto e con l’avvio operativo dell’Accordo di Parigi.

3.   Analisi della normativa comunitaria

L’analisi della normativa comunitaria evidenzia che mentre all’inizio con il Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea del 1957 la politica comunitaria non prendeva in considerazione il diritto ambientale successivamente c’è stata una enorme proliferazione di Direttive e Regolamenti che hanno cercato di disciplinare i diversi aspetti legati alle questioni ambientali.

Il punto di svolta può essere identificato nell’adozione del Primo Programma d’Azione Ambientale del 1973 che ha fornito un quadro di principi e obiettivi ed ha indicato le azioni da adottare, seguito da una serie di programmi in materia ambientale che continuavano ad indicare i principi e le azioni da mettere in atto per la tutela dell’ambiente.

Anche i Programmi ambientali successivi si presentano come delle dichiarazioni di intenti e si limitano a stabilire gli obiettivi prioritari da perseguire, ma non dettano norme vere e proprie.

Un decisivo passo in avanti è stato fatto con l’adozione nel 1986 dell’Atto Unico Europeo che ha introdotto nel trattato del 1956 un titolo dedicato all’ambiente, che rappresenta una specifica base giuridica nel testo del Trattato. Un ulteriore sviluppo si realizza con l’adozione del Trattato di Maastricht entrato in vigore nel 1993, che attribuisce all’azione in materia ambientale il rango di vera e propria politica e che prevede, all’Art. 2, tra i compiti dell’Unione europea quello di una “crescita sostenibile che rispetti l’ambiente”.

Dopo questo trattato con la Decisione n. 1600/2002/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, viene approvato il Sesto Programma d’Azione Ambientale denominato “Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta” che stabilisce un piano d’azione per l’UE nel periodo luglio 2002-luglio 2012, e individua come principali ambiti d’intervento il cambiamento climatico, la natura e la biodiversità, l’ambiente, la salute e la qualità della vita, le risorse naturali e l’acqua.

Il successivo Trattato di Amsterdam, entrato in vigore nel 1999, ha previsto, all’Art. 2 del Trattato istitutivo tra gli obiettivi della Comunità Europea quello dello sviluppo sostenibile e il principio volto a favorire l’integrazione del settore ambientale nelle altre politiche europee.

Il Trattato di Nizza del 2003 non ha previsto modifiche sostanziali al precedente assetto, mentre nel 2009 il Trattato di Lisbona ha potenziato l’impegno dell’UE nel settore ambientale proponendo un approccio alla risoluzione delle problematiche ambientali di tipo globale.”

In ogni caso gli Stati membri hanno il diritto di determinare le condizioni di utilizzo delle loro fonti energetiche, di effettuare una scelta tra varie fonti energetiche e di definire la struttura generale del loro approvvigionamento energetico.

In seguito, è stato adottato con Decisione n. 1386/2013/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 novembre 2013 “Il Settimo Programma d’Azione Ambientale”, dal titolo “Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta” che si pone in continuità con il precedente programma quadro.

Per diverso tempo l’Unione europea è intervenuta nel settore ambientale con una normativa di regolamentazione diretta (command and control) attraverso la definizione di regole comuni ai principali operatori (es. fissazione di standard ambientali, divieto di ricorrere ad alcune pratiche, ecc.), che tuttavia non si è dimostrata in grado di affrontare i problemi specifici in quanto venivano imposti gli stessi obiettivi agli operatori dei diversi settori con  costi molto diversi tra loro.

Successivamente viene adottato un sistema che prevede l’intervento dello Stato che istituisce tasse sull’inquinamento e introduce un sistema di incentivi e disincentivi per correggere le esternalità negative rappresentate dall’inquinamento.

In seguito, sono stati ideati i “tradable pollution rights” che prevedono l’intervento dell’autorità pubblica che, stabilito il livello massimo d’inquinamento ammissibile in una specifica area, determina la quantità complessiva di permessi di inquinamento da distribuire agli inquinatori. Ai singoli impianti non vengono imposti dei limiti alle emissioni, ma di avere un numero di permessi sufficiente a coprire le proprie emissioni, dando loro anche la possibilità di vendere i permessi in eccesso sulla base dell’esempio statunitense.

La Direttiva 2003/87/CE, conosciuta come Direttiva Emission Trading (Direttiva ET) ha istituito un proprio sistema interno di scambio di quote di emissione con l’obiettivo finale, previsto dall’Art. 1, di ridurre le emissioni ad effetto serra mediante l’istituzione di un mercato di permessi di emissione europeo, in funzione già a partire dal 2005. Poiché la suddetta direttiva non disciplinava il collegamento di questo sistema ET con i meccanismi flessibili di mercato del Protocollo di Kyoto, è stata emanata dalla Direttiva 101/2004/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 ottobre 2004 recante modifica della direttiva 2003/87/CE che istituisce un sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra nella Comunità, riguardo ai meccanismi di progetto del Protocollo di Kyoto.

Al fine di assicurare il funzionamento di un sistema sicuro e coerente di registri nazionali e il loro coordinamento, la Commissione successivamente ha adottato il Regolamento (CE) 2216/2004 della Commissione del 21 dicembre 2004 relativo ad un sistema standardizzato e sicuro di registri a norma della direttiva 2003/87/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e della decisione n. 280/2004/CE del Parlamento europeo e del Consiglio nel 2004.

Con la Direttiva 2008/101/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008, è stata modificata la direttiva 2003/87/CE al fine di includere le attività di trasporto aereo nel sistema comunitario di scambio delle quote di emissioni dei gas a effetto serra successivamente dalla Direttiva 2009/29/CE adottata nell’ambito dell’ampia cornice del Pacchetto Clima-Energia. La direttiva stabilisce che il tetto alle emissioni di GHG venga stabilito a livello centrale dell’UE e che le quote debbano essere assegnate sulla base di norme disposte dalla Direttiva in questione, da ultimo modificata dal Regolamento Commissione Ue 2019/1842/Ue Emission trading- Disposizioni di applicazione della direttiva 2003/87/Ce – Modalità di adeguamento dell’assegnazione gratuita di quote di emissioni in funzione delle variazioni del livello di attività.

Le emissioni provenienti dagli impianti industriali sono disciplinate dalla direttiva 2010/75/UE che stabilisce norme riguardanti la prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento proveniente da attività industriali e tese ad evitare oppure a ridurre le emissioni delle suddette attività nell’aria, nell’acqua e nel terreno e ad impedire la produzione di rifiuti, per conseguire un livello elevato di protezione dell’ambiente.

Successivamente l’Unione Europea con la direttiva 2015/2193/UE ha regolamentato anche le emissioni nell’atmosfera di anidride solforosa, ossidi di azoto e polveri (particelle) originate da impianti di combustione medi ed ha emanato norme tese a monitorare le emissioni di monossido di carbonio provenienti da tali impianti, al fine di ridurre i possibili effetti nocivi per la salute umana e l’ambiente. La Commissione presenterà i risultati al Parlamento europeo e al Consiglio entro 12 mesi dalla ricezione delle relazioni nazionali sull’attuazione ed  entro il 1o gennaio 2020, riesaminerà i progressi fatti in relazione all’efficienza energetica degli impianti di combustione medi e valuterà i vantaggi legati alla fissazione di norme minime di efficienza energetica ed entro il 1o gennaio 2023, valuterà la necessità di riesaminare alcuni aspetti della normativa, come ad esempio la fissazione di valori limite di emissione più restrittivi per i nuovi impianti e la regolamentazione delle emissioni di CO. A livello europeo, la Commissione mira a garantire la coerenza tra politica industriale, ambientale, agricola, climatica ed energetica per supportare lo sviluppo sostenibile con la conseguente creazione di posti di lavoro e una spinta verso l’innovazione tecnica e di processo. La Commissione Europea ha, infatti, recepito le indicazioni dell’Agenda 2030 a partire dalla Comunicazione 2016/739 “Il futuro sostenibile dell’Europa: prossime tappe. L’azione europea a favore della sostenibilità”.

La Commissione in carica, l’11 dicembre 2019, ha lanciato l’European Green Deal” identificando 8 pilastri per promuovere la trasformazione dell’economia europea per un futuro sostenibile, nell’ambito del quale ricerca e innovazione rivestono un ruolo trasversale.

4.   La normativa nazionale 

Il termine ambiente compare per la prima volta nella nostra Costituzione solo nel 2001, in forza della legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, volta a riformare il titolo V della Costituzione stessa.

Prima della riforma del titolo V, le leggi che disciplinavano settori specifici della materia ambientale erano rappresentate dal regio Decreto n. 1089 del 1939, riferita ai beni culturali e dal regio Decreto n. 1497 del 1939 in materia di bellezze naturali. La Costituzione ha accolto il contenuto di queste leggi all’art. 9 comma 2, laddove ha previsto che “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”.

La giurisprudenza è intervenuta diverse volte per cercare di dare dignità costituzionale alla tematica ambientale e a tal fine è stato oggetto di studio anche l’articolo 32 della Costituzione, che stabilisce il diritto alla salute, attraverso cui è stato sancito il diritto ad un ambiente salubre, volto a limitare ed eliminare le cause di inquinamento dell’aria, dell’acqua e prevenire l’insorgenza di patologie tanto nel singolo quanto nella collettività.

Da ultimo, l’articolo 117 della Carta Fondamentale, così come riformato, regola il riparto di competenze fra Stato e Regioni, anche con riferimento alla materia ambientale. Al secondo comma, affida all’esclusiva legislazione statale “la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”18, mentre al terzo comma si attribuisce la “valorizzazione dei beni ambientali” in via concorrente allo Stato e alle Regioni.

Ulteriori norme come la Legge n. 316 del 30 dicembre 2004 (conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 12 novembre 2004, n. 273) contiene le disposizioni per l’applicazione della Direttiva 2003/87/CE in materia di scambio di quote di emissione dei gas ad effetto serra nella Comunità europea.

La norma quadro in materia di prevenzione e limitazione delle emissioni in atmosfera è costituita dal Decreto Legislativo 3 aprile 2006 n. 152, recante “Norme in materia ambientale” che nella parte V definisce la normativa  che si applica a tutti gli impianti (compresi quelli civili) ed alle attività che producono emissioni in atmosfera stabilendo valori di emissione, prescrizioni,  metodi di campionamento e analisi delle emissioni oltre che i criteri per la valutazione della conformità dei valori misurati ai limiti di legge.

In seguito, la Direttiva 2008/50/CE è stata recepita con il Decreto Legislativo n. 155/2010 che individua l’elenco degli inquinanti per i quali è obbligatorio il monitoraggio e stabilisce le modalità e i contenuti delle informazioni sullo stato della qualità dell’aria, da inviare al Ministero dell’Ambiente. Il provvedimento individua, inoltre, nelle Regioni le autorità competenti per effettuare la valutazione della qualità dell’aria e per la redazione dei Piani di Risanamento della qualità dell’aria nelle aree nelle quali sono stati superati i valori limite. Sono stabilite anche le modalità per la realizzazione o l’adeguamento delle reti di monitoraggio della qualità dell’aria.

Successivamente è stato emanato il Decreto Ambiente 29 novembre 2012 che, in attuazione del Decreto Legislativo n.155/2010,  individua le stazioni speciali di misurazione della qualità dell’aria, e il Decreto Legislativo n.250/2012 recante “Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 155, recante attuazione della direttiva 2008/50/CE relativa alla qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa” che integrando il precedente decreto definisce anche il metodo di riferimento per la misurazione dei composti organici volatili. Il Decreto è stato aggiornato dal D.Lgs. n.128/2010, e dal D.Lgs 4 marzo 2014, n. 46 di attuazione della direttiva 2010/75/UE relativa alle emissioni industriali che oltre a modificarne le Parti II, III, IV e V, ha assorbito ed integrato i contenuti del D.Lgs. 11 maggio 2005, n. 33 di attuazione della direttiva 2000/76/CE, in materia di incenerimento dei rifiuti (abrogato a partire dal 1° gennaio 2016).

Il 13 marzo 2013 è stato emanato il DPR n. 59/2013 che, oltre a regolamentare e semplificare gli adempimenti in materia di autorizzazione unica ambientale per gli impianti non soggetti ad autorizzazione integrata ambientale, obbliga gli stabilimenti, in cui sono presenti attività ad emissioni scarsamente rilevanti, all’adozione delle autorizzazioni di carattere generale riportate in Allegato I al DPR n. 59/2013 stesso.

Da ricordare il DPR n.74/2013, ovvero recante definizione dei criteri generali in materia di esercizio, conduzione, controllo, manutenzione e ispezione degli impianti termici per la climatizzazione invernale ed estiva degli edifici e per la preparazione dell’acqua calda per usi igienici sanitari.

Per quanto attiene il contenimento delle emissioni e dei gas ad effetto serra la Direttiva n. 2284 del 14 dicembre 2016 è stata recepita dal Governo italiano mediante il Decreto Legislativo n. 81/2018 che stabilisce i nuovi impegni nazionali di riduzione delle emissioni di biossido di zolfo, ossidi di azoto, composti organici volatili non metanici, ammoniaca e particolato fine.

L’ultima norma di riferimento è il D.Lgs 15 novembre 2017, n. 183 (in vigore dal 19 dicembre 2017) con il quale si dà attuazione alla Direttiva UE 2015/2193 relativa alla limitazione delle emissioni di alcuni inquinanti originati da impianti di combustione medi, definiti come gli impianti di “potenza termica nominale pari o superiore a 1 MW e inferiore a 50MW”. Al Titolo II è aggiunta la definizione di medi impianti termici civili, ossia quelli di potenza pari o superiore a 1 MW, seguita da ulteriori disposizioni specifiche. Il suddetto d.lgs. n. 183 del 2017 ha introdotto numerose modifiche alla disciplina relativa alla tutela della qualità dell’aria ed alle emissioni in atmosfera contenuta nella Parte Quinta del cd. Codice Ambientale (d.lgs. n. 152 del 2006) al fine di dare attuazione alla legge di delegazione europea 2015 (legge n. 170 del 2016). La norma mira anche al riordino del quadro normativo degli stabilimenti che producono emissioni.

Il decreto-legge 14 ottobre 2019, n. 111 convertito nella legge 12 dicembre 2019, n. 141 recante “Misure urgenti per il rispetto degli obblighi previsti dalla direttiva 2008/50/CE sulla qualità dell’aria e proroga del termine di cui all’articolo 48, commi 11 e 13, del decreto-legge 17 ottobre 2016, n. 189, convertito, con modificazioni, dalla legge 15  dicembre  2016,  n. 229”, noto più comunemente come decreto Clima, prevede una serie di interventi per incentivare la difesa dell’ambiente e il miglioramento della qualità dell’aria.

La Legge n.160 del 27 dicembre 2019 recante “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022”, al comma 86, autorizza il Ministro dell’economia e delle finanze ad intervenire attraverso la concessione di una o più garanzie, a titolo oneroso, anche con riferimento ad un portafoglio collettivo di operazioni e nella misura massima dell’80 per cento, al fine di sostenere programmi specifici di investimento e operazioni, finalizzati a realizzare progetti economicamente sostenibili e che abbiano come obiettivo tra gli altri  la decarbonizzazione dell’economia e l’economia circolare.

Infine, la legge 30 dicembre 2020, n. 178 recante ”Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023” istituisce al comma 124, nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico, un Fondo d’investimento per gli interventi nel capitale di rischio delle piccole e medie imprese operanti , tra l’altro, anche nel settore della produzione di energia da fonti rinnovabili.

5.   Conclusioni

L’Agenda 2030 con i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs), esprime un chiaro giudizio sull’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale, superando l’idea che la sostenibilità sia unicamente una questione ambientale e si afferma una visione integrata delle diverse dimensioni dello sviluppo. In questo ambito le diverse scienze devono agire in modo coordinato anche se apparentemente si occupano di temi assai distanti ed in particolare le scienze giuridiche devono fornire un quadro normativo flessibile e snello in modo tale da garantirne non solo una rapida comprensione ma anche una facile e immediata applicabilità. È necessario quindi quanto prima addivenire ad una semplificazione del quadro normativo sopra rappresentato al fine di consentire il coinvolgimento di tutti e la piena partecipazione del singolo cittadino.

 

 

 


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http://www.comunicazionescientifica.eu/agenda-21.

Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Valerio Di Stefano

Dottore in Giurisprudenza, laureato presso l'Università degli Studi Roma Tre con tesi in diritto amministrativo. Dottorando di ricerca in energia e ambiente, collabora con la cattedra di diritto amministrativo presso l'Università degli Studi Roma Tre e con la cattedra di diritto ambientale all'Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale.

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