Il reato di ricettazione e l’interpretazione della Suprema Corte
Il presente contributo si propone di esaminare il reato di ricettazione alla luce delle recenti pronunce della Corte di Cassazione.
Il reato di ricettazione viene previsto dall’articolo 648 c.p. e punisce chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque s’intromette nel farli acquistare, ricevere od occultare.
Le pene per il delitto in questione sono la reclusione da due a otto anni e la multa da euro 516 a euro 10.329.
Si tratta di un reato istantaneo, inquadrato tra i delitti contro il patrimonio, la cui consumazione avviene nel momento in cui il l’agente ottiene il possesso della cosa.[1]
Il reato di ricettazione presuppone, da parte di un soggetto diverso dall’imputato di ricettazione, la commissione di un altro delitto c.d. delitto presupposto, il quale deve essere individuato quantomeno nella sua tipologia, non essendo invece necessaria la ricostruzione in tutti gli estremi storico-fattuali.[2]
Gli elementi che costituiscono il delitto di ricettazione sono:
– elemento oggettivo: la condotta, consistente nel trarne profitto dall’acquisto, ricezione o occultazione di denaro o cose provenienti da delitto;
– elemento psicologico: il dolo.
L’interpretazione che la Corte di Cassazione dà sulla ricettazione, e specificatamente della prova dell’elemento psicologico del reato di ricettazione, potrebbe costituire – e di fatto costituisce – un problema alla difesa dell’imputato.
La Corte considera difatti provato l’elemento psicologico – dolo, specificamente eventuale –sulla base dell’omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta. Codesto atteggiamento dell’imputato costituirebbe, cito testualmente, “prova della conoscenza dell’illecita provenienza della res, in quanto sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede.”[3]
Si tratterebbe di fatto di una presunzione operata, che non può però essere accettata a fronte di tutele che il nostro legislatore, persino costituzionale, ha previsto per l’imputato.
In primis perché l’articolo 27 della Costituzione prevede una presunzione ben più forte, ovvero la presunzione di non colpevolezza.[4]
La scelta del costituente, e dell’Unione Europea, è chiara: ogni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata.
La scelta del legislatore ordinario lo è altrettanto poiché il giudice, ex articolo, 533 c.p.p., ha il compito di accertare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.
Se queste scelte potessero essere superate da un orientamento giurisprudenziale, seppur consolidato, vi sarebbero gravi conseguenze. Prima fra tutte il vulnus di un principio, la separazione dei poteri, il quale affida al legislatore il potere legislativo e non alla giurisprudenza.
In secondo luogo, permettere che il dolo eventuale possa essere provato e sostenuto con la sola presunzione, equivarrebbe a sostenere che questa possa da sola essere sufficiente al giudice per non avere il minimo dubbio circa la colpevolezza dell’imputato.
Se si sostiene questo, si sostiene implicitamente che le ragioni dietro le omissioni – o quelle definite come non attendibili indicazioni – possano essere giustificate solo dalla commissione del reato, e non invece da altre ragioni (come ad esempio, banalmente, una dimenticanza). Si sostiene questo implicitamente perché altrimenti non si potrebbe porre questa come unica ragione, sufficiente come prova della colpevolezza dell’imputato.
In ogni caso, il comportamento processuale dell’imputato che esercita il suo diritto al silenzio, non può essergli in nessun modo usato contro e non può fargli derivare alcun onere di allegazione, né tanto meno un’inversione dell’onere della prova.
L’onere di allegazione presupporrebbe che qualcosa sia stato provato dall’accusa, la quale in questo modo non starebbe provando l’esistenza del dolo ma quanto al più si starebbe limitando a sostenere che il dolo possa essere provato con un comportamento processuale che, come precedente sottolineato, potrebbe in realtà essere giustificato da altre ragioni.
Oltretutto, ritenere sufficiente il comportamento omissivo dell’imputato ai fini della prova risulterebbe in contrasto con i principi stessi della Corte, avendo quest’ultima più volte osservato come l’omessa prospettazione da parte dell’imputato di una ricostruzione alternativa e plausibile dei fatti contestati non possa essere valutata come prova a carico. Tutt’al più potrebbe essere valorizzata dal giudice come argomento di supporto alle prove già acquisite.[5]
In conclusione, la prova dell’elemento soggettivo nel reato di ricettazione risulta indubbiamente difficile. La sua complessità non deve però minare la presunzione di innocenza, altrimenti la prova della colpevolezza risulta essere una forzatura. Forzatura di certo non favorevole al reo.
In alternativa, se non si riesce a provare il dolo nella ricettazione esiste sempre la contravvenzione dell’incauto acquisto, prevista all’articolo 712 c.p.
[1] Cass. pen., Sez. II, Sentenza, 14/04/2021, n. 23768 (rv. 281911-02)
[2] Cass. pen., Sez. II, 28/02/2024, n. 25824
[3] Orientamento della Corte ormai consolidato. Sez. 2^, n. 37775 del 1.6.2016, Rv. 268085; Sez. 2^, n. 43427 del 7.9.2016, rv. 267969; Sez. 2^, n. 52271 del 10.11.2016, Rv. 268643; Sez. 2^, n. 53017 del 22.11.2016, Rv. 268713
[4] Che alla luce degli impulsi comunitari sarebbe più adeguato definire presunzione di innocenza.
[5] Cass. pen., Sez. II, Sent., (data ud. 14/05/2021) 10/06/2021, n. 22974
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Giada Lai
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