Il reato di cyberstalking in epoca moderna: tra normativa e giurisprudenza
Il fenomeno del cd. cyberstalking ha preso sempre più piede in epoca moderna, soprattutto grazie all’evoluzione tecnologica ed al costante, massiccio e giornaliero uso dei social network, quali internet, posta elettronica, chat, sms e/o messaggistica istantanea.
Basti pensare che attualmente si registra un vertiginoso aumento nell’uso dei mezzi di comunicazione per via informatica e telematica nei soggetti di tutte le età, soprattutto tra i più giovani.
In generale, numerosi sono i risvolti positivi che l’utilizzo di tali strumenti porta nella vita di ogni consociato.
Al contrario, però non mancano casi in cui il soggetto utilizza la tecnologia in maniera eccessiva e compulsiva perdendo di vista l’uso che ne si dovrebbe fare, così perpetrando condotte moleste e persecutorie che spesso integrano il cd. reato di stalking mediante l’uso della tecnologia informatica e telematica.
Tra tutti, infatti, gli strumenti del Web 2.0 hanno il pregio e, al contempo, il difetto, di essere dotati di una maggiore interattività che consente uno scambio rapido di informazioni tra gli utenti. Tali informazioni, però, possono essere sfruttate da malintenzionati ai danni di vittime, quasi spesso, inconsapevoli.
Il fenomeno suddetto, oggi, prende il nome di cyberstalking (o cyber-stalking, o cyberstalk), la cui locuzione deriva dalla fusione del termine in lingua inglese cyber (il termine risale al greco antico “κυβερνητικὴ”, cioè l’arte di reggere il timone della nave) con il verbo che connota l’azione di stalking.
Giova ricordare che lo stalking (pronunciato IPA: /’stolking/ in italiano, [‘stɔːkɪŋ] in inglese) è un termine di origine inglese (to stalk, letteralmente vuol dire “fare la posta”) introdotto nell’ordinamento italiano, mediante il d.l. n. 11/2009, convertito dalla l. n. 38/2009, con l’art. 612-bis c.p., rubricato “atti persecutori”.
Tale disposizione normativa letteralmente punisce chiunque “con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.
Esso, pertanto, viene utilizzato nella lingua italiana per indicare una serie di atteggiamenti e condotte persecutorie ripetute nel tempo (ad es. con comportamenti invadenti, di intromissione, molestie, con minacce telefoniche rivolte costantemente alla vittima, messaggi, appostamenti, ossessivi controlli e pedinamenti) tenute da un individuo, detto stalker, che provocano un danno al destinatario incidendo sul suo modus vivendi, oppure ingenerando un grave stato di ansia, paura, o timore per la propria incolumità o per quella di una persona cara.
La norma di cui all’art. 612 bis cp non disciplina espressamente il reato di cyberstalking, posto che la stessa si limita al 2° co., solo a prevedere un aumento di pena, in via generale, se il fatto è commesso attraverso l’uso di strumenti informatici o telematici.
Pertanto, appare più difficoltoso ricondurre il reato di cyberstalking in quello di stalking, poiché non tutti gli elementi costitutivi del primo rientrerebbero tra quelli tipizzati dall’art. 612 bis cp a causa della diversa natura dei comportamenti assunti dal reo, definito “cyberstalker“.
Quest’ultimo, inoltre, risulta spesso di difficile identificazione.
Egli, infatti, il più delle volte, commette il reato in parola celandosi dietro anonimato e false identità, magari creando profili fake o introducendosi nel sistema informatico della vittima con programmi atti ad assumerne il controllo (trojan horses) o a danneggiarlo (virus); lo stesso, poi, può rubare l’identità del perseguitato spendendo il relativo nome in rete (chat, newsletters, message boards) e associandovi contenuti o frasi lesive della sua dignità.
A tutto ciò, vi è da aggiungere che il locus commissi delicti, ovvero il luogo di consumazione del reato, non si presenta come fisico, ma puramente virtuale.
Pertanto, il cyberstalker, forte di questa corazza informatica, si trova a dover perpetrare numerose condotte assurgibili a rango di reato, proprio perché non ha un contatto diretto con la vittima, ma opera entro lo spazio cibernetico, dove per lo stesso tutto può essere lecito e non facilmente sottoponibile a controllo.
La mancanza di una norma ad hoc, disciplinante il reato in esame, ha portato la giurisprudenza a pronunciarsi, al riguardo, con diverse sentenze.
In primis ella, chiamata a disquisire sulla riconducibilità del cyberstalking entro lo schema del reato di cui all’art. 612 bis c.p., ha statuito che “Gli atti di molestia, reiterati, idonei a configurare il delitto di stalking ex art. 612 bis c.p. possono concretarsi non solo in telefonate, invii di buste, sms, e-mail, nonché di messaggi tramite internet, anche nell’ufficio dove la persona offesa prestava il suo lavoro, ma consistere anche nella trasmissione da parte dell’indagato, tramite facebook, di un filmato che ritraeva un rapporto sessuale tra lui e la donna”.
Nel caso sottoposto ai giudici di legittimità, tali condotte avevano provocato nella vittima un grave stato di ansia e di vergogna che l’avevano costretta a dimettersi dal lavoro (sent. Cass.pen., sez. VI n. 32404 del 2010).
In più di un episodio, poi, la Corte di Cassazione ha ricondotto casi di persecuzioni e minacce, attuati attraverso strumenti informatici, al reato di stalking (cfr. per tutte sent. Cass. n. 36894/2015).
Con una successiva pronuncia la stessa ha, poi, dichiarato che, insultare e inviare messaggi minatori su Facebook alle stesse persone, può integrare il reato di stalking e non quello meno grave di diffamazione, se le azioni sono in grado di provocare uno stato di ansia e di paura nei destinatari; la pronuncia prendeva spunto dalla vicenda in cui un uomo, al quale dopo la separazione dalla compagna, erano stati tolti due dei suoi figli e affidati ai nonni materni, aveva perpetrato una serie di condotte persecutorie nei confronti degli ex suoceri (tra cui anche su Facebook), tanto da creare in loro un grave stato di ansia e il timore per la propria incolumità (Cass., sent. n. 21407, del 23.05.2016).
Recentemente, la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, in linea con la precedente giurisprudenza di legittimità, dopo aver riaffermato il principio per cui ”i messaggi o filmati postati sui social network integrano l’elemento oggettivo del delitto di atti persecutori […]”, ha precisato che ”l’attitudine dannosa di tali condotte non è […] tanto quella di costringere la vittima a subire offese o minacce per via telematica, quanto quella di diffondere fra gli utenti della rete dati, veri o falsi, fortemente dannosi e fonte di inquietudine per la parte offesa”.
La sentenza in esame traeva origine dalla creazione di un profilo Facebook dal nome ”lapidiamo la rovina famiglie” in cui l’imputato aveva postato foto, filmati e commenti con riferimenti alla sua ex amante, colpevole di aver confessato alla moglie l’esistenza della relazione extraconiugale con l’uomo.
Alla luce di ciò, i giudici di legittimità concludevano affermando l’irrilevanza della circostanza per cui le foto e i filmati offensivi avrebbero potuto essere ignorati dalla vittima non accedendo al profilo, poiché il danno è da ricondurre alla pubblicazione di quei contenuti e non alla presa visione degli stessi da parte della donna (Corte di Cassazione Quinta Sezione Penale, 28 dicembre 2017 n. 57764).
A ben vedere, la Corte di Cassazione si è pronunciata in maniera costante e pacifica sull’argomento, facendo confluire le condotte di cyberstalking entro i confini delineati dalla norma sullo stalking attuato attraverso l’utilizzo di strumenti informatici e telematici.
Ciò, in ragione del fatto che, gli strumenti utilizzati e le modalità di condotta del reo risultavano essere gli stessi di quelli descritti dalla norma di cui all’ art. 612 bis, 2° comma cp.
Forti di ciò, non è stato difficile per gli ermellini dare un fondamento giuridico al reato in parola.
Tuttavia ed in conclusione, per evitare possibili o inutili diatribe, si auspica un intervento del legislatore al quale si chiede di introdurre una norma ad hoc che disciplini il reato di cyberstalking.
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Anna Adele Giancristofaro
Avv. Anna Adele Giancristofaro
Ha conseguito nel 2015 la laurea magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli studi di Macerata, con una tesi in diritto processuale civile. Successivamente ha svolto la pratica professionale forense in ambito civile e penale presso due studi legali frequentando, contemporaneamente, la scuola di formazione professionale per la pratica forense presso la Fondazione Forum Aterni di Pescara. Ha frequentato il corso Criminal Profiler: “Dall’analisi della scena del crimine al profilo psicologico criminale”
Psicogiuridico.it - Associazione Interdisciplinare di Psicologia e Diritto - con sede a Napoli della durata complessiva 12 ore ed il corso intensivo per l'abilitazione all'esercizio della professione di avvocato presso Formazione Giuridica Scuola Zincani. Si è abilitata all'esercizio della professione di avvocato nel 2019 e da allora presta attività di consulenza legale, assistenza stragiudiziale e giudiziale in materia di diritto civile, diritto condominiale, diritto di famiglia e recupero crediti. Nel dicembre del 2019 ha vinto la Terza edizione del Premio "Avvocato Nicola Frattura” come miglior giovane avvocato del Tribunale di Lanciano con consegna di borsa di studio. Attualmente è autrice di diverse pubblicazioni on-line di articoli giuridici di vario contenuto.