Il reclamo fallimentare: analogie e differenze con il giudizio di appello, verso un divieto dei nova temperato?

Il reclamo fallimentare: analogie e differenze con il giudizio di appello, verso un divieto dei nova temperato?

Sommario: 1. La natura del reclamo fallimentare, tra effetto devolutivo pieno ed effetto devolutivo parziale. Quale spazio alla disciplina generale in materia di impugnazioni? – 2. Compatibilità del principio tantum devolutum quantum appellatum con il potere del collegio di assumer prove d’ufficio. Verso un divieto dei nova temperato? – 3. Un esempio di economicità e celerità processuale: per una rilettura del reclamo fallimentare

 

 

1. La natura del reclamo fallimentare, tra effetto devolutivo pieno ed effetto devolutivo parziale. Quale spazio alla disciplina generale in materia di impugnazioni?

Il d.lgs 12 settembre 2009 n. 169 ha stravolto la grammatica del giudizio di impugnazione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento[1], ex art. 18, r. d. 16 marzo 1942 (nel prosieguo l. fall.), sostituendo il previgente mezzo di impugnazione dell’appello con l’attuale rimedio del reclamo. Non pochi sono stati, in dottrina e in giurisprudenza, i dibattiti agitatisi intorno alla natura ed alle regole di devoluzione del reclamo fallimentare; sebbene nei lavori preparatori del d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 si legge che «la modifica vale ad escludere l’applicabilità della disciplina dell’appello desunta dal codice di rito e ad assicurare l’effetto pienamente devolutivo dell’impugnazione», non ci è permesso di accettare acriticamente la natura pienamente devolutiva del reclamo fallimentare senza confrontare l’intenzione del legislatore con il dato positivo[2].

Ad accogliere la tesi fatta propria dalla relazione alla riforma del 2007, la sostituzione del termine “appello” con quello di “reclamo” varrebbe a rendere applicabili a quest’ultimo tutte le disposizioni, in quanto compatibili, comuni ai procedimenti in camera di consiglio[3] (artt. 737 e ss c.p.c.), con buona pace dell’operatività delle norme sulle impugnazioni in generale[4].

Infatti, la scelta del legislatore di riservare al reclamo l’impugnazione di una sentenza che incide su diritti soggettivi – rectius: sul patrimonio e sullo status del fallito – è quantomeno singolare. Siamo stati abituati a concepire il reclamo in guisa di un rimedio utile a riesaminare provvedimenti inidonei alla formazione del giudicato sostanziale ex art. 2909 cod. civ.

Ancor più singolare ci par essere la scelta del rito. Se il reclamo ex art. 739 c.p.c. si conclude con un decreto non impugnabile, al contrario, il reclamo fallimentare, discostandosi sensibilmente dall’archetipo, qualora accolto, si chiude con una sentenza a sua volta impugnabile in Cassazione, in guisa della sentenza conclusiva del grado d’appello, come disciplinato dall’art. 360 c.p.c.

In comune le due forme di reclamo – che sin da queste battute preliminare non pare che siano in un rapporto di genus ad speciem – altro non avrebbero se non la sommarizzazione del procedimento e la completa deformalizzazione del rito che non ubbidisce al rigido principio di determinazione delle forme e dei termini del processo ordinario di cognizione, nonché l’attribuzione al giudice di ampi poteri istruttori.

Per una sorta di eterogenesi dei fini – malgrado il nomen iuris e l’intenzione del legislatore – l’art. 18 l. fall. è frutto di contaminatio tra il reclamo, ex art. 739 c.p.c., e il giudizio di appello, disciplinato dagli artt. 339 e ss c.p.c.

Ci si chiede, da un lato, quali delle disposizioni generali in materia di impugnazioni siano applicabili al reclamo fallimentare, dall’altro, invece, quali siano le norme in materia di appello compatibili con il rimedio in questione.

Insieme alla dottrina, parte della giurisprudenza ha fatto orecchie da mercante rispetto ai lavori preparatori alla riforma. Ne sono nati due orientamenti – sull’ambito del giudizio di reclamo e sulla natura della devoluzione – inconciliabili: il primo, avallando la relazione ministeriale, sostiene la natura automaticamente devolutiva del giudizio di reclamo[5], per contra, il secondo, facendo leva sull’onere di specificazione dei motivi di gravame, ex art. 18, comma 2°, sub 3, ne sostiene la natura parzialmente, o discrezionalmente, devolutiva, in guisa del giudizio d’appello[6].

La questione non pare di facile liquidazione dal momento che non vi è unità di vedute né in dottrina né in giurisprudenza. Se a favore della prima tesi depone il nomen attribuito al legislatore al rimedio de quo, la seconda sembra, invece, maggiormente rispettosa del dato positivo emergente ex art. 18 l. fall.

Così, sebbene in giurisprudenza la tesi favorevole all’effetto devolutivo automatico sia maggioritaria, la dottrina è maggiormente orientata verso la ricerca di un’affinità elettiva con l’appello previsto dal Codice di rito civile. La risoluzione della questione passa per l’esatta latitudine degli artt. 342 e 345 c.p.c., nei quali è racchiusa la natura parzialmente devolutiva del giudizio d’appello.

Emancipare il reclamo fallimentare dall’art. 342 c.p.c. comporta l’inapplicabilità all’istituto dal noto adagio tantum devolutum quantum appellatum[7], secondo il quale l’oggetto del giudizio di impugnazione è limitato alle questioni, decise in primo grado, dedotte quale specifico motivo di gravame nonché alle domande ed alle eccezioni (non accolte) espressamente riproposte. Il reclamo fallimentare produrrebbe così un effetto devolutivo pieno ed automatico tale da determinare il trasferimento in sede di gravame della vicenda giudiziale nel suo complesso, senza che il ricorrente debba impegnarsi a formulare specifiche censure, favorendo, così, un nuovo accertamento dei presupposti del fallimento: in sostanza, si tratterebbe di un novum iudicium.

Tutte le questioni esaminate in primo grado riemergerebbero automaticamente dinanzi al giudice del reclamo, a fronte di una generica protesta di ingiustizia del provvedimento impugnato.

Ma a ben vedere l’art. 18 l. fall.  si differenzia proprio dal modello generale del reclamo di diritto comune sulla cui falsariga è stato foggiato. Volendo tornare sull’anzidetta contaminatio pare che il reclamo fallimentare meglio si identifichi con i mezzi di impugnazione a critica vincolata: in altri termini, il genus proximum cui fa riferimento l’art. 18 l. fall è l’appello, non già il riesame.

Quanto detto è confortato, da un lato, dal riferimento “ai fatti e gli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione”, ovvero specifici errores in iudicando e in procedendo che devono essere censurati dalle parti, senza possibilità per il giudice di ripescare gravami non censurati tra il “non dedotto”, financo ad estendere la cognizione ad eventuali capi del provvedimento reclamato non selezionati dalle parti[8].

Il rischio della preclusione da giudicato interno, relativo ai capi non impugnati dal ricorrente, ci impone una riflessione. È quanto mai necessaria una soluzione univoca per evitare agli operatori il rischio di “preclusioni a sorpresa” ovvero il riesame di questioni che si credevano già coperte dal giudicato (se si conviene con la tesi dell’effetto devolutivo automatico). Per queste ragioni, l’atteggiamento del legislatore, che dopo l’intervento correttivo del 2007 si è totalmente disinteressato dei problemi conseguenti alla modifica normativa, lasciando alla giurisprudenza l’esatta perimetrazione dei confini tra il reclamo fallimentare e l’appello ordinario, ci pare pienamente censurabile.

2. Compatibilità del principio tantum devolutum quantum appellatum con il potere del collegio di assumer prove d’ufficio. Verso un divieto dei nova temperato

Altra questione che merita particolare attenzione, per una corretta ricostruzione della natura del reclamo fallimentare, è circoscritta alla possibilità di ammettere nuovi mezzi di prova per la prima volta in sede di reclamo, dei quali non ci si è avvalsi nel precedente grado di giudizio. La disposizione dell’art. 18 ancora una volta si rivela inadeguata ad abbracciare la complessità del fenomeno; infatti, l’attività istruttoria è menzionata solo due volte nel corpo della norma: al comma 2°, sub 4), ove si prescrive che il ricorso deve contenere “l’indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e dei documenti prodotti”, e al comma 10°, relativo al potere del collegio di assumere d’ufficio, nel rispetto del contraddittorio, tutti i mezzi di prova che ritiene necessari. Tutto il resto è taciuto dalla norma.

Pertanto, la spinosa questione del rapporto tra le preclusioni istruttorie e l’art. 345 c.p.c. è lasciata agli interpreti. È tempo, dunque, di vagliare gli argomenti a sostegno dell’una o dell’altra tesi, riprendendo quanto detto in precedenza a proposito della natura devolutiva del giudizio di reclamo.

Chi sostiene, invero, la natura automaticamente devolutiva del reclamo fallimentare esclude sic et simpliciter l’applicabilità dell’art. 345 c.p.c., che racchiude il maggior conforto normativo al divieto dei nova in appello[9], affrancando l’istituto in esame dalle disposizioni proprie delle impugnazioni disciplinate nel Codice di rito[10].

Per chi va invece predicando l’applicabilità, mutatis mutandis, degli artt. 323 e ss c.p.c., la risoluzione della questione è ben più complessa. In seno a quest’ultima corrente dottrinale è possibile distinguere due orientamenti: taluni, muovendo dal presupposto dalla sovrapponibilità del giudizio di reclamo al giudizio d’appello, escludono l’ingresso di nuove prove facendo leva sul rilievo secondo cui le preclusioni istruttorie verificatesi in primo grado hanno effetti anche in sede di reclamo[11]; talaltri, invece, sostengono la libera deducibilità dei nuovi mezzi istruttori con riguardo alle specifiche questioni sottoposte all’esame del collegio. Ciò equivale a dire che l’ammissibilità dei nova è preclusa dalla formazione del giudicato interno; infatti, sarebbe possibile dedurre nuovi elementi di prova nei limiti della cognizione del giudice del reclamo[12], dopo il deposito del ricorso non sarebbe possibile estendere la cognitio del giudice del riesame a questione non dedotte nella fase introduttiva. Si tratta di un divieto dei nova ex art. 345 c.p.c. più mite, più temperato.

Se, da un lato, per le parti la prima barriera preclusiva coincide con il deposito del ricorso, oltre il quale non sarà possibile richiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova, dall’altro, è ben possibile che il thema probandum si estenda per mezzo del potere officioso del collegio di raccogliere tutti i mezzi di prova ritenuti necessari. Merita, inoltre, di esser considerato che il primo grado si svolge secondo un’istruttoria, per così dire, sommaria propria del rito camerale. Pertanto, una cognizione piena può essere svolta solo in sede di reclamo, di talché l’assenza di un rigido divieto quale quello ex art. 345 c.p.c. permetterebbe di recuperare quanto è stato tralasciato a causa della sommarietà del primo grado[13]. Il rilievo è di non poco conto se ci si rammenta che la sentenza dichiarativa di fallimento incide non solo sul patrimonio del fallito bensì anche sul suo status.

È corretto affermare che, in una certa misura, le procedure concorsuali tutelino valori giuridici di interesse superindividuale, sicché l’estensione dei poteri officiosi del giudice, lungi dal comportare una torsione del rito in chiave inquisitoria, appare il frutto di un ragionevole contemperamento di interessi: da un lato, l’attenuazione del sistema semi-dispositivo, come già detto, permette di assumere quei mezzi di prova incompatibili con la sommarietà della cognizione dell’istruttoria prefallimentare, dall’altro, facendosi questione di diritti indisponibili, l’attribuzione di penetranti poteri di indagine al giudice permette una soddisfacente tutela dell’interesse pubblico.

Prima di trarre le debite conclusioni sulla natura del rimedio in esame, rimangono da analizzare i limiti di attivazione dei poteri officiosi del giudice del reclamo. Se si ammette la natura parzialmente devolutiva dell’appello, bisogna anche ammettere che i poteri di discovery del collegio non possono che essere limitati ai fatti allegati nel ricorso ovvero emersi in fase di trattazione; ad arguire diversamente si arriva ad ammettere l’estensione dell’oggetto del giudizio ad opera del giudice, in spregio al fondamentale principio della disponibilità dell’oggetto del processo. Il potere officioso di assunzione delle prove necessarie potrà essere correttamente esercitato allorquando, rispetto ai fatti di causa, un approfondimento istruttorio appaia necessario, a completamento delle deduzioni istruttorie delle parti. Seguitando, il carattere della “necessarietà” dell’approfondimento istruttorio è spiegabile alla luce di un giudizio controfattuale: l’integrazione istruttoria deve essere idonea ad influenzare il giudizio di reclamo, comportando o l’accoglimento del ricorso o il rigetto[14].

Pertanto, qualora l’integrazione probatoria sia necessaria, nel senso anzidetto, il collegio potrà assumere anche i mezzi di prova che la parte non ha proposto entro il termine perentorio accordato dalla legge o dal giudice, senza che a nulla osti la preclusione maturata[15].

3. Un esempio di economicità e celerità processuale: per una rilettura del reclamo fallimentare

Volendo trarre le conclusioni da tutto quanto si è detto, ci pare che la tesi, sostenuta dalla dottrina maggioritaria, secondo cui il reclamo fallimentare non avrebbe un’efficacia automaticamente e completamente devolutiva, sia da preferire. Se così non fosse l’indicazione dei fatti e degli elementi di diritto, richiesta ex art. 18, sarebbe del tutto superflua ed anzi, se davvero il reclamo fosse un mezzo di impugnazione pienamente devolutivo, si faticherebbe a trovarne il senso nell’economia dell’istituto.

E allora l’indicazione dei motivi di impugnazione non può che avere lo scopo di perimetrare il thema decidendum del giudizio. Le questioni di fatto e/o diritto, esplicitamente e/o implicitamente decise dal giudice di primo grado e dedotte in forma di uno specifico motivo di gravame, non potrebbero essere più riesaminate dal giudice del reclamo, in quanto rinunciate e coperte dal giudicato interno. A suffragio della tesi suddetta è possibile dedurre almeno due argomentazioni di carattere sistematico. In primo luogo, gli artt. 400 e 406 c.p.c. sembrano racchiudere un principio di carattere generale: davanti al giudice adito con il mezzo di impugnazione – ad esclusione di specifiche deroghe – si applicano “le norme stabilite per il procedimento dinanzi a lui” ovvero, nel nostro caso, le norme del giudizio d’appello. In secondo luogo, merita di essere ricordato l’orientamento del giudice di legittimità teso ad applicare le regole dell’appello ad ogni giudizio di reclamo contro provvedimenti, resi all’esito di un procedimento camerale, in grado di acquisire autorità di cosa giudicata, per l’intima differenza rispetto ai provvedimenti inidonei ad incidere su posizioni giuridiche soggettive[16].

La posizione su cui pare essersi arroccata di recente la giurisprudenza[17], che sostiene senza varietà di accenti la natura pienamente devolutiva, è foriera di dubbi. Il reclamo fallimentare sarebbe dunque un doppione del giudizio di primo grado, un’inutile superfetazione processuale. Se, infatti, il proprium dell’economia processuale sta nella diminuzione del rapporto tra il numero di liti derivanti dall’interazione sociale e quelli risolti dalle Corti, a parità di risorse impiegate, la rinnovazione del giudizio comporta la reviviscenza di questioni non dedotte e non discusse, con un effetto inflativo generale ed una ricaduta negativa sull’efficienza del sistema giudiziario. Lasciare, invece, alle parti l’onere di deduzione dei motivi di impugnazione, oltre ad avere un effetto deflativo rispetto alla complessità della singola causa (in relazione al numero di questioni sottoposto alla cognizione del giudice) permette a queste di modellare le proprie difese sul thema decidendum.

La soluzione che meglio coniuga riduzione dei tempi della giustizia, economicità ed efficienza consiste nel principio di proporzionalità: l’art. 18 l. fall., inteso come mezzo di impugnazione parzialmente devolutivo, risponde a criteri di semplificazione ed economicità processuale, nel rispetto del principio della ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost e 6 CEDU, attraverso la perimetrazione dello spettro conoscitivo del giudice di appello ai soli profili che le parti ritengono meritevoli di una specifica rivisitazione, senza che la cognizione investa questioni superflue rispetto alle quali le parti non hanno alcun interesse a discutere: all’un tempo sarebbe possibile supplire e alle deroghe ai principi ex artt. 99, 101 e 112 c.p.c. e garantire un’istruttoria piena, al pari del giudizio ordinario di cognizione.

Concordiamo, dunque, con quella dottrina[18] secondo cui il reclamo fallimentare ex art. 18 possa essere collocato, in guisa di un tertium genus tra l’appello ordinario ed i mezzi di impugnazione automaticamente devolutivi, nell’area dei mezzi di impugnazione flessibili e deformalizzati, sul modello dall’art. 702-quater c.p.c.

Infatti, nonostante la sommarietà delle forme che caratterizza la prima fase del procedimento sommario di cognizione il legislatore ha voluto – affinché siano rispettate le garanzie costituzionali che informano il giusto processo – che in grado d’appello fosse garantita pienezza di cognizione e di istruttoria[19]. Donde se ne deduce che in secondo grado non possano essere presenti tutte quelle limitazioni che caratterizzano l’appello ordinario. È dato poi riscontrare una certa affinità tra la lettera dell’art. 702-quater, ove dispone che “sono ammessi nuovi mezzi di prova e nuovi documenti quando il collegio li ritiene indispensabili ai fini della decisione” ed il comma 10° dell’art. 18 l. fall., laddove subordina l’assunzione di prove ex officio al requisito della necessarietà.

Come ebbe a dire l’Andrioli[20], a proposito dell’inefficienza del processo civile, “la casa brucia”. Erano gli anni ’70, eppure ad oggi l’incendio continua a divampare e non si presta ad esser domato.

Economia processuale ed efficiente allocazione delle risorse del sistema di giustizia sono gli imperativi cui deve rispondere il processo fallimentare, famoso alle cronache – come d’altronde il processo civile – per i numerosi ritardi e disservizi.

La cultura delle riforme deve essere orientata nel senso della flessibilità delle forme, rifuggendo rigide costruzioni ed inutili sprechi della “risorsa giustizia”. L’art. 18 l. fall., se correttamente interpretato ed applicato, ci pare poter essere un degno corifeo del prossimo moto riformista.

 

 

 

 


[1] M. MONTANARI, Commento all’art. 18, in La riforma della legge fallimentare, diretto da A. Nigro e M. Sandulli, Torino 2006, I, p. 105 ss. A più riprese il legislatore è tornato sull’art. 18 l. fall. In origine il rimedio esperibile avverso la sentenza dichiarativa di fallimento era l’opposizione, di cui la natura automaticamente devolutiva era indubbia. Il procedimento per la dichiarazione di fallimento foggiato dal legislatore del ’42 era estremamente deformalizzato con una mera facoltà, e non un obbligo, di sentire il debitore. Di talché il giudizio di opposizione, antecedente alla riforma del 2006, permetteva di recuperare il contraddittorio postergato in guisa di altri procedimenti speciali a contraddittorio differito (cfr. art. 633 c.p.c.). La struttura bifasica del procedimento di opposizione è stata tuttavia smantellata dalla Corte Costituzionale con la sentenza 23 dicembre 2005, n. 460, la quale ha chiarito la natura impugnatoria del giudizio di opposizione che, sebbene si svolgesse nel medesimo grado di giudizio, aveva i caratteri di una revisio prioris istantiae. L’intervento della Corte costituzionale ha spalancato le porte alla riforma del 2006: Il d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, ha tratto ‘l troppo e il vano sopprimendo l’opposizione e sostituendola con l’appello. Un anno più tardi, il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, abolisce l’appello, affidando l’impugnazione del fallimento al reclamo, di cui si dirà nel testo. Per maggiori chiarimenti circa l’evoluzione storica del giudizio di reclamo si veda C. COMMANDATORE, Il reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento: un mezzo di impugnazione” ibrido”, in Riv. dir. proc., 2014, p. 1271 e ss.
[2] Il nomen iuris di reclamo «può rivelarsi neutrale rispetto alle classificazioni impugnatorie e nulla più che una, perniciosa, espressione decettiva», così M. FABIANI, in Il nuovo diritto fallimentare. Appendice di aggiornamento al d.lgs. 169/2007, diretto da A. Jorio e M. Fabiani, Bologna 2008, sub art. 18, p. 13.
[3] G.A. MICHELI, Camera di consiglio (dir. proc. civ.), in Enc. dir., V, Milano 1959, 993 ss.; G. MONTELEONE, Camera di consiglio (dir. proc. civ.), in Noviss. dig., Torino 1980, 986; F. PORCARI, in Commentario del codice di procedura civile, diretto da L.P. Comoglio, C. Consolo, B. Sassani e R. Vaccarella, Milano 2014, sub art. 739 c.p.c., 392 ss.; C. MANDRIOLI e A. CARRATTA, Diritto processuale civile, XXVI ed., IV, Torino, 2017, p. 423 e ss; secondo la dottrina prevalente il reclamo ex art. 739 c.p.c. sarebbe un mezzo di impugnazione tout court, per tutti G. GIANNOZZI, Il reclamo nel processo civile, Milano, 1968, p. 196.
[4] R. BRENDA, Sulla natura del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, in Riv.  dir. proc., 2017, 4-5, p. 1344 e ss, spec. 1349.
[5] In giurisprudenza, Cass. 6 novembre 2013, n. 24970; Cass. 6 giugno 2012, n. 9174; Cass. 4 aprile 2012 n. 5420, in banca dati DeJure. Così anche, più di recente, Cass. 20 dicembre 2016, n. 26332; Cass. 24 marzo 2014, n. 6835, in Banca dati DeJure, secondo cu il reclamo ex art. 18 l. fall. «è caratterizzato, per la sua specialità, da un effetto devolutivo pieno, cui non si applicano i limiti previsti, in tema di appello, dagli artt. 342 e 345 c.p.c.». Da ultimo, Cass., 12 gennaio 2017, n. 613, in Rivista di diritto processuale, 2017, 4-5, con nota critica di BRENDA, p.1344 e ss. Nella giurisprudenza di legittimità, per una posizione intermedia, App. Milano Sez. IV, 30 novembre 2018, n. 5314, in banca dati DeJure, secondo cui “al reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento non si applicano, per la sua specialità, i limiti previsti in tema di appello dagli artt. 342 e 345 c.p.c. ed il relativo procedimento è quindi caratterizzato da un effetto devolutivo pieno . Deve conseguentemente ritenersi che è ammissibile il reclamo, nel quale vengano riproposti come motivi le medesime difese già formulate in primo grado, dovendo invece escludersi che il reclamo possa assumere le forme di una semplice richiesta di riesame, senza formulazione dei motivi dedotte sotto forma di motivi. L’impugnazione non è pertanto censurabile nella parte in cui deduce, sotto formula di revisio prioris instantiae, le medesime questioni dedotte in primo grado, né quando allega fatti nuovi non oggetto di valutazione da parte del Tribunale fallimentare. Infatti il carattere devolutivo dell’impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento ammette che nel reclamo vengano dedotti fatti nuovi non oggetto di allegazione in primo grado.”
[6] In dottrina C. COMMANDATORE, Il reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento: un mezzo di impugnazione ‘ibrido’, in Riv. Dir. proc., 2014, p. 1271 ss.; P. GENOVIVA, Il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, in Fall. 2010, P. 451 ss.; F. DE SANTIS, Per un tentativo di chiarezza di idee intorno al preteso effetto devolutivo ‘pieno’ del reclamo contro la sentenza dichiarativa di fallimento, in Fall. 2012, p. 1185 ss. In giurisprudenza, Cass., 13 giugno 2014, n. 13505, secondo cui il reclamo sarebbe sì caratterizzato da un effetto devolutivo pieno, ma ciò non implica che sia sufficiente e idonea a provocare il secondo giudizio la mera richiesta di riesame, senza enunciazione dei motivi; così anche. Cass., 28 ottobre 2010, n. 22110, in banca dati DeJure.
[7] Sulla natura del giudizio, senza pretese di completezza, C. MANDRIOLI e A. CARRATTA, Diritto processuale civile, cit., II, p. 481 e ss; P. BIAVATI, Argomenti di diritto processuale civile, Bologna, 2018, p. 470 e ss; C. FERRI, Appello (dir. proc. civ.), in Dig. civ., XII, Torino 1995, p. 571 ss.; C. CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova 2012, p. 193 ss.; A. CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili, Padova 1973, 299; A. ATTARDI, Note sull’effetto devolutivo dell’appello, in Giur. it. 1961, IV, 1035 ss.; R. POLI, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, Padova 2002, p. 431 ss
[8] Per la tesi secondo cui l’art. 18 l. fall. derogherebbe all’art. 342 c.p.c., con la conseguenza che l’omessa indicazione dei motivi di gravame dà luogo ad una nullità formale sanabile in guisa dell’art. 164 c.p.c., si veda Cass., 17 luglio 2007, n. 15952, in banca dati DeJure; Cass., 11 ottobre 2006, n. 21816, in banca dati DeJure.
[9] La giurisprudenza, ancor prima della riforma del giudizio d’appello, l. 25 novembre 1990, n. 353, con la storica sentenza Cass., sez. un., 6 giugno 1987, n. 4991, in www.iusexplorer.it, ne aveva già sancito la natura di revisio prioris istantiae, così limitando l’effetto devolutivo ai motivi di impugnazione, alle domande ed alle eccezioni non accolte in primo grado, riproposte in grado d’appello.
[10]Cfr. Cass., 12 gennaio 2017, n. 613, cit., secondo cui, stante la natura di novum iudicium del giudizio di reclamo, le preclusioni istruttorie maturate in primo grado non influiscono sulla deducibilità di nuovi elementi di prova in secondo grado; v. anche Cass. 24 marzo 2014, n. 6835, in banca dati DeJure, secondo la quale il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento ex art. 18 l. fall. è caratterizzata da un effetto devolutivo pieno. Ne conseguirebbe l’inapplicabilità dei limiti previsti dagli artt. 342 e 345 c.p.c. in tema di nuove allegazioni e nuovi mezzi di prova, restando priva di conseguenze processuali la circostanza che la società fallita abbia dedotto solo in tale sede l’insussistenza della propria qualità di imprenditore commerciale. In termini analoghi, Cass. 6 giugno 2012, n. 9174, in banca dati DeJure, secondo cui il fallito, benché non costituito avanti al tribunale, può indicare per la prima volta in sede di reclamo i mezzi di prova di cui si sarebbe avvalso in primo grado, per dimostrare la sussistenza dei limiti dimensionali di cui all’art. 1, comma 2 ̊, l. fall.
[11] Così F. DE SANTIS, loc. cit., p. 1995, secondo cui l’art. 18 l. fall non conterebbe “[…] un’illimitata apertura ai nova”.
[12]  Così G.P. MACAGNO, L’impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento, in Fall. 2014, 237 ss.: “La deduzione di nuovi mezzi di prova, pur non soggetta a limiti, non potrebbe derogare alle decadenze interne allo specifico mezzo d’impugnazione. Nuove produzioni documentali sarebbero ammissibili purché contestuali al deposito del reclamo e la produzione all’udienza consentita solo in relazione ai documenti di formazione successiva o comunque non conoscibili dalla parte a tale data”.
[13] R. BRENDA, Sulla natura del reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, in Rivista di diritto processuale, 2017, 4-5, p. 1353.
[14] La giurisprudenza, Cass., 12 gennaio 2017, n. 617, cit., ritiene che il potere di integrazione probatoria possa ragionevolmente essere esteso anche alle questioni preliminari di rito, come la corretta instaurazione del contraddittorio.
[15] Quanto detto nel testo trova un avallo nei principi che governano l’appello civile ordinario nel rito del lavoro, laddove l’art. 437, comma 2 ̊, c.p.c. prevede che il collegio può assumere d’ufficio i mezzi di prova indispensabili ai fini della decisione della causa. V.  Cass., sez. un., 17 giugno 2004, n. 11353, secondo la quale i poteri d’ufficio del giudice del lavoro possono essere esercitati pur in presenza di già verificatesi decadenze e preclusioni, nonché in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa.  Nello stesso senso, Cass. 2 febbraio 2007, n. 2577: nel rito del lavoro, l’omessa indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, trovando, però, siffatto rigoroso sistema di preclusioni, un contemperamento nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell’art. 437, comma 2, c.p.c., ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa. Contraria Cass., 12 gennaio 2017, n. 617, cit., che inibisce l’esercizio del potere istruttorio officioso nel caso in cui maturino decadenze istruttorie a danno delle parti.
[16] Cass., sez. I, 13 giugno 2014, n. 13505, Id., 23 giugno 2014, n. 14232, in banca dati DeJure. In dottrina N. RASCIO, Note sull’impiego del reclamo (in luogo dell’appello) come mezzo per impugnare le sentenze con devoluzione automatica piena, in Riv. dir. proc., 2008, p. 975.
[17] Da ultimo App. Trento, 9 novembre 2019, n. 15, che ha ribadito la natura di mezzo di impugnazione completamente devolutivo, in banca dati DeJure.
[18] C. COMMANDATORE, Le ragionevoli garanzie della dichiarazione di fallimento: un modello di giusto processo camerale? In Fall., 1, 2016, p. 14.
[19] Così Cass., 14 maggio 2013, n. 11465, in banca dati DeJure.
[20] V. ANDRIOLI, Intervento, in Atti del IX convegno nazionale dell’associazione tra gli studiosi del processo civile, (Sorrento 1971), Milano, 1974, p. 104.

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