Il rapporto tra accessione e comunione. L’acquisto a titolo originario della costruzione edificata sul fondo comune
Sommario: 1. Sull’accessione cd. verticale – 2. Sulla comunione – 3. Il rapporto tra comunione ed acquisto a titolo originario indiviso e pro quota della nuova costruzione – 4. Limiti all’esercizio dello ius tollendi – 5. Conclusioni
Incipit
Oggetto del presente contributo è il raccordo tra l’istituto della comunione e quello dell’accessione in ipotesi di edificazione, ad opera di uno solo dei comunisti, su fondo in comune.
Fatta una breve premessa sull’istituto dell’accessione e sul regime giuridico della “comunione” di modo da semplificare il raccordo tra i due istituti, occorrerà stabilire se l’immobile costruito da uno dei comproprietari investendo risorse esclusivamente proprie, in violazione del regime delle innovazioni, ricada in comproprietà in ragione dell’operatività del principio dell’accessione ovvero deve considerarsi di proprietà esclusiva del costruttore riconoscendo, per converso, in capo agli altri comunisti, lo ius tollendi di guisa alla violazione dei principio espressi agli artt. 1102 e 1108, co. 2 cod. civ.,
Preliminarmente è doverosa una breve premessa sull’istituto dell’accessione e sul regime giuridico della “comunione” in quanto la corretta soluzione del caso prospettato varia radicalmente a seconda dell’istituto applicato.
1. Sull’accessione cd. verticale
L’accessione, disciplinata agli art. 934 ss. cod. civ., è un istituto di derivazione romanistica, costituente modo di acquisto della proprietà a titolo originario.
Come emerge dal dato sistematico del codice, oltre che da granitica giurisprudenza di legittimità, il principio espresso all’art. 934 c.c. costituisce un meccanismo oggettivo dell’acquisto della proprietà che opera ipso jure indipendentemente dalla volontà acquisitiva del soggetto.
L’operatività automatica del principio dell’accessione deriva dalla natura giuridica di tale modalità di acquisto della proprietà che dipende dal verificarsi della stabile incorporazione dell’opera sul suolo, e cioè dal verificarsi di un fatto giuridico in senso stretto, con la precipua conseguenza che il momento acquisitivo della proprietà coincide con quello della realizzazione dell’opera, sicché la pronuncia di acquisto della proprietà per accessione ha natura meramente dichiarativa.
La portata generale del principio dell’accessione di cui all’art. 934 c.c. appare corroborata anche dal dato sistematico del codice atteso che il legislatore ha previsto l’applicazione del principio dell’accessione verticale “salvo che risulti diversamente dal titolo o dalla legge”.
Ciò pertanto l’operatività del principio dell’acquisto della proprietà per accessione può essere esclusa dal “titolo” negoziale, redatto con forma scritta ab sustantiam, ovvero dall’applicazione di norme eccezionali in virtù del principio lex specialis derogat generali (cd. principio di specialità).
Di fondamentale interesse per la presente trattazione è stabilire se l’operatività del principio dell’accessione sia limitato ai casi in cui la costruzione dell’opera sia effettuata da un terzo su fondo altrui, ovvero se, per converso, si può parlare di acquisto a titolo originario per accessione anche in presenza di edificazione su terreno proprio o in comproprietà, ma di ciò mi occuperò in seguito.
2. Sulla comunione
L’istituto della comunione si applica in presenza di cotitolarità del diritto di proprietà in capo ad una pluralità di soggetti (art. 1101 c.c.).
La natura giuridica di tale istituto è stata oggetto di un fervente dibattito dottrinale. Da un lato i sostenitori della cd. “teoria della proprietà plurima integrale” ravvisano nella comunione una concorrenza di diritti di proprietà pieni limitati vicendevolmente, nel senso che la normale estensione dei poteri di signoria sulla cosa incontra l’unico limite nell’esercizio dei medesimi poteri da parte degli altri comunisti.
La coesistenza di poteri eguali e non frazionati, allora, è rimessa alla regola generale del divieto per i comunisti di estendere i poteri di signoria sulla cosa in danno degli altri, e cioè di porre in essere interventi che alterino sostanzialmente la destinazione d’uso della cosa in comune impedendo, anche solo ad uno degli altri comproprietari, l’uso pieno della res secondo il proprio diritto.
Per altro verso è doveroso segnalare la teoria della “proprietà collettiva” che, ponendo l’accento sulla peculiare compressione dei poteri del comproprietario, ritiene che la comunione sia la qualifica del diritto del singolo sull’intero bene.
Punto cardine di tale teorica è da ricercare nell’inversione concettuale della nozione di quote di cui all’art. 1101 co. 2 cod. civ. che non costituirebbe l’oggetto del diritto, bensì l’unità di misura dell’estensione del potere di signoria sulla cosa.
Tale teorica appare fortemente avallata dal regime dell’amministrazione congiunta della res improntato sul criterio della maggioranza dei partecipanti per l’apportamento di innovazioni e dell’unanimità per l’alienazione e costituzione di diritti reali sulla stessa.
E’ bene precisare, tuttavia, che dalla casistica giurisprudenziale emerge che, pur in assenza di enunciati teorici, i concetti richiamati frequentemente dalla Corte di Legittimità richiamano le note argomentative della teoria della proprietà plurima integrale.
Non a caso, infatti, la comunione è stata definita come diritto spettante congiuntamente pro indiviso che investe la res in toto et in qualibet parte benché limitata dei concorrenti diritti pro quota spettanti ai comproprietari.
Si tratta, per tanto, di una disciplina improntata a garantire il pieno godimento della res ai comproprietari, i quali possono godere della cosa con il limite esclusivo di non impedirlo agli altri comunisti.
In dottrina si è parlato, richiamando fonti romanistiche, di utilizzazione in solidum per qualificare una forma di godimento che presenta i caratteri della integralità e non esclusività.
Tale concezione è stata accolta, mutatis mutandis, anche dalla Suprema Corte che ha identificato quale criterio naturale previsto dal codice l’utilizzo indifferenziato, o promiscuo, che si estende parallelamente e contemporaneamente su tutta la res di modo che le facoltà di ciascun partecipante trova limiti naturali esclusivamente nelle uguali facoltà di tutti gli altri.
Il pieno godimento della res da parte dei singoli comunisti incontra, quindi, il duplice limite del rispetto della destinazione d’uso comune e del divieto di frapporre limiti al godimento pieno degli altri comunisti.
La disciplina, così strutturata, si connota per un peculiare regime di amministrazione del bene oggetto della comunione, che consente a ciascun comproprietario può apportare, autonomamente qualsiasi genere di migliorie destinata al miglior godimento della cosa, pur senza determinare l’inservibilità per gli altri comunisti.
Il limite a tale potere di signoria, quindi, va identificato nell’alterazione permanente della cosa comune, laddove la miglioria diventa innovazione soggetta al principio dell’amministrazione congiunta secondo il criterio della maggioranza ai sensi dell’art. 1108 cod. civ.
Fuori da tal evenienza, quindi, la disciplina dell’amministrazione del bene in comunione, contenuta agli artt. 1105 e 1108 c.c., è improntata sul principio dell’amministrazione congiunta che esige la deliberazione della maggioranza dei partecipanti nell’esercizio dell’amministrazione ordinaria.
La nozione di innovazioni va ricercata nel contiguo istituto del condominio, nella cui materia, la giurisprudenza della Suprema Corte ha avuto più volte modo di precisare che per innovazione “qualsiasi opera nuova che alteri, in tutto o in parte, nella materia o nella forma, ovvero nella destinazione di fatto o di diritto, la cosa comune, eccedendo il limite della conservazione, dell’ordinaria amministrazione e del godimento della cosa con l’effetto di migliorarne o peggiorarne il godimento o, comunque, alterare la destinazione originaria” (così Cass. Civ., sent. 12.02.1980, n. 1111).
L’apportamento di innovazioni, nonché il compimento di atti di straordinaria amministrazione, quindi, è soggetto all’approvazione della maggioranza dei partecipanti ed incontra l’unico limite nel divieto di pregiudicare i diritti e gli interessi anche di uno soltanto dei partecipanti.
3. Il rapporto tra comunione ed acquisto a titolo originario indiviso e pro quota della nuova costruzione
Fatte tali premesse è evidente che la costruzione effettuata a proprie spese dal comunista senza il consenso di almeno due terzi dei partecipanti costituisce innovazione illegittima della cosa in legittimando i comunisti lesi a pretendere il rispristino dello stato dei luoghi vista la violazione dei principi di cui all’art. 1102 e 1108 co. 1 cod. civ.
Il problema principale, tuttavia, concerne stabilire se la violazione del regime giuridico dell’amministrazione della comunione, impedisce l’ingresso in comproprietà della nuova costruzione.
In misura gradatamente subordinata occorrerà stabilire se l’esercizio del diritto di pretendere il rispristino dello status quo ante presupponga un dissenso manifesto e qualificato da parte dei comunisti che hanno subito gli effetti pregiudizievoli della violazione del regime delle innovazioni.
In vero la radice della questione teorica, che ha non poche conseguenze sul piano delle applicazioni concrete, sorge a monte, nella definizione del rapporto che incorre tra la disciplina dell’accessione e quella della comunione atteso che, sull’onta di certa dottrina, un orientamento giurisprudenziale recente aveva optato per l’esclusione dell’operatività del meccanismo acquisitivo per stabile incorporazione nelle ipotesi di illegittima innovazione del fondo in comune.
A monte di tale teorica, evidentemente, vi sarebbe l’errata convinzione che la comunione si estenda automaticamente alla nuova costruzione per effetto della deliberazione conforme ai principi di cui all’art. 1108, co. 1 e 2 cod. civ., essendo ciò impedito, per converso, qualora la nuova costruzione sia arbitrariamente realizzata da uno solo dei comunisti, con investimento esclusivamente proprio.
A tal riguardo, come si anticipava, giurisprudenza recente, ribaltando il precedente e granitico orientamento della Corte di Legittimità secondo cui il principio di cui all’art. 934 cod. civ. si applicava anche ai comunisti (in questo senso cfr. Cass. Civ., sent. 11.07.1978, n. 3479; Cass. Civ., sent. 11.11.1997, n. 11120) aveva affermato che presupposto di operatività dell’accessione sarebbe la terzietà del costruttore rispetto al fondo (in questo senso cfr. Cass. Civ. Cass. Civ., sent. 27.03.2007, 7523; Cass. Civ., sent. 22.03.2001, n. 4129), con la conseguenza che, in presenza di edificazione su fondo in comunione effettuata in violazione del regime di amministrazione dei beni in comunione, la proprietà della nuova costruzione illegittima sarebbe acquisita dal comunista costruttore, rimettendosi, a contrario, ai comunisti lesi nei diritti sulla cosa in comune, l’esercizio del cd. ius tollendi, e cioè il diritto di chiedere il rispristino dello stato dei luoghi.
In vero tale teorica appare fortemente opinabile e non appare reggere alle censure mosse per tempo dalla dottrina e, successivamente, corroborate dalla giurisprudenza di legittimità.
Anzitutto, quanto alla presunta circuizione dell’ambito di applicazione dell’art. 934 cod. civ. di modo da escludevi i beni soggetti a comunione, si rilevano due argomenti decisivi.
Intanto è di lampante evidenza che, sostenere la circuizione della sfera di operatività sul presupposto della terzietà del costruttore rispetto alla comunione, e cioè ai soli casi di occupazione illegittima, appare un’arbitraria interpretazione resa in palese contrasto con il dato testuale del codice secondo cui la proprietà di “qualunque” opera costruita su un fondo segue lo stesso in virtù della stabile incorporazione.
Per altro verso non può negarsi che uno sguardo sistematico alla sez. II del Titolo II del Libro III cod. civ. rende di lampante evidenza che le ipotesi di ingerenza del terzo nel godimento del bene in comunione ricada nell’ambito di applicazione dell’art. 936 cod. civ. che disciplina la cd. accessione invertita.
Per ciò è la stessa lettura sistematica di tale parte del codice che rende di lampante evidenza la portata applicativa della clausola di riserva di cui all’art. 934 cod. civ. la quale appare derogabile, a titolo di lex specialis, dalle sole disposizione di cui agli artt. 936 ss. cod. civ.
Come evidente è, del resto, che le norme in materia di comunione non si pongano in rapporto di specialità con il principio dell’accessione, trattandosi da un lato di una proprietà multisoggettiva speciale e dall’altro di un meccanismo di acquisto della proprietà – anche speciale – a titolo originario.
Sotto questo profilo và altresì evidenziato che la soluzione prospettata dalla giurisprudenza su citata conduceva all’esito paradossale di favorire il comunista costruttore, nel senso che, posta in essere la costruzione in violazione del regime di amministrazione del bene in comunione, la proprietà avrebbe dovuto ricadere esclusivamente in capo al comunista costruttore, legittimando gli altri comproprietari ex artt. 1102 – 1108, co. 3 e 2933 cod. civ. all’esercizio dello ius tollendi nella misura in cui questi abbiano espressamente e validamente manifesta dissenso in corso d’opera provvedendo alla costituzione della mora debendi.
Per altro, il carattere di specialità che connota la comproprietà e che costituisce fulcro della coesistenza di una pluralità di posizioni soggettive in grado di esercitare il medesimo potere di signoria sulla res è la circostanza che da tale rapporto di coesistenza promana un obbligazione legale di non facere.
Più specificatamente, dalla comunione deriva l’obbligo giuridico, gravante su ciascuno dei partecipanti, di non intervenire sulla cosa comune di modo da alterarne la forma o la destinazione d’uso impedendone il pieno godimento agli altri partecipanti.
Sgombrato in campo dagli equivoci, allora, è evidente che l’inadempimento di un obbligazione legale non portabile, e segnatamente di un obbligo di non fare, è fonte di responsabilità civile di tipo cd. contrattuale.
Ciò pertanto, lungi dall’impedire l’acquisto della proprietà, a titolo originario ed ipso jure, come vuole la regola dell’accessione, la violazione del regime degli interventi sulla cosa in comunione integra fatto illecito, di tipo contrattuale, fonte di danno risarcibile.
Se ne deduce che se da un lato la violazione delle norme di cui agli artt. 1102, co. 1 e 1108, co. 2 e 3 cod. civ. non impedisce l’acquisto della comproprietà a titolo originario, dall’altro l’operatività del meccanismo dell’accessione non impedisce al comunista leso dall’edificazione resa in violazione del regime degli interventi di esercitare un azione di responsabilità strutturalmente vocata al risarcimento in forma specifica.
4. Limiti all’esercizio dello ius tollendi
La violazione dell’obbligo di non compiere atti che impediscano il pieno godimento della res agli altri comproprietari, quindi, qualora concretizzatosi nell’edificazione di opere suscettibili di distruzione, legittima i comunisti lesi nei propri diritti a richiedere il ripristino dello stato dei luoghi.
Come si anticipava, tuttavia, occorre stabilire sino a che punto i comunisti lesi dall’arbitrario comportamento dell’altro comproprietario sono legittimati a richiedere il ripristino dello status quo ante.
La corretta soluzione al quesito proposto, a parere di chi scrive, non può prescindere dalla connotazione delle obbligazioni di facere o non facere quale non portabili ex art. 1182, co. 4 cod. civ. alle quali si applicano, per gli effetti dell’inadempimento, le regole della cd. mora ex persona di cui all’art. 1219 co. 1, cod. civ..
Ed in vero, non può tacersi che, come sostenuto da notoria dottrina (BIANCA), la regola per cui l’intimazione costituisce presupposto della mora ha la precipua funzione di impedire che l’acquiescenza del creditore possa essere socialmente interpretata come atto di tolleranza, in tal senso essendo atto imposto al creditore in virtù del canone della buona fede.
A ciò si aggiunga che in materia di obbligazioni non portabili, il concetto di mora si riferisce al ritardo nell’adempimento dell’obbligazione, e che per tanto, l’intimazione ne costituisce presupposto nella misura in cui realizza la funzione di determinare il momento in cui la prestazione deve essere eseguita.
Il ritardo dell’inadempimento, qualificato dall’intimazione, sussiste fin tanto che sussiste un interesse giuridico all’adempimento della prestazione medesima di modo che, venuto meno questo, non possa più parlarsi di mora debendi bensì di inadempimento definitivo.
Alla luce delle predette argomentazioni non v’è chi non veda come l’inizio della realizzazione dell’edificazione in violazione del regime degli interventi costituisce il momento in cui l’obbligazione di non facere diviene esigibile dagli altri comproprietari, i quali, sono obbligati, in virtù del canone della buona fede, a costituire, ai sensi dell’art. 1219, co. 1 cod. civ. la mora debendi.
Ciò perché, in caso contrario, da un lato l’acquiescenza del comunista legittimerebbe il sorgere dell’affidamento del debitore nella tolleranza del ritardo nell’adempimento, e, latamente inteso, del sopravvenuto consenso all’edificazione, mentre dall’altro il perdurare della tolleranza del ritardo renderebbe definitivo l’inadempimento una volta che l’edificazione sia conclusa e che la destinazione d’uso sia irrimediabilmente compromessa.
Ciò pertanto, in difetto di esplicita costituzione in mora, l’acquiescenza del comunista perpetrata sino al culmine dell’edificazione produce l’effetto sostanziale di ritenere venuto meno l’interesse dello stesso all’adempimento dell’obbligazione di non fare, e quindi il legittimo affidamento, per il debitore, se non al sopravvenuto consenso all’opera, quanto meno al sopravvenuto disinteresse alla non edificazione della stessa, di modo da rendere irragionevole un tardivo esercizio dello ius tollendi.
A corroborare le precedenti argomentazioni si consideri che per granitica Giurisprudenza l’esercizio dello ius tollendi deve essere bilanciato con il principio di tolleranza, di buonafede e di affidamento, con la conseguenza che l’accesso al rimedio del rispristino dello stato dei luoghi sarebbe precluso ogni qualvolta che la costruzione sia realizzata a scienza e senza dissenso, atteso che l’acquiescenza del comproprietario che ha conoscenza dei lavori di edificazione integra i presupposti per il sorgere del legittimo affidamento del costruttore al sopravvenuto consenso del comproprietario. (cfr. Cass. Civ. sez. Un., sent. 15.11.2007, n. 23726; Cass. Civ., sez. Un., sent. 27.04.2017, n. 10413).
5. Conclusioni
Nel senso appena esposto, a parere dello scrivente, è di lampante evidenza che la risoluzione della questione nel senso della disapplicazione dei principi dell’accessione condurrebbe ad un esito profondamente illogico e contra legem nei casi in cui, benché l’edificazione sia stata posta in essere in violazione delle norme sull’amministrazione del bene in comproprietà, i comunisti lesi non abbiano provveduto a manifestare espressamente il proprio dissenso e cioè a costituire la mora debendi ai sensi dell’art. 1219, co. 1 cod. civ..
In tali circostanze infatti, la violazione delle norme di cui all’art. 1108, co. 1 e 2 cod. civ. impedirebbe l’ingresso ope legis della nuova costruzione nella comunione, con la conseguenza che la costruzione illegittima costituirebbe oggetto di un esclusivo diritto di proprietà del comunista costruttore.
Tuttavia, applicando i principi su richiamati in thema di esercizio dello ius tollendi, in presenza di costruzione a scienza degli altri comunisti, l’omessa costituzione della mora debendi in corso d’opera opererebbe come una decadenza de facto dall’esecuzione forzata degli obblighi di non fare ex art. 2933 cod. civ., confinando le pretese dei comunisti nell’alveo della tutela risarcitoria, con evidente ed illegittimo spoglio della comproprietà a danno dei comunisti non consenzienti.
A corroborare le precedenti considerazioni una recentissima pronuncia della Suprema Corte che, nel dirimere il contrasto giurisprudenziale ravvisato in materia di applicabilità dell’accessione alla comunione, ha stabilito che “La costruzione eseguita dal comproprietario sul suolo comune diviene per accessione, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., di proprietà comune agli altri comproprietari del suolo, salvo contrario accordo traslativo della proprietà del suolo o costitutivo di un diritto reale su di esso”, e conseguentemente che“ove lo ius tollendi non possa essere esercitato, i comproprietari del suolo sono tenuti a rimborsare al comproprietario costruttore, in proporzione alle rispettive quote di proprietà, le spese sopportate per l’edificazione dell’opera” (così Cass. Civ., sez. Un. , 16.02.2018, n. 3873).
Alla stregua delle superiori argomentazioni è possibile affermare che la costruzione edificata con investimento proprio da uno solo dei comunisti in violazione del regime delle innovazione è soggetta all’esercizio dello ius tollendi solo in presenza di preventiva costituzione della mora debendi, e cioè di espresso dissenso manifestato dagli altri comunisti.
Nel caso contrario, benché la costruzione sia stata illegittimamente realizzata, i comunisti acquisirebbero la comproprietà indivisa e pro quota della nuova costruzione per effetto dell’operatività del principio dell’accessione verticale, legittimando il comunista comproprietario a pretendere il rimborso delle spese sostenute per la realizzazione dell’opera.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Salvatore Tartaro
Salvatore Tartaro, dott. Mag. in Giurisprudenza, abilitato all'esercizio della professione forense ex art. 41, co. 11 l. 247/2012. Laureato con 105/110 con una Tesi multidisciplinare in tema di Danno da Radiazioni Ionizzanti. Collabora con Studio Legale Di Giorgi.
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