Il regime della prova nella responsabilità contrattuale con particolare riferimento agli obblighi di protezione e all’inesatto adempimento

Il regime della prova nella responsabilità contrattuale con particolare riferimento agli obblighi di protezione e all’inesatto adempimento

Sommario: Introduzione – 1. Il riparto dell’onere della prova: gli elementi strutturali dell’art.1218 c.c. e la prova della causalità materiale costitutiva – 2. Il modello del riparto negli obblighi di protezione: l’applicazione dell’art.1218 c.c. al contatto sociale qualificato – 3. La regola di riparto nell’adempimento inesatto: l’eccezione al principio di presunzione di inadempimento – 3.1. Il caso specifico del riparto nelle azioni edilizie in materia di compravendita

 

Introduzione

Nel diritto civile il modello di prova imposto dal legislatore richiede che sia sempre l’attore a dover dimostrare i fatti posti a fondamento delle sue pretese.

Il comma 1 dell’art.2697 c.c. si esprime chiaramente in tal senso, affermando che i fatti oggetto di prova devono essere quelli costitutivi del diritto vantato da colui che agisce in giudizio.

Al comma 2, la medesima disposizione sancisce che il convenuto è tenuto invece a dimostrare l’infondatezza del diritto attoreo, provandone i fatti estintivi, modificativi e impeditivi.

Questa regola generale di carattere giudiziale incontra, tuttavia, una differente elaborazione nell’art.1218 c.c., secondo il quale il debitore è responsabile per l’inadempimento di un’obbligazione se non prova che lo stesso è dovuto a una causa a lui non imputabile.

La responsabilità c.d. contrattuale presenta un modello specifico improntato ad un evidente favor creditoris, posto che al creditore è sufficiente provare in giudizio soltanto il titolo di credito su cui si fonda la pretesa e il danno conseguenza che consegue all’inadempimento, così come disposto dall’art.1223 c.c.

Egli non deve provare invece, ma solo allegare, l’inadempimento del debitore, il danno evento e l’elemento psicologico; tre elementi per i quali la norma fonda delle presunzioni relative e la cui ratio risiede nell’assunto secondo cui la causa più probabile di un danno patrimoniale che scaturisce da un rapporto obbligatorio è l’inadempimento del debitore.

Il carattere snello dell’art.1218 c.c., sulla falsa riga dell’art.2697 c.c., alleggerisce la posizione del creditore che, ai fini del risarcimento, non può limitarsi a provare un danno in re ipsa, ossia del mancato realizzo del credito, bensì deve dimostrare il nesso tra l’evento materiale e le conseguenze pregiudizievoli nella sua sfera patrimoniale.

In base a queste premesse si rende necessario comprendere quanto segue: se si è in presenza di un modello di responsabilità colposa, in virtù della quale il debitore potrà superare la presunzione di colpa dimostrando di aver agito secondo diligenza e, in secondo luogo, se il nesso causale tra la condotta-inadempimento e il danno-evento costituisce per il creditore oggetto di prova o presunzione.

La prova del nesso causale aggraverebbe in maniera significativa la posizione del creditore, soprattutto in quelle situazioni ove sarebbe onerato a dimostrare che il danno è conseguenza dell’errore professionale.

Appurato quale sia il meccanismo di riparto, occorre verificare se il regime della responsabilità c.d. contrattuale rappresenti un modello unitario applicabile a tutte le obbligazioni: sia quelle di protezione, cioè prive di un rapporto negoziale sottostante, che quelle caratterizzate da un non esatto adempimento.

1. Il riparto dell’onere della prova: gli elementi strutturali dell’art.1218 c.c. e la prova della causalità materiale costitutiva

Quella contemplata dall’art.1218 c.c. è una forma di responsabilità civile che grava sul debitore, il quale non ha adempiuto la propria prestazione e quindi non è riuscito a soddisfare l’interesse patrimoniale o non patrimoniale del creditore, ai sensi dell’art.1174 c.c.

La norma in questione, pur collocata nel codice civile, costituisce una disciplina di carattere processuale, la cui funzione è quella di stabilire il regime dell’onere della prova in capo all’obbligato, secondo una logica di favore per il titolare del diritto di credito.

Come accennato, infatti, l’art.1218 c.c. contiene tre presunzioni relative a favore del creditore, ossia tre elementi che egli dovrà solo allegare, dichiarandone l’esistenza: l’inadempimento del debitore, ritenuto la causa più probabile del danno patrimoniale, la colpa di quest’ultimo e il danno-evento, ossia il danno in re ipsa al diritto di credito.

Il creditore sarà invece tenuto a dar prova del titolo, consistente nel contratto o negozio in cui le parti hanno dedotto l’obbligazione e del danno conseguenza ex art.1223 c.c., che, nella forma di danno emergente o lucro cessante, costituisce il differenziale tra lo stato patrimoniale del soggetto prima e dopo l’inadempimento.

L’art.1218 c.c. snellisce e semplifica il regime probatorio del creditore, in ossequio ad una ratio che avvolge l’intera materia delle obbligazioni, struttura portante del diritto civile e bisognosa di strumenti di maggior certezza che facilitano la circolazione del credito.

La norma si differenzia dal regime della responsabilità aquiliana di cui all’art.2043 c.c., il cui precetto impone al danneggiato di dover provare tutti i fatti costitutivi richiesti dalla norma, ossia: elemento soggettivo del danneggiante, danno evento, danno conseguenza, nesso causale materiale e giuridico.

Del resto il favor creditoris, pur attenuato da un’opera di rimodellazione del rapporto creditore-debitore secondo il dogma della buona fede oggettiva, è dimostrato da altre norme del codice.

Si guardi ad esempio l’art.1191 c.c., il quale non dà rilievo alla capacità del debitore, affermando che l’incapace che ha eseguito il pagamento non lo può impugnare a causa della sua incapacità; oppure l’art.1183 c.c. a mente del quale, se non è previsto un termine per l’adempimento, il creditore può esigerlo immediatamente, o ancora l’istituto della mora debitoris di cui all’art.1219 c.c.

Cosicché, in sede di giudizio grava sul debitore un onere più complesso, plasmato sul comma 2 dell’art.2697 c.c., secondo cui egli potrà superare la presunzione d’inadempimento colposo solo se dimostra l’esistenza di un fatto impeditivo, modificativo o estintivo del rapporto obbligatorio.

L’art.1218 c.c. parla di “causa a lui non imputabile”, ossia una causa estranea alla sua sfera di azione o di dominio che non avrebbe potuto evitare nemmeno usando l’ordinaria diligenza di cui all’art.1176 c.c.

Sul punto occorre quindi far chiarezza circa il carattere oggettivo o soggettivo dell’inadempimento.

Sebbene la norma lasci intendere che la responsabilità, di carattere oggettivo, grava sul debitore per il sol fatto dell’inadempimento a prescindere dalla sua diligenza nell’esecuzione, la tesi prevalente è nel senso opposto.

La teoria soggettiva afferma che art.1218 c.c. va letto in combinato disposto con l’art.1176 c.c., avente ad oggetto la diligenza nell’esecuzione.

Le due disposizioni non possono essere concepite in maniera atomistica, ma come componenti di un unico sistema normativo, che ha come referente il principio di responsabilità personale ex art.27 Cost.

Dal combinato disposto delle norme, che sottendono due obblighi in capo al debitore, di adempimento e di diligenza, si deduce che se il debitore è stato diligente non potrà essere anche responsabile, mentre se è responsabile di certo non è stato altrettanto diligente. Sarebbe infatti contraddittorio ritenere responsabile un debitore che abbia fatto di tutto per eseguire una prestazione oggettivamente impossibile.

Dal un punto di vista probatorio, invero, il debitore potrà superare la presunzione di colpa dimostrando non solo l’esistenza di una causalità materiale che recide il nesso tra la condotta e l’evento, ma anche di aver utilizzato la diligenza richiesta dall’art.1176 c.c. ma nonostante ciò non è stato possibile adempiere l’obbligazione.

La responsabilità contrattuale è dunque per colpa, o soggettiva.

Il modello dell’art.1218 c.c. si ispira a due principi, fatti propri dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, che nel 2001 ha affermato l’esigenza di un regime probatorio unificato per tutte le azioni aventi ad oggetto un rapporto obbligatorio a prestazioni corrispettive.

Nelle tre azioni disciplinate dall’art.1453 c.c., risoluzione, adempimento in forma specifica e risarcimento del danno, il comun denominatore è l’inadempimento del debitore, il quale è elemento sufficiente a giustificare il medesimo meccanismo di riparto.

I due principi che ispirano il regime favorevole dell’art.1218 c.c. sono: il principio di persistenza del diritto e quello di vicinanza alla prova.

Nella “persistenza del diritto” trova ragione la presunzione di inadempimento contemplata dall’art.1218 c.c.; secondo tale principio, ogni diritto deve presumersi esistente se non è intervenuta la sua causa d’estinzione. La presunzione relativa in oggetto è legittimata dall’art.2697 comma 2 che, tra gli elementi estintivi del diritto comprende anche l’adempimento come causa d’estinzione dell’obbligazione.

Cosicché, se l’adempimento è una causa d’estinzione prevista dalla legge, che presuppone a monte l’esistenza di un diritto di credito, allora l’inadempimento non necessita d’esser provato dal suo titolare, essendo sufficiente l’allegazione dello stesso.

Il principio di vicinanza alla prova implica invece che la prova di un fatto deve essere fornita dalla parte che con più facilità è in grado di accedere alla stessa.

Sarà dunque più agevole per il debitore dimostrare, mediante quietanza di pagamento, l’avvenuto adempimento, ovvero la causa sopravvenuta, che nonostante la condotta diligente gli ha impedito di adempiere, secondo il canone della responsabilità colposa.

Il creditore potrà invece con maggior facilità dimostrare il titolo su cui si fonda il rapporto obbligatorio e il danno-conseguenza nelle forme del danno emergente, ovvero il bene sottratto al suo patrimonio e il lucro cessante, ossia il differenziale che si sarebbe avuto se il bene fosse entrato a far parte del patrimonio.

Il secondo elemento da appurare concerne invece il nesso causale c.d. materiale tra condotta del debitore e danno evento.

Non è chiaro in dottrina e in giurisprudenza se la prova di questo debba considerarsi assorbita dalla prova dell’inadempimento, ovvero se il creditore sia tenuto a fornirla assieme al titolo e al danno conseguenza.

Sul punto possono richiamarsi due differenti posizioni.

Secondo una prima tesi la lettera dell’art.1218 c.c., così come il disposto dell’art.1223 c.c., non fa menzione della prova del nesso materiale, essendo questo insito nella presunzione di inadempimento. L’altra posizione sostiene invece che il creditore debba dar prova della causalità colposa essendo questa concepita in maniera autonomistica e distinta dalla condotta-inadempimento.

La seconda tesi ha trovato ampia affermazione nelle obbligazioni professionali contrattualizzate, ove si è affermato che il creditore deve dar prova del nesso materiale “costitutivo” tra la condotta del professionista contraria alle legis artis e il danno evento, così uniformandosi al dettato dell’art.2697 comma 1 c.c.

Il debitore, invece, è tenuto a provare la causalità estintiva, dimostrando che egli non ha adempiuto perché non ha potuto adempiere.

La distinzione tra causalità materiale costitutiva e estintiva caratterizzerebbe le prestazioni contrattualizzate, ivi comprese quelle del medico che adempie in forza di un contratto.

L’eccessivo rigore probatorio cui incorre il creditore, chiamato a dimostrare il nesso tra inadempimento e danno, non è però funzionale in tutti quei contesti ove la causa più probabile, se non certa, del danno è data dalla condotta errata del debitore.

Questa empasse è stata superata dalla tesi favorevole, affermando che solo le obbligazioni non professionali e quelle professionali particolarmente semplici sono riconducibili sotto l’egida delle presunzioni dell’art.1218 c.c., mentre quelle professionali imporrebbero al creditore di dimostrare la causalità costitutiva, poiché l’inadempimento non appare come la causa più probabile dell’evento dannoso.

E, tuttavia, un regime probatorio così diversificato non può essere accolto sulla base della lettera dell’art.1218 c.c. e del principio di vicinanza alla prova.

In maniera critica si può obiettare in primo luogo che, al di là dell’assenza di una distinzione legale tra obbligazioni semplici e complesse, anche un’obbligazione particolarmente complessa è sempre preordinata ad un risultato finale, individuato nell’interesse del creditore ad ottenere il bene della vita.

In secondo luogo, la critica osserva che non è sempre facile per il creditore conoscere la causa più probabile dell’inadempimento sulla base di un complesso di fatti a lui noti, tanto più quando la prestazione richiede particolari competenze tecnico professionali che lo inducono ad affidarsi al professionista.

Alla luce di quanto sin qui argomentato, è preferibile discutere di un regime probatorio unitario, in forza del quale la responsabilità contrattuale di cui all’art.1218 c.c. deve considerarsi soltanto liberatoria. In definitiva il creditore resta soggetto soltanto a due prove: l’essere creditore e il danno conseguenza, ma non anche il nesso materiale costitutivo.

2. Il modello del riparto negli obblighi di protezione: l’applicazione dell’art.1218 c.c. al contatto sociale qualificato

Occorre a questo punto domandarsi se il modello di riparto consacrato dalle Sezioni Unite del 2001 possa ritenersi generalizzato, ossia applicabile anche ai c.d. obblighi di protezione, o da contatto sociale che, essendo privi di una fonte negoziale, hanno sollevato dubbi circa la disciplina applicabile.

Per poter definire il regime di riparto degli obblighi di protezione è imprescindibile individuarne la natura giuridica dal punto di vista della disciplina applicabile, se da contratto o da fatto illecito.

L’obbligo di protezione, o da contatto sociale qualificato, è una forma di vincolo giuridico che si instaura tra due soggetti non legati da un rapporto negoziale, ma che, allo stesso tempo, non possono ritenersi estranei a tal punto da richiamare la disciplina dell’illecito aquiliano di cui all’art.2043 c.c.

Questa forma di obbligazione si è affermata nella dottrina tedesca, in un contesto nazionalsocialista ove il “fatto storico” assumeva la medesima importanza del “fatto formale”, dal punto di vista della cogenza del vincolo tra le parti.

Nel nostro sistema, il concetto di contatto sociale qualificato è definito come quel rapporto obbligatorio, privo di base negoziale, che assume valore di vincolo giuridico per il sol fatto della relazione qualificata tra le parti, che porta a ingenerare un affidamento dell’una verso l’altra circa il buon esito di una prestazione primaria collegata.

Esso si è affermato nella giurisprudenza italiana solo nel 1999, con particolare riguardo al settore medico ove, molto spesso, il paziente non stipula il contratto con il sanitario, ma con l’azienda ospedaliera.

La fonte del contatto sociale viene individuata in via generale nell’art.1173 c.c., negli “altri atti o fatti idonei a produrle [obbligazioni] in conformità dell’ordinamento giuridico”.

Alla base dell’accoglimento della teoria del contatto sociale vi è un ragionamento improntato alla valorizzazione del concetto di solidarietà sociale, ex art.2 Cost., buona fede oggettiva, correttezza, diligenza del debitore e affidamento del soggetto “debole” nel buon esito della prestazione.

In tali contesti, il concetto di buona fede si pone dunque come un principio suscettibile di generare obblighi di protezione, normalmente ancillari rispetto alla prestazione principale, ma la cui violazione è causa di una responsabilità analoga a quella contrattuale.

L’assenza di un vincolo negoziale tra le parti, quali possono essere medico-paziente, docente-alunno, debitore-terzi, banca-cliente, non esclude che il contatto sociale dia vita a un’obbligazione in senso tecnico, la cui fonte risiede nella violazione del principio di buona fede oggettiva, la quale assumerebbe in tal caso il rango di una norma di fattispecie.

In secondo luogo il carattere tecnico degli obblighi di protezione è deducibile dall’operatività dell’art.1174 c.c., laddove individua il carattere funzionale dell’obbligazione nel raggiungimento dell’interesse patrimoniale o non patrimoniale del creditore.

Orbene, anche l’obbligo di protezione, pur in assenza di un negozio che isoli la prestazione principale, implica che la parte protetta ha interesse a conseguire un determinato risultato per mezzo di uno stato di affidamento nelle capacità tecniche della controparte.

Per queste ragioni è lecito ritenere che gli obblighi di protezione debbano essere sussumibili nella disciplina della responsabilità contrattuale di cui all’art.1218 c.c. e dunque nel regime probatorio di cui si è data illustrazione.

In disparte la materia della professionalità medica che, a seguito della legge Gelli Bianco del 2017, ha subito un ritorno alla responsabilità aquiliana ex art.2043 c.c., sono state individuate una pluralità di relazioni da “contatto sociale qualificato” che, dal punto di vista probatorio, incorrono nel meccanismo dell’art.1218 c.c.

Si prenda ad esempio la responsabilità dell’insegnante verso l’alunno per autolesioni dello stesso; fattispecie che, fino all’intervento delle Sezioni Unite, poneva dubbi circa la qualificazione della fattispecie: se in termini di responsabilità speciale del precettore per il fatto dell’alunno di cui all’art.2048 c.c., ovvero di una responsabilità da contatto sociale ex art.1218 c.c.

La giurisprudenza di legittimità ha appurato che la fattispecie esula dall’art.2048 c.c., posto che la norma fa esclusivo riferimento al danno cagionato dall’alunno verso i terzi e non anche verso sé stesso.

Si deve piuttosto concepire questa forma di responsabilità del docente come responsabilità da contatto sociale per culpa in vigilando; colpa che, secondo il meccanismo dell’art.1218, è presunta.

Cosicché, mentre la scuola è titolare del rapporto negoziale con i genitori del minore, l’insegnante si considera inadempiente all’obbligo di protezione, in quanto incapace di vigilare sull’alunno che provoca un danno a sé stesso.

Dal punto di vista probatorio i genitori, in veste di creditori, potranno esigere il risarcimento, qualora dimostrino il danno conseguenza di carattere non patrimoniale sulla salute del figlio, nonché la posizione da contatto sociale dell’insegnate.

Quest’ultimo, invece, sarà gravato dalla prova liberatoria, comprensiva del nesso causale estintivo tra la condotta e l’evento, ma sarà anche tenuto a dimostrare di aver osservato quella diligenza professionale che supera la presunzione di culpa in vigilando senza essere riuscito a scongiurare la lesione.

Per quanto riguarda la responsabilità del banchiere che ha pagato a soggetto non legittimato un assegno non trasferibile, manca, anche in questo caso, il contratto tra creditore e banca trattaria, ma si ravvisa in capo al banchiere un obbligo di protezione verso il titolare effettivo del pagamento che avrebbe imposto una condotta secondo diligenza professionale richiesta dall’art.1176 comma 2 c.c.

Una tale diligenza qualificata comporta che il banchiere, al momento dell’incasso, è tenuto ad accertare con cura l’identità del soggetto che si presenta alla riscossione, in virtù della particolare competenza tecnico-professionale che si presume esistente per quel tipo di impiego.

Cosicché, dal punto di vista probatorio, mentre al creditore è sufficiente dimostrare l’obbligo di protezione e il danno conseguenza, spetterà al banchiere la prova liberatoria di aver impiegato tutta la diligenza professionale richiesta dall’art.1176 comma 2 c.c. e nonostante ciò il soggetto che si è presentato alla riscossione in luogo del legittimato è ricorso a tecniche tanto abili da rendere impossibile l’accertamento.

3. La regola di riparto nell’adempimento inesatto: l’eccezione al principio di presunzione di inadempimento

La seconda questione di indagine concerne l’applicabilità della regola sancita dalle Sezioni Unite del 2001 all’ipotesi in cui si è in presenza di un adempimento non esatto o incompleto, trattandosi in particolare di obbligazioni di facere.

L’art.1218 c.c. si riferisce al debitore che “non esegue esattamente la prestazione dovuta”, lasciando supporre che la regola vada riferita, non solo all’ipotesi adempimento assente, ma anche al caso in cui l’adempimento sia inesatto rispetto a quello dedotto nel rapporto negoziale.

È prima di tutto opportuno specificare un aspetto: il principio di buona fede oggettiva, che governa il comportamento di entrambe le parti, impone al creditore di accettare un adempimento difforme purché funzionale al perseguimento del proprio interesse, patrimoniale o non patrimoniale.

Se una simile condizione non ricorre, la prestazione deve essere portata a termine in maniera esatta e secondo la misura dell’ordinaria diligenza, a pena di responsabilità da inadempimento per il danno cagionato al creditore che non sia riuscito a soddisfare l’interesse.

Considerato che non v’è stato inadempimento totale, resta da chiedersi se la regola di riparto e in particolare il principio di vicinanza alla prova possano trovare applicazione anche in questa ipotesi specifica.

A tal proposito, in contrapposizione a quanto stabilito dalla giurisprudenza del 2001, sono state individuate dalla critica due eccezioni alla regola fondamentale, proprio in virtù della valorizzazione del principio di vicinanza alla prova: le obbligazioni negative e, appunto, l’inesatto adempimento.

È opportuno ricordare che la pronuncia in questione compie uno sforzo d’unificazione del regime, volto a estendere anche all’ipotesi di inesatto adempimento il criterio dell’allegazione da parte del creditore, gravando invece sul debitore l’esigenza di provare l’avvenuto esatto adempimento.

Una siffatta conclusione non tiene conto della diversità intrinseca dell’inadempimento dall’adempimento inesatto, poiché solo nel secondo caso sussiste la doglianza del creditore circa la non conformità della esatta realizzazione del programma negoziale, che non può implicare la mera allegazione di un fatto, ma la prova vera e propria. Trattandosi invece di un inadempimento sarebbe invece sufficiente per il creditore l’allegazione del fatto negativo, per la quale è sarà più agevole al debitore dimostrare l’avvenuta esecuzione.

Invero, il principio di vicinanza impone che l’onere della prova spetti alla parte che ha più facile accesso alla stessa, in quanto più vicina agli elementi costitutivi ed estintivi; del resto lo stesso art.2697 c.c. è costruito in questi termini.

Nell’ipotesi di adempimento inesatto si ritiene che la vicinanza implica che sia il creditore a dover dimostrare il non esatto adempimento, poiché per esso è più semplice dar prova di come avrebbe dovuto essere un adempimento esatto piuttosto che esigere che il debitore dimostri di aver correttamente adempiuto.

In definitiva, nel caso di specie, il riparto dell’onere della prova è invertito: il creditore è tenuto a dimostrare il titolo, il non esatto adempimento e il danno conseguenza.

3.1. Il caso specifico del riparto nelle azioni edilizie in materia di compravendita

Un caso particolare ove si pone il dubbio circa la qualificazione in termini di inadempimento o non esatto adempimento concerne le azioni edilizie in materia di compravendita.

Tra gli obblighi del venditore vi sono quelli stabiliti dall’art.1476 n.3 c.c., ovvero garantire il compratore dai vizi della cosa venduta e dall’evizione. L’ordinamento prevede in capo all’acquirente due rimedi dinnanzi a tali difformità: la risoluzione del contratto di compravendita e la riduzione del prezzo, con possibilità di chiedere in ogni caso il risarcimento del danno.

La consegna di bene affetto da vizi o suscettibile di essere oggetto di riappropriazione da parte dei terzi potrebbe lasciar intendere, come è stato in passato, una forma di non esatto adempimento da parte del venditore, con conseguente onere per l’acquirente che agisce in giudizio di dar prova dell’inadempimento dimostrando il vizio.

Il riparto dell’onere della prova ha indotto taluni infatti a ritenere applicabile il modello previsto dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite 2001, concependo il vizio come una forma di inadempimento: in tal caso la prova dell’assenza del vizio spetterebbe all’alienante e non invece all’acquirente che, coerentemente all’art.1218 c.c., sarebbe solo tenuto a provare il titolo di acquisto.

In verità, come sostenuto dalla più recente giurisprudenza del 2019, alla base della ratio sottesa alle azioni edilizie non v’è affatto un inadempimento, né un inesatto adempimento.

Ciò in virtù della natura del contratto di compravendita, il quale costituisce il prototipo di contratto consensuale traslativo ad effetti reali che, ai sensi degli artt.1376-1326 c.c., si perfeziona per il sol fatto del consenso tra le parti.

L’unico obbligo di adempimento in capo al venditore è quello di consegnare il bene nello stato in cui si trovava al momento del perfezionamento del contratto, spostandosi sull’acquirente il rischio connesso al perimento del bene (res perit domino).

Sul punto si sono opposte diverse tesi: in particolare secondo alcuni si tratta di una deficienza del programma contrattuale che ha impedito il perfezionamento del programma traslativo, secondo altri trattasi di una garanzia in senso tecnico, che costituisce al pari dell’obbligazione uno degli effetti necessari della vendita.

Preferibile è questa seconda soluzione, che vede il vizio come una condizione di efficacia della garanzia.

Alla luce di quanto sin qui osservato, è possibile affermare che il riparto dell’onere della prova, cui debba conformarsi al carattere speciale della garanzia in questione, comporta che spetta all’acquirente provare il vizio o l’evizione, in armonia con il più volte richiamato principio di vicinanza alla prova.

Questa soluzione, fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità, porta ad affermare la sussistenza di un’analogia, ma non una sovrapposizione, tra la prova nelle azioni edilizie e quella del non esatto adempimento, ove il riparto subisce una deroga al modello generale, spettando al creditore di dar prova dell’inesattezza della prestazione.


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