Il reato di uccisione di animali: uccide un gatto e lo cucina davanti alla stazione
Ha suscitato notevole scalpore mediatico la notizia, comparsa sui quotidiani nazionali, così titolata: “Campiglia: uccide un gatto e lo cucina davanti alla stazione”.
Il caso ha riportato in auge, oltre ad innumerevoli dibattiti di carattere etico e politico, la questione della tutela penale degli animali.
In Italia, già il Codice Zanardelli, all’art. 491 c.p., puniva chiunque avesse posto in essere, senza necessità, atti crudeli, sevizie e maltrattamenti di animali in un luogo pubblico, qualora il fatto avesse suscitato una reazione di ribrezzo nel popolo.
Lo stesso articolo era stato ripreso dalla legge n. 611/1913, concernente la protezione degli animali, la quale prevedeva profili di responsabilità penale anche a carico di chi abbandonava o sfruttava per motivi inerenti i giochi questi esseri viventi.
La protezione di queste creature era stata prevista anche dal Codice Rocco, il quale, contemplava, da un lato, all’art. 727 c.p., la fattispecie di maltrattamento di animali, con l’aggravante dell’uccisione quale conseguenza della condotta incriminatrice, e, dall’altro, all’art. 638 c.p., l’uccisione o il danneggiamento di animali altrui. Le norme incriminatrici si riferivano soltanto a quegli animali nei confronti dei quali l’uomo provasse sentimenti di pietà e di compassione.
Il punto debole di tale disciplina era rappresentato dal fatto che il Codice Rocco non incriminasse tout court l’uccisione di queste creature laddove non appartenessero ad altri o non fossero state maltrattate.
Per sopperire a tale lacuna legislativa, con la legge n. 189/2004, è stato introdotto nel nostro ordinamento penale, all’art. 544 bis c.p., il reato di uccisione di animali. L’art. 544 bis c.p. punisce, con la reclusione da quattro mesi a due anni, chiunque cagioni la morte di un animale per crudeltà o senza necessità.
La norma configura un reato di tipo comune, essendo rivolta l’incriminazione al quisquis. Infatti, il delitto può essere integrato anche dal proprietario o dal possessore dell’animale.
Il reato può essere posto in essere sia da un solo individuo che da più soggetti che concorrono nella realizzazione dell’evento delittuoso. Il concorso può essere ravvisato quando il soggetto ha materialmente partecipato all’esecuzione materiale del fatto diretto a cagionare la morte ovvero quando ha fornito un qualsiasi apporto causale concreto all’attività criminosa posta in essere dall’autore materiale, così da consentirne e agevolarne l’azione, assicurando il proprio contributo materiale o anche solo morale alla realizzazione dell’illecito. A tal proposito, occorre rammentare che anche la semplice presenza sul luogo dell’esecuzione del reato può essere sufficiente ad integrare gli estremi della partecipazione criminosa quando la stessa sia servita a fornire stimolo all’azione illecita.
Il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice è il sentimento umano di pietà e di compassione per gli animali. Tuttavia, in forza di un mutamento verificatosi nel sentire sociale in relazione alla percezione di questi esseri viventi, tale sentimento risulta essere più intenso rispetto al passato. Infatti, esso non corrisponde più ad una semplice compartecipazione emotiva ma allude ad una più ampia compartecipazione mossa dalla percezione che gli animali siano dotati di un valore in sé e che, in quanto tali, andrebbero rispettati.
Per tale ragione, il soggetto passivo del reato è il titolare dell’interesse individuato nel sentimento umano per la creatura che ha subito l’evento delittuoso. Ciò comporta che potranno essere persone offese del reato non soltanto i proprietari o i possessori dell’essere vivente deceduto, ma anche le associazioni o gli enti che perseguono come scopo principale quello della tutela di tali esseri.
Quanto all’elemento costitutivo, la nozione di animale risulta essere comprensiva di tutte quelle specie verso le quali l’uomo possa adottare atteggiamenti socialmente apprezzabili tali da suscitare quel sentimento di umana pietà e compassione, escludendo, dunque, tutte quelle creature verso le quali l’uomo non può interagire come, per esempio, gli insetti.
Si tratta, inoltre, di un reato a forma libera, incentrato sull’azione di cagionare, la quale può essere posta in essere con qualsiasi atto umano purché costituisca un antecedente necessario, dal punto di vista causale, al verificarsi dell’evento morte. Pertanto, assumono rilevanza penale tutte le azioni o le omissioni poste in essere dall’uomo sia con mezzi diretti che indiretti. Al riguardo, la Suprema Corte ha statuito che l’uccisione dell’animale posta in essere da una bestiolina sfuggita alla custodia del padrone non integra il reato di cui all’art. 544 bis c.p. poiché trattasi di un evento colposo (Cass. Pen., Sez. III, sentenza del 30 novembre 2012, n. 11606).
La Corte ha, invece, ravvisato la sussistenza del delitto in questione qualora un automobilista, dopo aver investito un animale, ometta di soccorrerlo ed impedisca ad altri di prestare le dovute cure, cagionandone la morte. In questo caso, non si tratta, infatti, di un evento colposo (Cass. Pen., Sez III, sentenza del 22 maggio 2015, n. 15619).
L’illecito penale configura un reato di danno consistente nel cagionare l’evento morte della creatura. Tuttavia, è ammissibile il tentativo, sia nella forma del tentativo compiuto che incompiuto.
Per la sussistenza della fattispecie incriminatrice sono necessari due requisiti di illiceità speciale, la crudeltà o la mancanza di necessità.
La dizione “per crudeltà” allude a tutte quelle modalità dell’azione e ai quei mezzi che urtano la sensibilità umana. Essa si configura tutte le volte che l’agente avrebbe potuto plausibilmente ricorrere a modalità di abbattimento meno cruente ed efferate ma non lo ha fatto.
La clausola “senza necessità”, invece, risulta essere più ampia ed onnicomprensiva di quella delineata dall’art. 54 c.p. Essa sussiste tutte le volte in cui l’uccisione di un animale viene compiuta per motivi non adeguati e superficiali che esulano quelli previsti dalle leggi. Pertanto, risulta essere legittima l’uccisione di una creatura per soddisfare i bisogni primari dell’uomo purché posta in essere nel rispetto della disciplina appositamente predisposta. L’essere umano è, infatti, legittimato a cagionare la morte di una bestiolina per fini alimentari, scientifici e di sicurezza nel rispetto del contesto regolamentato. Ciò implica che l’uomo non può né cibarsi di quelle creature vietate dalla legge né ricorrere a modalità di abbattimento non previste dalle leggi speciali.
La Corte di Cassazione statuisce che la nozione di necessità risulta essere integrata tutte le volte in cui l’agente cagioni l’evento morte per evitare un pericolo imminente o per impedire l’aggravamento di un danno non solo alla propria persona, ma anche agli altri o ai propri beni. In tali casi, pertanto, l’azione risulta essere legittima ( Cass. Pen., Sez III, sentenza del 28 novembre 2016, n. 50329).
Quanto all’elemento soggettivo, la norma richiede un dolo generico, consistente nella volontà di uccidere, non essendo, invece, necessaria la volontà di cagionare concretamente l’evento morte.
In conclusione, in merito alla vicenda dell’immigrato che ha ucciso un gatto e lo ha cucinato per strada, sembrerebbe configurabile il delitto de quo. L’uomo, infatti, seppure mosso dalla necessità di soddisfare un bisogno primario quale quello di alimentarsi, ha agito eludendo la disciplina giuridica dalla quale si evince, implicitamente, che, in Italia, cibarsi della carne di un gatto risulta essere illegale.
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Giuliana Favara
Abilitata all'esercizio della professione forense, ha conseguito la laurea magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza e il diploma di Specializzazione nelle Professioni Legali presso l'Università Mediterranea di Reggio Calabria. Ha svolto lo stage di formazione teorico-pratica presso gli uffici giudiziari, nella sezione GIP/GUP e nella Prima Sezione Civile del Tribunale di Reggio Calabria, ai sensi dell'art. 73 del d.l. 69/2013, e ha collaborato con uno studio legale operante nel settore penale.