Il rapporto tra buona fede e l’obbligo di consegna della documentazione bancaria ex art. 119 T.U.B.
Scopo di questo elaborato è quello di analizzare la rilevanza della clausola generale della buona fede, intesa in senso oggettivo, all’interno dei rapporti con gli Istituti di credito e gli intermediari finanziari.
Tale analisi è, principalmente, volta a mettere in rilievo gli obblighi accessori che sorgono oltre a quelli espressamente previsti dal codice civile – come l’obbligo di consegnare la documentazione attinente al rapporto – e l’ampio significato giuridico che la clausola clausola riceve in questo settore complicato.
Sommario: 1. Cenni generali sul concetto di buona fede – 2. La buona fede nei contratti bancari: rapporti con l’art 119 T.U.B. – 3. Buona fede, art. 119 T.U.B. e casi specifici – 3.1. Fusione societaria e operazioni straordinarie – 3.2. Rapporti di conto corrente
1. Cenni generali sul concetto di buona fede
La “buona fede” è un concetto molto usato nel codice civile, anche manchi una vera e propria definizione giuridica.
La dottrina tradizionale è solitaria a causa di diverse accezioni di buona fede: quella oggettiva e quella soggettiva.
Per buona fede in senso soggettivo si fa riferimento alla convinzione (erronea) di agire in conformità alla legge; all’ignoranza di ledere un diritto altrui; all’affidamento riposto in una situazione giuridica apparente. Quindi essa rappresenta uno stato soggettivo a cui si ricollegano, a seconda dei casi, diversi effetti giuridici: la conservazione della situazione o degli effetti giuridici, o l’esclusione della responsabilità nei confronti del soggetto.
Diversamente, per buona fede in senso oggettivo, si è soliti riferirsi a regole di condotte non sempre codificare che impongono, alle parti di un rapporto, di comportarsi in modo leale e corretto.
Il codice civile prevede l’uso della buona fede oggettiva in numerose disposizioni.
Basti ricordare l’arte. 1175 c.c. in materia di obbligazioni in generale; L’art. 1375 c.c. in materia di esecuzione del contratto; L’art. 1366 c.c. in materia di interpretazione del contratto; e ancora, l’art. 1337 c.c., in materia di trattative.
Alla luce di questi richiami, dunque, si è consolidata l’idea secondo cui la buona fede costituisce una clausola generale o una regola duttile ed elastica, in grado di adeguare l’ordinamento giuridico all’evoluzione del contesto socio – economico[1].
Di fatti, il legislatore del 1942, attraverso la buona fede, impone alle parti di un rapporto obbligatorio di modellare il loro reciproco comportamento sulla base dei criteri di probità e lealtà, al fine di porre in essere una condotta che non si limiti a soddisfare gli interessi sottesi all’operazione negoziale, ma che soddisfi anche l’esigenza fondamentale di rispettare il principio causale.
In questo modo, la buona fede diventa fondamento di un principio generale dei rapporti interprivati, la portata armonizza e trascende dall’ambito applicativo delle singole norme giuridiche[2].
Posti questi principi di carattere generale, in passato si è molto discusso circa la natura giuridica di tale clausola. Sul punto, sono state elaborate due diverse accezioni: la concezione valutativa e la concezione precettiva.
Secondo la tesi valutativa, la buona fede quale regola di correttezza atterrebbe solo alla fase dinamica del rapporto. Offrirebbe, così, al giudice, un criterio per valutare la condotta delle parti durante lo svolgimento del rapporto.
Corollario di questo impostazione è che la buona fede opererebbe solo ex post, quale criterio di secondo grado e regola sub primaria, inidonea ad essere applicato in assenza di disposizioni specifiche[3].
Tale originaria impostazione è stata superata dalla concezione precettiva.
Secondo questa diversa tesi, la buona fede opererebbe quale criterio di valutazione di primo grado: essa diventa, così, fonte di obbligazioni del tutto autonoma, da cui sorgono obblighi ulteriori e diversi da quelli espressamente pattuiti tra le parti[4].
La buona fede, dunque, rientrerebbe tra “gli altri atti o fatti idonei – secondo l’ordinamento giuridico – a costituire obbligazioni“, cioè in quella terza macrocategoria di fonti di obbligazioni di cui all’art.1173 c.c.
Quest’ultima tesi è quella tutt’oggi prevalente ed è stata abbracciata anche dalla giurisprudenza[5].
Questa idea ha spinto autorevole dottrina a concepire la buona fede come strumento che consente di invalidare il contratto se le parti pongano in essere condotte con essa confliggenti[6].
Punto di partenza di questa considerazione è stato la lettura costituzionalmente orientata della buona fede.
Infatti, si è sostenuto che l’autonomia negoziale trova un limite (esterno) nel vaglio di meritevolezza e nei fini solidaristici che devono essere realizzati ai sensi dell’art. 1322 comma 2 c.c. e art.
Il punto, si è concordi con l’intera giurisprudenza, che in numerose occasioni ha ribadito il principio secondo cui: “la buona fede oggettiva impone alle parti di comportarsi secondo lealtà e le impegna al compimento delle azioni/atti necessari alla salvaguardia dell’interesse/utilità della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a carico proprio. Il principio di correttezza e buona fede deve essere inteso in senso oggettivo in quanto enuncia un dovere di solidarietà (art. 2 Cost.) che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre una ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra parte, a prescindere dall’esistenza di specifiche obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge”[7].
Non è, pertanto, sufficiente che il contratto o l’obbligazione sorga in assenza di vizi formali ma è anche necessario che produca un fine “giusto”, conforme alla buona fede, volto a soddisfare fini solidaristici.
Queste riflessioni hanno spinto, in seguito, a chiedersi se la buona fede integrasse le regole di validità del contratto o le regole di condotta.
Tale distinzione risiede nella circostanza che le prime (regole di validità) stabiliscono quali sono gli elementi essenziali e strutturali del contratto o del negozio. Esse sono espressione del dogma della volontà e del principio di legalità e, dunque, hanno lo scopo di garantire la certezza dei rapporti giuridici e la giustizia sostanziale. Le seconde (regole di condotta) determinano reciproci obblighi di comportamento, misurano la legittimità dell’esercizio di un potere nei confronti di un soggetto determinato. Pertanto, apportano solo un temperamento al dogma della volontà e al principio di legalità. Pertanto, le une e le altre si distinguerebbero nettamente sia sotto il profilo strutturale che sotto il profilo teleologico diverso[8].
Sul punto, sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione con la nota sentenza n. 26724 / 2007. In questa occasione, è stato affermato che la buona fede costituisce regola di condotta: la loro violazione dà origine alla responsabilità per inadempimento e può essere causa di risoluzione del rapporto, oltre che di risarcimento del danno.
Si legge, infatti, che: “Il cardine intorno al quale ruota la sentenza da ultimo citata è costituito dalla riaffermazione della tradizionale distinzione tra norme di comportamento dei contraenti e norme di validità del contratto: la violazione delle prime, tanto nella fase pre-negoziale quanto in quella attuativa del rapporto, ove non sia altrimenti stabilito dalla legge, genera responsabilità e può esser causa di risoluzione del contratto, ove si traduca in una forma di non corretto adempimento del generale dovere di protezione e degli specifici obblighi di prestazione gravanti sul contraente, ma non incide sulla genesi dell’atto negoziale, quanto meno nel senso che non è idonea a provocarne la nullità. Che tale distinzione, sovente ribadita anche dalla dottrina, sia fortemente radicata nei principi del codice civile è difficilmente contestabile. Per persuadersene è sufficiente considerare come dal fondamentale dovere che grava su ogni contraente di comportarsi secondo correttezza e buona fede – immanente all’intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., e sottostante a quasi tutti i precetti legali di comportamento delle parti di un rapporto negoziale (ivi compresi quelli qui in esame) – il codice civile faccia discendere conseguenze che possono, a determinate condizioni, anche riflettersi sulla sopravvivenza dell’atto (come nel caso dell’annullamento per dolo o violenza, della rescissione per lesione enorme o della risoluzione per inadempimento) e che in ogni caso comportano responsabilità risarcitoria (contrattuale o precontrattuale), ma che, per ciò stesso, non sono evidentemente mai considerate tali da determinare la nullità radicale del contratto (semmai eventualmente annullabile, rescindibile o risolubile), ancorché l’obbligo di comportarsi con correttezza e buona fede abbia indiscutibilmente carattere imperativo. E questo anche perché il suaccennato dovere di buona fede, ed i doveri di comportamento in generale, sono troppo immancabilmente legati alle circostanze del caso concreto per poter assurgere, in via di principio, a requisiti di validità che la certezza dei rapporti impone di verificare secondo regole predefinite”[9].
A tale pronuncia, si è uniformata tutta la giurisprudenza successiva, tanto che tale regola, oggi, costituisce senza dubbio diritto vivente[10].
2. La buona fede nei contratti bancari: rapporti con l’art 119 T.U.B.
Fatte queste premesse di carattere generale sul concetto di buona fede, quale clausola di ampio respiro, occorre adesso analizzarne il significato e la sua funzione all’interno dei rapporti bancari.
Per prima cosa, appare necessario premettere che, nel settore bancario, in capo alle Banche e agli istituti di credito in generale, vi è un obbligo di diligenza e buona fede ulteriore rispetto al livello medio del buon padre di famiglia[11].
Si parla, infatti, di “diligenza qualificata” caratterizzata da condotte in parte tipizzate, in parte enucleabili caso per caso, e la cui violazione genera responsabilità per culpa in omettendo[12].
Sul punto, la corte di legittimità ha specificato che: “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”, sicché la banca, svolgendo attività professionale, deve adempiere tutte le obbligazioni assunte nei confronti dei terzi con la diligenza particolarmente qualificata dell’accorto banchiere, non solo con riguardo all’attività di esecuzione di contratti bancari in senso stretto ma anche in relazione ad ogni diverso tipo di operazione oggettivamente esplicata”[13].
La giurisprudenza di legittimità, sulla base di questi rilievi, nel corso del tempo, ha dato vita ad un orientamento rigoroso in base al quale valutare, in modo più esigente, la condotta delle Banche.[14]
Ciò ha spinto la Suprema Corte a ritenere che: “ne consegue che diritti ed obblighi, seppure specificamente regolati dalle norme che li prevedono, non possono mai prescindere dall’osservanza del principio di buona fede, operante all’interno delle posizioni soggettive, non potendo l’autore di un comportamento scorretto trarre da esso utilità con altrui danno. Sebbene nel nostro ordinamento non esista un generale dovere, a carico di ciascun consociato, di attivarsi al fine di impedire eventi di danno, tuttavia vi sono molteplici situazioni da cui possono nascere, per i soggetti che vi sono coinvolti, doveri e regole di azione, la cui inosservanza integra la nozione di omissione imputabile e la conseguente responsabilità civile[15].
Sulla base di questo principio, è possibile analizzare il rapporto tra la nozione di buona fede come sopra delineata e l’art. 119 del Testo Unico in materia Bancaria (T.U.B.).
Tale disposizione riconosce al cliente il diritto di ottenere, da parte dell’istituto di credito, la consegna della documentazione inerente al rapporto contrattuale esistente tra le parti, ( a prescindere dall’eventuale processo promosso contro la banca per far valere pretese di natura sostanziale inerenti ai rapporti intercorsi).
Il comma 1 di tale disposizione, infatti, recita: “Nei contratti di durata i soggetti indicati nell’articolo 115 forniscono al cliente, in forma scritta o mediante altro supporto durevole preventivamente accettato dal cliente stesso alla scadenza del contratto e comunque almeno una volta all’anno, una comunicazione chiara in merito allo svolgimento del rapporto. Il C.I.C.R. indica il contenuto e le modalità della comunicazione”.
Con l’espressione “supporto durevole” – ai fini della direttiva 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 settembre 2002, concernente la commercializzazione a distanza di servizi finanziari ai consumatori e che modifica la direttiva 90/619/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE e 98/27/CE – si intende “qualsiasi strumento che permetta al consumatore di memorizzare informazioni a lui personalmente dirette in modo che possano essere agevolmente recuperate durante un periodo di tempo adeguato ai fini cui sono destinate le informazioni stesse, e che consenta la riproduzione immutata delle informazioni memorizzate”.
Ai sensi del comma 4, inoltre, le Banche devono fornire al cliente (o a colui che gli succeda a qualunque titolo o che gli subentri nell’amministrazione dei suoi beni), se lo richieda, copia della documentazione inerente a singole operazioni poste in essere negli ultimi dieci anni, e questo entro un congruo termine e comunque non oltre 90 giorni dalla domanda, con addebito al cliente dei costi di produzione della documentazione.
Tale disposizione è la chiara concretizzazione del principio generale enunciato dall’art. 1375 c.c., secondo cui il contratto deve essere eseguito in buona fede, e della disposizione di cui all’art. 1175, che prescrive la buona fede in tutti i rapporti obbligatori in generale.
Tali regole sono rivolte, in modo esplicito per stessa scelta del legislatore, a tutti gli istituti di credito soggetti alla disciplina del T.U.B. e relativi a tutti i rapporti di durata (a prescindere – dunque – dalla tipologia contrattuale specifica scelta dalle parti), proprio per la loro posizione di vantaggio contrattuale.
Quando si correla una norma del T.U.B. alla correttezza e alla buona fede nei rapporti contrattuali si ribadisce, giustamente, una vasta penetrazione della suddetta clausola nell’alveo della contrattazione bancaria[16].
Circa la natura giuridica della posizione del cliente, la pretesa di avere disponibilità della documentazione bancaria si configura quale diritto autonomo che, pur derivando dal contratto, è estraneo alle obbligazioni tipiche che ne costituiscono lo specifico contenuto.
Pertanto, la necessità di aver a disposizione tutto il materiale documentale, inerente al rapporto di credito oggetto del presente giudizio, è di fondamentale importanza.
Di fatti, la mancata esibizione o comunque presentazione dell’intera documentazione rappresenta violazione del dovere di correttezza e buona fede di cui agli art. 1175, 1176 e 1376 c.c. che sono particolarmente stringenti nella materia bancaria, posta la debolezza economica e informativa dei clienti privati.
Sul punto, inoltre, occorre precisare che “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”, sicché la banca, svolgendo attività professionale, deve adempiere tutte le obbligazioni assunte nei confronti dei terzi, con la diligenza particolarmente qualificata dell’accorto banchiere, non solo con riguardo all’attività di esecuzione di contratti bancari in senso stretto, ma anche in relazione ad ogni diverso tipo di operazione oggettivamente esplicata”[17].
Più precisamente, occorre ricordare la sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 13/07/2007 n° 15669, secondo cui “il rapporto tra cliente e banca è fondato sul principio di buona fede, che è clausola generale di interpretazione e di esecuzione del contratto e fonte di integrazione della regolamentazione negoziale, ai sensi degli artt. 1366, 1375, 1374 c.c.; sicché, al di là del disposto dell’art. 119 citato, il diritto sostanziale di cui trattasi viene a trovare riscontro nel dovere di solidarietà, ormai costituzionalizzato (art. 2 Cost.), concorrendo la buona fede alla “conformazione di tale regolamentazione in senso ampliativo – restrittivo, rispetto alla fisionomia apparente, per modo che l’ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale. […] La pretesa alla documentazione è un diritto che nasce dall’obbligo di buona fede, correttezza e solidarietà, accessorio di ogni prestazione dedotta in negozio, e consente alla parte interessata di conseguire ogni utilità programmata, anche oltre quelle riferibili alle prestazioni convenute, comportando esso stesso una prestazione, cui ognuna delle parti è tenuta, in quanto imposta direttamente dalla legge (art. 1374 c.c.); per cui agli effetti del contratto, che discendono dalle clausole pattizie, vanno aggiunti quelli che la norma produce, in forza del rilevato principio, il quale fissa una regola di condotta cui debbono attenersi i soggetti del rapporto obbligatorio, alla stregua di quanto dispone l’art. 1375 c.c., secondo il quale il contratto deve essere eseguito, appunto, secondo buona fede, generando doveri di comportamento, la cui inosservanza costituisce inadempimento – al pari di quella riferita agli obblighi convenzionali – che non può trovare giustificazione nella circostanza che la richiesta sia stata formalizzata in termini ampi e generici, una volta che il destinatario di essa, parte di quel rapporto, aveva la piena informazione degli elementi che il curatore intendeva ed aveva titolo ad acquisire”. [18]
Inoltre, la mancata esibizione o comunque presentazione dell’intera documentazione potrebbe inficiare negativamente anche sul diritto di difesa dell’istante, comprimendo un diritto costituzionalmente sancito all’art. 24 Cost.
Eventuali limiti al diritto alla documentazione periodica sono previsti dalla disciplina specifica del tipo di contratto concretamente in essere tra le parti. Sul punto, ad esempio, in materia di conto corrente, è stato affermato che tale diritto del cliente (relativo alla documentazione di ciascuna operazione registrata sul conto corrente) sussiste limitatamente agli ultimi dieci anni, indipendentemente dall’adempimento del dovere di informazione da parte della banca e anche dopo lo scioglimento del rapporto[19].
Più di recente, lo stretto legame tra buona fede e art. 119 T.U.B. è stato sottolineato dalla Suprema Corte. si afferma, di fatti, che: “Da rimarcare, più ancora, è che la richiamata disposizione dell’art. 119 viene a porsi tra i più importanti strumenti di tutela che la normativa di trasparenza – quale attualmente stabilita nel testo unico bancario vigente («trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti», secondo la formale intitolazione del titolo VI di tale legge) – riconosca ai soggetti che si trovino a intrattenere rapporti con gli intermediari bancari. Come è stato rilevato, con tale norma la legge dà vita a una facoltà che non è soggetta a restrizioni (diverse, naturalmente, da quelle previste nella stessa disposizione dell’art. 119). E con cui viene a confrontarsi un dovere di protezione in capo all’intermediario, per l’appunto consistente nel fornire degli idonei supporti documentali alla propria clientela, che questo supporto venga a richiedere e ad articolare in modo specifico. Un dovere di protezione idoneo a durare, d’altro canto, pure oltre l’intera durata del rapporto. […] Posta questa serie di rilievi, appare chiaro come non possa risultare corretta una interpretazione che limiti l’esercizio di questo potere alla fase anteriore all’avvio del giudizio eventualmente intentato dal correntista nei confronti della banca presso la quale è stato intrattenuto il conto. Ché una simile ricostruzione non risulta solo in netto contrasto con il tenore del testo di legge, che peraltro si manifesta inequivoco. La stessa tende, in realtà, a trasformare uno strumento di protezione del cliente – quale si è visto essere quello in esame – in uno strumento di penalizzazione del medesimo: in via indebita facendo transitare la richiesta di documentazione del cliente dalla figura della libera facoltà a quella, decisamente diversa, del vincolo, dell’onere. D’altra parte, neppure è da ritenere che l’esercizio del potere in questione sia in qualche modo subordinato al rispetto di determinare formalità espressive o di date vesti documentali; né, tantomeno, che la formulazione della richiesta, quale atto di effettivo esercizio di tale facoltà, debba rimanere affare riservato delle parti del relativo contratto o, comunque, essere non conoscibile dal giudice o non transitabile per lo stesso. Ché simili eventualità si tradurrebbero, in ogni caso, in appesantimenti dell’esercizio del potere del cliente: appesantimenti e intralci non previsti dalla legge e frontalmente contrari, altresì, alla funzione propria dell’istituto. Il tutto, in ogni caso, nell’immanente limite di utilità, per il caso di esercizio in via giudiziale della facoltà di cui all’art. 119, che la richiesta si mantenga entro i confini della fase istruttoria del processo cui accede[20].
Da questi principi si ricava un dato essenziale: la buona fede svolge una funzione più ampia rispetto a quanto previsto dal codice civile, in quanto non si limita a imporre un generico dovere di comportarsi in modo corretto, ma impone un vero e proprio obbligo di protezione verso il cliente. Da qui, la funzione di tutela del contraente debole.
Dunque, se per il cliente la consegna alla documentazione rappresenta un diritto, per la Banca e gli istituti di credito, in generale, costituisce un obbligo giuridico che discende dalla legge e un onere probatorio, da esercitare necessariamente ante causam.
Fatte queste premesse sulla natura e sulla funzione del diritto spettante al cliente, occorre prendere adesso in considerazione le modalità di esercizio di tale diritto.
A tal proposito, in merito alle modalità di richiesta della documentazione, si ritiene, non necessario che il richiedente (il cliente o colui che gli succeda) indichi specificamente gli estremi del rapporto a cui si riferisce la documentazione richiesta in copia, essendo sufficiente che l’interessato fornisca alla banca gli elementi minimi indispensabili per consentirle l’individuazione dei documenti richiesti, quali, ad esempio:
– i dati relativi al soggetto titolare del rapporto;
– il tipo di rapporto a cui è correlata la richiesta;
– il periodo di tempo entro il quale le operazioni da documentare si sono svolte.[21]
Nel caso in cui il soggetto richiedente sia diverso dal titolare, si può aggiungere a tali requisiti anche la prova della procura o comunque, della sua propria legittimazione, alla luce dei principi generali[22].
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha osservato che la domanda del cliente ex art. 119 T.U.B. è subordinata alla sussistenza di due sole condizioni: a) che la domanda sia relativa a operazioni specifiche; b) che le operazioni per cui si chieda la documentazione siano relative ai soli ultimi dieci anni[23].
Particolarmente controversa è la tematica delle conseguenze giuridiche derivanti dal mancato adempimento a tale obbligo. Di fatti, l’art. 119 nulla dispone al riguardo.
Pertanto, alla luce dei principi generali dell’ordinamento in tema di buona fede, si dovrebbe ricavare l’indicazione secondo cui il contratto rimane valido ed efficace. Di fatti, la buona fede integra una regola di condotta e non di validità, e come tale non è in grado di viziare il contratto.
Tuttavia, sorge a carico della banca una responsabilità per inadempimento, da cui l’obbligo di risarcire l’eventuale danno sofferto dal cliente.
Sulla base di tale quadro normativo, si afferma, inoltre, che il mancato adempimento dell’istituto bancario agli obblighi rivenienti dall’art. 119, co.4 T.U.B. debba essere portato a conoscenza dell’Organo di Vigilanza (oltre che del Collegio sindacale della banca), al fine di sollecitarne l’intervento e finalmente ottenere la documentazione richiesta (nonché, in presenza di reiterati inadempimenti, l’eventuale irrogazione di sanzioni[24].
Parte della giurisprudenza afferma, inoltre, che per fronteggiare le conseguenze del mancato adempimento da parte dell’istituto bancario dell’obbligo di consegna della documentazione bancaria, il richiedente avrebbe diverse soluzioni: oltre alla possibilità di esperire l’art. 700 c.p.c., è proficuamente utilizzabile anche il procedimento monitorio ex art. 633 c.p.c.
Sul punto si sono espressi anche i giudici di merito, secondo cui: “non si comprende perché non si possa chiedere che si emetta un decreto ingiuntivo per consegna di documenti: l’art. 633 cpc prevede che il giudice possa pronunciare ingiunzione di consegna di cosa mobile determinata e un documento è, appunto, una cosa mobile determinata. Si sostiene che l’estratto conto non preesista all’ordine di esibizione, che la banca debba formarlo estraendo i dati dai propri archivi, e che quindi l’ordine di consegnare gli estratti conto abbia ad oggetto un facere, il che sarebbe estraneo alla procedura monitoria. Tuttavia, in questo caso l’aspetto del dare prevale su quello del facere: la formazione dell’estratto conto in forma cartacea, oggetto dell’ordine di consegna, richiede solo la trasposizione su carta dei dati presenti negli archivi informatici della banca; il documento, cioè la registrazione del dato, preesiste all’ordine di consegna, e la formazione dell’estratto costituisce solo la modalità con la quale il documento (il complesso di documenti costituito dalle registrazioni di tutti i dati contabili pertinenti alla richiesta) potrà essere consegnato dalla banca al cliente, in esecuzione di un obbligo di dare”[25].
Instaurato il giudizio, se già, infruttuosamente, è stata esperita l’istanza ex art. 119 co.4 T.U.B., è possibile richiedere un ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., sebbene di difficile esecuzione coattiva.
Da ultimo, giova mettere in evidenza la circostanza che il T.U.B. prevede espressamente che “le autorità creditizie esercitano i poteri di vigilanza (…) avendo riguardo alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati” (art. 5), che “Le Autorità creditizie esercitano i poteri previsti dal presente titolo avendo riguardo, oltre che alle finalità indicate nell’articolo 5, alla trasparenza delle condizioni contrattuali e alla correttezza dei rapporti con la clientela” (art. 127) e che “Qualora nell’esercizio dei controlli previsti dall’articolo 128 emergano irregolarità, la Banca d’Italia può: a) (…) ordinare la restituzione delle somme indebitamente percepite e altri comportamenti conseguenti” (art. 128-ter).
3. Buona fede, art. 119 T.U.B. e casi specifici
Questi principi di carattere generale ci permettono, adesso, di focalizzare l’attenzione su alcuni specifici casi, all’interno dei rapporti bancari.
3.1. Fusione societaria e operazioni straordinarie
Il primo settore specifico in cui rileva la “buona fede bancaria”, connessa all’obbligo di consegna della documentazione, è quello delle operazioni straordinarie di società, quale ad esempio la fusione societaria.
Di fatti, in questo caso trova applicazione l’art.1 lettera b) delle Prescrizioni in materia di operazioni di fusione e scissione fra società – 8 aprile 2009 pubblicate in Gazzetta Ufficiale n. 106 del 9 maggio 2009 G.D.P.R. (General Data Protection Regulation n. 679/2016), che sancisce la necessità di comunicazione individualizzata agli interessati in occasione della prima circostanza utile di contatto, oltre che pubblicazione sul sito web istituzionale della società.
In buona sostanza, le società devono sempre inviare i nuovi riferimenti a tutti gli interessati, individuati specificamente e ciò non appena si presenti la prima occasione utile.
Sul punto, è fondamentale ricordare anche il Provvedimento del 29 luglio 2009 emanato dalla Banca d’Italia in materia di trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari e di correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti.
Nella sezione IV pag. 26 di tale provvedimento, dedicato specificamente alle comunicazioni con la clientela, si puntualizza che, anche in caso di operazioni straordinarie che comportino successione nei rapporti giuridici e cambio denominazione e di Iban, quali ad esempio la fusione, deve trovare applicazione l’art. 58 T.U.B comma 2[26]., il quale impone un obbligo di comunicazione al fine di garantire al cliente la possibilità di fruire dei rapporti con l’istituto bancario senza soluzione di continuità.
Questo obbligo di comunicazione in capo alla società incorporante troverebbe, inoltre, il proprio fondamento giuridico nell’art. 119 T.U.B.
Peraltro, l’informazione diretta ai clienti dell’avvenuta fusione rientra tra le comunicazioni inerenti lo “svolgimento del rapporto in corso”, necessarie per rendere noto anche delle modifiche al nome, ai nuovi dati identificativi e bancari, attraverso cui garantire la piena e regolare prosecuzione del rapporto in corso.
In ultimo, si rammenta anche la più recente ordinanza secondo cui: “la banca che si afferma successore (a titolo universale o particolare) del titolare originario ai sensi dell’art. 58, primo comma del T.U.B., e quindi titolare di diritti quesiti, ha l’onere puntuale di fornire la prova documentale della propria legittimazione, con documenti idonei a dimostrare l’incorporazione e l’inclusione del credito – oggetto della richiesta nell’operazione di cessione in blocco di rapporti giuridici – non rilevando a tal scopo la circostanza che la cessionaria, ai sensi del comma 2 di quell’articolo, abbia provveduto a dare notizia dell’avvenuta cessione mediante iscrizione nel registro delle imprese e pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana; ciò in quanto tale pubblicazione può costituire, al più, elemento indicativo dell’esistenza materiale di un fatto di cessione, come intervenuto tra due soggetti in un dato momento, ma non dà spesso contezza, in questa sua “minima” struttura informativa, degli specifici e precisi contorni dei crediti che vi sono inclusi ovvero esclusi, né tanto meno consente di compulsare la reale validità ed efficacia dell’operazione materialmente posta in essere”[27].
3.2. Rapporti di conto corrente
L’obbligo di rendere la dovuta documentazione diventa ancor più stringente nei rapporti di conto corrente.
Sul punto, infatti, con specifico riguardo alla documentazione bancaria, è emersa la convinzione secondo cui, “sussiste il diritto del correntista, ex art. 119, comma 4, T.U.B., di ottenere dall’istituto bancario, a proprie spese, la consegna di copia della documentazione relativa a ciascuna operazione registrata sull’estratto conto nell’ultimo decennio, indipendentemente dall’adempimento del dovere di informazione da parte della banca e anche dopo lo scioglimento del rapporto; tale diritto si configura come un diritto sostanziale autonomo, la cui tutela è riconosciuta come situazione giuridica finale e non strumentale, ragione per cui, per il suo riconoscimento, non assume alcun rilievo l’utilizzazione che il cliente intende fare della documentazione, una volta ottenuta.[28]”
Tale principio è poi stato ribadito anche dalla giurisprudenza di legittimità: la Banca ha il dovere di presentare tali documenti; il correntista ha sempre il diritto di ottenere il rendiconto, fornendo la sola prova dell’esistenza del rapporto contrattuale[29].
Si afferma, inoltre, che il diritto soggettivo del correntista ad ottenere copia della documentazione relativa al rapporto bancario, ex art. 119 T.U.B., ben può essere legittimamente esercitato anche nel giudizio ed il mancato esercizio di tale facoltà prima del giudizio non vale a precludere la possibilità di chiederne l’esibizione ex art. 210 c.p.c.
Peraltro, tale soluzione appare conforme al principio della vicinanza della prova, posto che è indubbiamente più agevole, per la banca, il deposito di detta documentazione (sulla quale grava inoltre uno specifico obbligo di conservazione e rilascio copia), piuttosto che sul correntista, poiché – come insegna la prassi commerciale – è tempestato di documentazione cartacea, soprattutto nell’ambito di rapporti di durata, e può risultare eccessivamente difficile la conservazione e catalogazione. La mancata produzione della documentazione relativa al decennio precedente l’ordinanza di esibizione non può comportare valutazioni sfavorevoli nei confronti della banca onerata del relativo deposito ex art. 116 c.p.c., in quanto non può produrre in giudizio documentazione che non era obbligata neanche a conservare.[30]
Quest’ultima regola, relativa, all’estensione temporale dell’obbligo di conservazione della documentazione da parte della Banca è in parte stata rivista dai giudici di legittimità.
Di fatti, la Suprema Corte ha affermato che la banca abbia l’onere di produrre i detti estratti a partire dall’apertura del conto; si aggiunge, al riguardo, che la banca stessa non possa sottrarsi all’assolvimento di tale onere invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni, dal momento che l’obbligo di conservazione della documentazione contabile va distinto da quello di dar prova del proprio credito[31].
Tuttavia, questa parziale deroga troverebbe applicazione nei rapporti bancari in conto corrente, una volta che sia stata esclusa la validità, per mancanza dei requisiti di legge, della pattuizione di interessi ultra legali a carico del correntista.
La ragione di tale conclusione si spiega ove si consideri che, negata la validità della clausola sulla cui base sono stati calcolati gli interessi, la produzione degli estratti conto a partire dall’apertura del conto corrente consente, attraverso una integrale ricostruzione del dare e dell’avere con l’applicazione del tasso legale, di determinare il credito della banca (sempre che la stessa non risulti addirittura debitrice, una volta depurato il conto dalla illegittima capitalizzazione).
Allo stesso risultato non si può pervenire con la prova del saldo, comprensivo di capitale ed interessi, al momento della chiusura del conto: infatti, tale saldo non solo non consente di conoscere quali addebiti, nell’ultimo periodo di contabilizzazione, siano dovuti ad operazioni passive per il cliente e quali alla capitalizzazione degli interessi, ma esso, a sua volta, discende da una base di computo che è il risultato di precedenti capitalizzazioni degli interessi[32].
Sul tema dell’onere della prova, inoltre, è divenuto granitico il principio di diritto della Corte di Cassazione, a tenore del quale “il potere del correntista di chiedere alla banca di fornire la documentazione relativa al rapporto di conto corrente tra gli stessi intervenutii può essere esercitato, ai sensi del comma 4 dell’art. 119 del vigente testo unico bancario, anche in corso di causa e a mezzo di qualunque modo si mostri idoneo allo scopo. […] Nell’assegnare al «cliente, colui che gli succede a qualsiasi titolo e colui che subentra nell’amministrazione dei suoi beni» la facoltà di ottenere opportuna documentazione dei propri rapporti bancari, la norma del comma 4 dell’art. 119 TUB non contempla, o dispone, nessuna limitazione che risulti in un qualche modo attinente alla fase di eventuale svolgimento giudiziale dei rapporti tra correntista e istituto di credito. D’altra parte, non risulta ipotizzabile ragione che, per un verso o per altro, possa giustificare, o anche solo comportare, un simile risultato. Da rimarcare, più ancora, è che la richiamata disposizione dell’art. 119 viene a porsi tra i più importanti strumenti di tutela che la normativa di trasparenza – quale attualmente stabilita nel testo unico bancario vigente («trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti», secondo la formale intitolazione del titolo VI di tale legge) – riconosca ai soggetti che si trovino a intrattenere rapporti con gli intermediari bancari. Come è stato rilevato, con tale norma la legge dà vita a una facoltà che non è soggetta a restrizioni (diverse, naturalmente, da quelle previste nella stessa disposizione dell’art. 119). E con cui viene a confrontarsi un dovere di protezione in capo all’intermediario, per l’appunto consistente nel fornire degli idonei supporti documentali alla propria clientela, che questo supporto venga a richiedere e ad articolare in modo specifico. Un dovere di protezione idoneo a durare, d’altro canto, pure oltre l’intera durata del rapporto. […] Posta questa serie di rilievi, appare chiaro come non possa risultare corretta una interpretazione che limiti l’esercizio di questo potere alla fase anteriore all’avvio del giudizio eventualmente intentato dal correntista nei confronti della banca presso la quale è stato intrattenuto il conto. Ché una simile ricostruzione non risulta solo in netto contrasto con il tenore del testo di legge, che peraltro si manifesta inequivoco. La stessa tende, in realtà, a trasformare uno strumento di protezione del cliente – quale si è visto essere quello in esame – in uno strumento di penalizzazione del medesimo: in via indebita facendo transitare la richiesta di documentazione del cliente dalla figura della libera facoltà a quella, decisamente diversa, del vincolo, dell’onere. D’altra parte, neppure è da ritenere che l’esercizio del potere in questione sia in qualche modo subordinato al rispetto di determinare formalità espressive o di date vesti documentali; né, tantomeno, che la formulazione della richiesta, quale atto di effettivo esercizio di tale facoltà, debba rimanere affare riservato delle parti del relativo contratto o, comunque, essere non conoscibile dal giudice o non transitabile per lo stesso. Ché simili eventualità si tradurrebbero, in ogni caso, in appesantimenti dell’esercizio del potere del cliente: appesantimenti e intralci non previsti dalla legge e frontalmente contrari, altresì, alla funzione propria dell’istituto. Il tutto, in ogni caso, nell’immanente limite di utilità, per il caso di esercizio in via giudiziale della facoltà di cui all’art. 119, che la richiesta si mantenga entro i confini della fase istruttoria del processo cui accede[33].
Qualora il cliente correntista abbia chiesto un ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., in linea generale, si ritiene che la mancata ottemperanza all’ordine di esibizione del giudice rappresenti comportamento processuale che integri gli estremi della resistenza in giudizio accompagnato dalla mala fede, da cui scaturisce un diritto al risarcimento del danno[34].
Di fatti, la condotta della banca, che non ha dato riscontro alle diverse richieste di documentazione pervenutale, può essere rilevante ai sensi dell’art. 96, comma 3 c.p.c., soprattutto quando l’opponente adduca motivazioni non in grado di spiegare in modo il proprio rifiuto e le richieste ex art. 119 T.U.B. provenienti dal cliente[35].
In secundis, tale vulnus informativo subito dal cliente si potrebbe ripercuotere anche in sede processuale, sull’attività del C.T.U., al quale, eventualmente, sia affidato il compito di ricostruire il rapporto in essere tra le parti.
Di fatti, l’inadempimento della banca può comportare il rischio che il calcolo effettuato C.T.U., sia solo parziale. Ad esempio, il consulente potrebbe effettuare i conteggi con riferimento al periodo più recente, o quello più remoto, laddove gli estratti conto presentano continuità.
Tuttavia, l’analisi così condotta potrebbe non apparire affidabile, ai fini dell’accertamento della verità processuale[36].
Sul punto è intervenuta ampia giurisprudenza, sia di merito che di legittimità.
Di fatti, è stato affermato che: “In tema di azione di ripetizione di somme indebitamente trattenute dalla Banca nel corso del rapporto di conto corrente, quando manchino o siano incompleti gli estratti conto analitici, il problema non è quello di stabilire se in astratto si possa espletare la CTU ma se in concreto la CTU espletata sia affidabile; non è, infatti, vietato al giudice espletare una consulenza tecnica contabile per la rideterminazione del saldo del conto corrente in base ai documenti contabili prodotti dalle parti, riducendosi in tal caso la questione alla verifica dell’attendibilità della CTU. [Nel caso di specie, il CTU aveva argomentato, in modo esauriente e condivisibile, le conclusioni in ordine all’avvenuta rideterminazione del saldo, in assenza degli estratti conto analitici, precisando che, nel caso concreto, ciò non ha inciso in nessun modo sui calcoli, che sono stati effettuati in modo “perfettamente corretto” e “senza nessun margine di approssimazione” per un determinato periodo, mentre ha rilevato delle “approssimazioni del tutto marginali” per i calcoli relativi a d altro periodo. Il medesimo CTU ha, inoltre, indicato il metodo matematico adottato, specificando che “gli elementi per il conteggio delle competenze consentono di determinare un saldo medio per un intervallo di giorni e che quindi, pur non consentendo di determinare l’esatto ammontare del saldo di conto corrente a quella precisa data di valuta, consentono però la corretta determinazione degli interessi nell’intervallo di giorni considerato che è l’unica cosa che conta alla fine del presente lavoro”. Il CTU ha quindi spiegato che “l’assenza degli estratti conto analitici ha comportato la necessità di ricostruire i saldi del conto e i singoli movimenti per valuta mediante un calcolo a ritroso, consistente nel dividere il totale dei numeri per i giorni e moltiplicando il risultato per cento”, come rappresentato nella formula esplicitata nella relazione][37] .
E ancora: “tuttavia, qualora il cliente limiti l’adempimento del proprio onere probatorio soltanto ad alcuni aspetti temporali dell’intero andamento del rapporto, versando la documentazione del rapporto in modo lacunoso e incompleto, il giudice – valutate le condizioni delle parti e le loro allegazioni (anche in ordine alla conservazione dei documenti) – può integrare la prova carente, sulla base delle deduzioni in fatto svolte dalla parte, anche con altri mezzi di cognizione disposti d’ufficio, in particolare con la consulenza contabile, utilizzando, per la ricostruzione dei rapporti di dare e avere, il saldo risultante dal primo estratto conto, in ordine di tempo, disponibile e acquisito agli atti. Nel caso di specie, la mancanza di alcuni segmenti del rapporto non ha impedito al C.T.U. di ricostruirne l’andamento attraverso un procedimento di calcolo ineccepibile, avendo come base di partenza il primo saldo disponibile e, riguardo ai due trimestri mancanti, creando un collegamento tra il saldo finale dell’ultimo periodo disponibile e quello iniziale del periodo successivo, mediante l’inserimento di una scrittura cd. di raccordo.[38]”
I principi sin qui esposti trovano conferma anche nelle pronunce della Suprema Corte di Cassazione.
Si legge, infatti, che: “La mancata produzione degli estratti conto relativi a solo tre mesi intermedi in un arco di tempo pluridecennale, tra l’altro coperti dalla produzione degli e/c scalari relativi ai periodi per i quali non sono stati esibiti gli estratti conto, non possono far ritenere la domanda priva di adeguata prova, ben potendosi ricostruire, anche ad opera di un C.T.U., l’intero andamento del rapporto in maniera certa e non approssimativa e se del caso, qualora dovessero riscontrarsi difficoltà ricostruttive, procedersi a stabilizzare il dato riscontrato nella continuità degli estratti conto e riproducendo lo stesso nel primo estratto disponibile, successivo al periodo non coperto e così di seguito”[39].
Pertanto, nei rapporti bancari in conto corrente la rideterminazione del saldo del conto deve aver luogo attraverso i relativi estratti a partire dalla data di apertura. In questo modo viene effettuata l’integrale ricostruzione del dare e dell’avere sulla base di dati contabili certi in ordine alle operazioni ivi registrate, con applicazione del tasso legale[40].
A questo proposito, merita di essere richiamata anche la recentissima sentenza della Suprema Corte. In questa occasione, è stato ribadito il principio secondo cui: “a fronte della documentazione di un rapporto di conto corrente bancario incompleta, in mancanza dei contratti di conto corrente e degli estratti conto completi, non prodotti dalla correntista e dalla banca, convenuta in un’azione di ripetizione di indebito promossa dalla correntista, malgrado ordine di esibizione documentale, il giudice, valutate le condizioni delle parti e le loro allegazioni (anche in ordine alla conservazione dei documenti), può integrare la prova carente “sulla base delle deduzioni in fatto svolte dalla parte, anche con altri mezzi di cognizione disposti d’uffici, in particolare con la consulenza contabile, utilizzando, per la ricostruzione dei rapporti di dare e avere, il saldo risultante dal primo estratto conto, in ordine di tempo, disponibile e acquisito agli atti”[41].
La Corte, dopo aver indicato al C.T.U. in maniera chiara, precisa e puntuale un metodo e un criterio da seguire (il cosiddetto raccordo) nel rapporto di conto corrente, quale rapporto di durata, ha ulteriormente precisato che: “ nel caso in cui non vengano prodotti tutti gli estratti conto del rapporto di conto corrente bancario (il che, di regola, deve avvenire, al fine di determinare un’integrale ricostruzione dei rapporti di dare ed avere) e conseguentemente non sia possibile procedere ad una ricostruzione integrale del rapporto, tale situazione non causa il respingimento della domanda di restituzione dell’indebito da parte del correntista, ma è possibile procedere alla ricostruzione anche attraverso altre prove documentali o argomenti di prova desunti dalla condotta processuale tenuta dal correntista o dalla banca”[42].
In tertiis, il vuoto informativo provocato dalla mancata consegna della documentazione, potrebbe escludere l’applicazione dell’art. 1832 c.c.
Tale disposizione statuisce che l’estratto conto trasmesso da un correntista all’altro s’intende approvato, se non è contestato nel termine pattuito o in quello usuale, o altrimenti nel termine che può ritenersi congruo secondo le circostanze. Tuttavia, l’approvazione del conto non preclude il diritto di impugnarlo per errori di scritturazione o di calcolo, per omissioni o per duplicazioni. L’impugnazione deve essere proposta, sotto pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di ricezione dell’estratto conto relativo alla liquidazione di chiusura, che deve essere spedito per mezzo di raccomandata.
Sul punto, la giurisprudenza ha specificato che: “Ai sensi dell’art. 1832 c.c., la mancata contestazione dell’estratto conto e la connessa implicita approvazione delle operazioni in esso annotate riguardano gli accrediti e gli addebiti considerati nella loro realtà effettuale, nonché la verità contabile, storica e di fatto delle operazioni annotate, ma non impediscono la formulazione di censure concernenti la validità ed efficacia dei rapporti obbligatori sottostanti” [43].
Anche qualora si voglia ammettere la tacita approvazione, la giurisprudenza ritiene che: “Ai sensi dell’art. 1832 c.c., l’approvazione tacita dell’estratto di conto corrente non si estende alla validità ed efficacia dei rapporti obbligatori sottostanti, ma ha la funzione di certificare la verità storica dei dati riportati nel conto, ivi compresa l’esistenza degli ordini e delle disposizioni del correntista, menzionati nel conto stesso come causali di determinate annotazioni di debito: poiché, pertanto, gli estratti non contestati si presumono conformi alle disposizioni impartite dal correntista, su questi grava l’onere di provare l’esistenza di fatti, non necessariamente negativi ma anche positivi, diversi e contrari rispetto al contenuto delle annotazioni”[44].
Principio ribadito ancor più di recente: “l’approvazione anche tacita dell’estratto conto, ai sensi dell’art. 1832, primo comma, c.c., preclude qualsiasi contestazione in ordine alla conformità delle singole annotazioni ai rapporti obbligatori dai quali derivano gli accrediti e gli addebiti iscritti nell’estratto conto, ma non impedisce di sollevare contestazioni in ordine alla validità ed all’efficacia dei rapporti obbligatori dai quali derivano i suddetti addebiti ed accrediti, e cioè quelle fondate su ragioni sostanziali attinenti alla legittimità, in relazione al titolo giuridico, dell’inclusione o dell’eliminazione di partite del conto corrente.[45]
Alla luce di queste premesse, per la giurisprudenza, dunque, “la mancata contestazione degli estratti conto inviati al cliente dalla banca, oggetto di tacita approvazione in difetto di contestazione ai sensi dell’art. 1832 c.c., non vale a superare la nullità della clausola relativa agli interessi ultralegali, perché l’unilaterale comunicazione del tasso d’interesse non può supplire al difetto originario di valido accordo scritto in deroga alle condizioni di legge, richiesto dall’art. 1284 c.c.”[46] .
I principi così affermati permettono di osservare la grandissima importanza che riveste la buona fede oggettiva nell’ambito dei rapporti bancari. In particolare, la consegna della documentazione ineretente al rapporto ne rappresenta una evidente concretizzazione.
Dalla mancata consegna della documentazione, dunque, derivano molteplici conseguenze.
Alcune, di carattere generale, attengono a tutti i rapporti bancari e costituiscono punti fermi all’interno di questo settore. Altre, di carattere specifico, tengono conto del concreto atteggiarsi del rapporto e della tipologia di contratto alla base.
In ogni caso, come si è cercato di mettere in evidenza, dalla violazione della clausola generale della buona fede (come si concretizza nei rapporti bancari) e dell’art. 119 T.U.B. derivano molteplici conseguenze che costituiscono costante campo di indagine e di studio per la giurisprudenza.
Bibliografia
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Cass. n. 343/1993.
Cass. 13777/2007.
Cass. n. 22183/2015.
Cfr. Cass. n. 11004/2006.
Cass. Civile Sent. Sez. I n. 11554/2017.
Cass. 10 maggio 2007, n. 10692; Cass. 25 novembre 2010, n. 23974; Cass. 26 gennaio 2011, n. 1842; Cass. 18 settembre 2014, n. 19696; Cass. 20 aprile 2016, n. 7972; Cass. 25 maggio 2017, n. 13258; più di recente, sempre nel senso dell’affermazione dell’onere della banca di produrre gli estratti conto dal momento di inizio del rapporto: Cass. 16 aprile 2018, n. 9365; Cass. 27 settembre 2018, n. 23313.
Cfr. Cass. 10 maggio 2007, n. 10692.
Cass. Civile Sent. Sez. I n. 11554/2017.
Tribunale Monza, sez. III, sentenza n. 95 /2016.
Cass., 11 maggio 2017, n. 11554; Cass., 15 settembre 2017, n. 21472; Cass., 28 maggio 2018, n. 13277; Cass. n. 3875/2019; Cass. ordinanza n. 31650/ 2020.
Tribunale Sassari 21 dicembre 2015.
Cass. Sez. I n. 5617/2020.
Cfr. anche Cass. n. 11004/2006; Cass. n. 12093/2001; Cass. n. 4598/1997.
Tribunale di Sassari, n. 269/2017, pubblicata il 20.02.2017.
Cass., Sez. Un., 25.11.2008, n. 28056; cfr. Cass. 23033/2011; Cass. 22819/2010; Cass. 1618/2009; Cass. 10669/2008; Cass. 13345/2006; Cass. 14605/2004.
Cass., Sez. Un., n. 24675/2017.
Cass. 13777/2007.
Tribunale di Napoli, II sezione civile, 17/1/2016.
Tribunale di Sassari, n. 269/2017.
Tribunale di Padova, 20 ottobre 2016, n. 2878.
Cass. n. 4074/2018; Cass. n. 11543/2019.
Corte d’Appello Milano, 27 Novembre 2019.
Corte d’Appello di Bari, Sentenza n. 1868/ 2019.
Cass, 14074/2018; Cass. 11543/2019.
Cass. n. 14074/2018.
Cass. Civ. n. 2435/2020.
Cass. civ. n. 11626/2011; Cass. civ. n. 11749/2006; Cass. civ. n. 23421/2016.
Cass. civ. n. 3574/2011.
Cass. civ. n. 30000/2018.
Cass. civ. n. 17679/2009.
Note
[1] FRATINI M. – SALERNO A., Gli obblighi di protezione tra contatto sociale e contratto con effetti protettivi verso terzi, in NelDiritto, 2012, pp.9.
[2] CHINE’ G. – ZOPPINI A., Manuale di diritto civile, Nel Diritto Editore, 2019, pp.739.
[3] NATOLI V., La regola della correttezza e l’attuazione del rapporto obbligatorio, in Studi sulla Buona fede, Milano, 1975, pp.126 ss.
[4] DI MAJO, Delle obbligazioni in generale, in Comm.Sciatloja-Branca, Bologna-Roma,1988, pp.335.
[5] Cass. n. 2252/2000; Cass. n.12310/1999; Cass. n.831/1998.
[6] GALGANO F., Squilibrio contrattuale e malafede del contraente forte, in Contratto e impresa, 1997, pp.423.
[7] Cass., Sez. Un., 25.11.2008, n. 28056; cfr. Cass. 23033/2011; Cass. 22819/2010; Cass. 1618/2009; Cass. 10669/2008; Cass. 13345/2006; Cass. 14605/2004.
[8] PASSARELLI S., Dottrine generali in Diritto civile, Napoli, 1989, pp. 171; MUSIO A., La buona fede nei contratti con il consumatore, Edizioni Scientifiche Italiane,2001, pp.82.
[9] Cass. S.U. n. n. 26724 / 2007.
[10] Cfr. ad esempio, Cass. n.26543/2014; Cass. n.12477/2018.
[11] Per quanto attiene alla buona in generale nel settore bancario cfr. MORINI G., Rapporti Banca cliente: la condotta della Banca, in Diritto.it, ISSN 1127-8579 10/06/2019.
[12]Cass. n. 343/1993; Cass. n. 72 /1997; Cass. n. 5562/1999.
[13]Cass. 13777/2007.
[14] Cass. n. 4571/1992; Cass. n. 72 /1997; Cass. n. 12093/2001.
[15] Cass. n. 343/1993.
[16]CAPOBIANCO E. , Profili generali della contrattazione bancaria, in I contratti bancari, Cap 1, Utet Giuridica, 2016, pp. 21.
[17] Cass. 13777/2007.
[18] Cfr. anche Cass. n. 11004/2006; Cass. n. 12093/2001; Cass. n. 4598/1997.
[19] Tribunale di Sassari, n. 269/2017 , pubblicata il 20.02.2017
[20]Cass. Civile Sent. Sez. I n. 11554/2017.
[21]Cfr. Cass. n. 11004/2006.
[22] FIORUCCI F., Diritto di accesso alla documentazione bancaria, www.diritto24.ilsole24ore.com, 8.02.2016
[23] Cass. n. 22183/2015.
[24] FIORUCCI F., Diritto di accesso alla documentazione bancaria, www.diritto24.ilsole24ore.com, 8.02.2016.
[25] Tribunale di Napoli, II sezione civile, 17/1/2016, nella causa iscritta al n. 3629/2015.
[26]Art 58,comma 2 T.U.B. “La banca cessionaria dà notizia dell’avvenuta cessione mediante iscrizione nel registro delle imprese e pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana. La Banca d’Italia può stabilire forme integrative di pubblicità”.
[27]Cass. Sez. I n. 5617/2020.
[28] Tribunale Monza, sez. III, sentenza n. 95 /2016.
[29] Cass., 11 maggio 2017, n. 11554; Cass., 15 settembre 2017, n. 21472; Cass., 28 maggio 2018, n. 13277; Cass. n. 3875/2019; Cass. ordinanza n. 31650/ 2020.
[30] Tribunale Sassari 21 dicembre 2015.
[31] Cass. 10 maggio 2007, n. 10692; Cass. 25 novembre 2010, n. 23974; Cass. 26 gennaio 2011, n. 1842; Cass. 18 settembre 2014, n. 19696; Cass. 20 aprile 2016, n. 7972; Cass. 25 maggio 2017, n. 13258; più di recente, sempre nel senso dell’affermazione dell’onere della banca di produrre gli estratti conto dal momento di inizio del rapporto: Cass. 16 aprile 2018, n. 9365; Cass. 27 settembre 2018, n. 23313.
[32] Cfr. Cass. 10 maggio 2007, n. 10692.
[33] Cass. Civile Sent. Sez. I n. 11554/2017.
[34]Tribunale di Sassari, n. 269/2017.
[35]Tribunale di Padova, 20 ottobre 2016, n. 2878.
[36]Cass. n. 4074/2018; Cass. n. 11543/2019.
[37]Corte d’Appello Milano, 27 Novembre 2019.
[38]Corte d’Appello di Bari, Sentenza n. 1868/ 2019.
[39] Cass, 14074/2018; Cass. 11543/2019.
[40] Cass. n. 14074/2018.
[41] Cass. Civ. n. 2435/2020.
[42] Cass. Civ. n. 2435/2020.
[43] Cass. civ. n. 11626/2011; Cass. civ. n. 11749/2006; Cass. civ. n. 23421/2016.
[44] Cass. civ. n. 3574/2011.
[45] Cass. civ. n. 30000/2018.
[46] Cass. civ. n. 17679/2009.
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Veronica Schirripa
Dott.ssa Veronica SchirripaLaureata presso l'Università degli studi di Catania nel 2018 con Tesi sperimentale in diritto penale “Il reato di Tortura tra fonti sovrannazionali e diritto interno" (relatrice: Prof. Rosaria Sicurella).
Durante il percorso accademico, la grande passione per i diritti umani e il diritto internazionale l'ha spinta a partecipare ad uno stage al palazzo delle Nazioni Unite (New York) in occasione del CWMUN 2016, organizzato dall'associazione Diplomatici, nella qualità di delegate as Namibia; ad assistere nel 2017 alle discussioni del Parlamento Europeo sul tema della lotta alla criminalità e agli hate speeches.
Ha frequentato la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali e Forensi di Catania “A. Galati", conseguendo il Diploma nel 2020 con tesi di Diritto Civile “Gli obblighi del sanitario" (Relatore: prof Giovanni Di Rosa).
Durante il percorso post-accademico ha svolto un periodo di stage presso la Procura Generale della Repubblica, presso la sede di Catania.
Abilitata all'esercizio della professione forense.
Svolge l'attività di consulente presso lo Studio Di Paola & Partners.
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