Il regime d’invalidità del contratto penalmente rilevante
Le nullità contrattuali
Il contratto è definito dall’art. 1321 c.c. come l’accordo diretto a regolare, modificare o estinguere un rapporto giuridico a contenuto patrimoniale, attuabile, principalmente, attraverso il rispetto dei requisiti di validità, previsti dell’art. 1325 c.c., dell’accordo, dell’oggetto, della causa e della forma, laddove prevista ad substantiam e mediante una manifestazione di volontà libera e consapevole, da parte di soggetti idonei a compierla.
Diversamente, infatti, si incorrerebbe nella sfera dell’invalidità, intesa quale irregolarità giuridica che determina l’inefficacia del contratto ed articolata nelle tre distinte figure della nullità, dell’annullabilità e della rescindibilità.
La nullità costituisce la fattispecie di invalidità più grave che può colpire il contratto, trattandosi, almeno tradizionalmente, di un vizio originario dell’atto, ossia gravante sullo stesso sin dal momento della stipulazione. Tanto che autorevole dottrina ha definito il contratto nullo come “contratto nato morto”.
In realtà, dottrina e giurisprudenza hanno pacificamente concluso nel riconoscimento anche di nullità sopravvenute, ossia di invalidità che colpiscono l’atto in una fase successiva alla stipulazione contrattuale, come avviene in ipotesi di sopravvenienze normative incidenti sui requisiti di validità dei negozi.
L’ordinamento racchiude le varie ipotesi di nullità in tre distinti settori, in ragione delle diverse cause che ne hanno determinato l’invalidità.
Da un lato, si inseriscono le cosiddette nullità virtuali, che si riferiscono ai casi in cui, nonostante il Legislatore non contempli espressamente la sanzione, il contratto sia contrario a norme imperative, come previsto dall’art. 1418, comma 1, c.c.; in proposito, si è discusso sulla corretta qualificazione del concetto di norma imperativa: un primo tradizionale orientamento attribuiva a quest’ultima il ruolo di norma precettiva di comando o divieto, che, in quanto tale, si contrapponeva alle norme ordinarie, limitate alla definizione dei requisiti di forma o di sostanza di un atto.
Un’altra impostazione riteneva, invece, di porre rilievo al carattere inderogabile della norma imperativa: tuttavia, una simile conclusione è stata fortemente criticata, posto che, pur ammettendo l’inderogabilità, essa non costituisce un requisito sufficiente all’imperatività della norma, la cui violazione incide sulla validità del contratto.
Pertanto, un terzo filone dottrinale, ad oggi dominante, ha offerto un correttivo alla suddetta tesi: in particolare, si è precisato che, per norma imperativa, debba intendersi una norma inderogabile posta a tutela di un interesse generale o di ordine pubblico, che, per tali ragioni, tende a distinguersi dalle disposizioni di protezione di interessi particolari o privati, le quali ultime, in linea di principio, non integrano fattispecie di nullità.
Alle nullità virtuali si affianca la categoria delle cosiddette nullità strutturali, disciplinate dall’art. 1418, comma 2, c.c., che, come anticipato, attengono alla carenza o illiceità di un requisito essenziale dell’atto: ci si riferisce, in particolare, alla mancanza di uno degli elementi delineati dall art. 1325 c.c.; alla indeterminabilità o impossibilità dell’oggetto del contratto, finalizzato a rendere le parti edotte dagli impegni assunti dalla stipulazione; alla illiceità della causa, poiché contraria a norme imperative, ordine pubblico e buon costume, secondo quanto espressamente statuito dall’art. 1343 c.c.; infine, alla illiceità dei motivi determinanti e comuni ad entrambi i contraenti ex art. 1345 c.c., ipotesi, quest’ultima, che costituisce un’eccezione alla generale regola di irrilevanza dei motivi a fini contrattuali.
Da ultimo, la norma di cui all’art. 1418, comma 3, c.c. si occupa delle cosiddette nullità testuali o speciali, che abbracciano tutti i casi in cui sia la legge a prevedere espressamente l’invalidità del negozio: si consideri, a titolo esemplificativo, la disposizione di cui all’art. 2744 c.c., in tema di divieto di patto commissorio, in virtù della quale si sancisce la nullità del patto con cui si trasferisce la proprietà, in favore del creditore, del bene ipotecato o soggetto a pegno, in mancanza di adempimento del debitore nel termine fissato.
Ad ogni modo, la comune peculiarità delle nullità, comunque classificate, risiede nella circostanza per la quale il contratto invalido non produce alcun effetto, sicchè la sentenza giudiziale di accertamento della nullità ha carattere dichiarativo, non essendo la stessa indirizzata alla modificazione delle posizioni giuridiche coinvolte, come, invece, avviene nelle le sentenze costitutive di annullamento.
Ne deriva che le prestazioni eseguite in esecuzione del contratto nullo debbano intendersi quali indebiti oggettivi, dando, quindi, origine al diritto alla restituzione: in altri termini, è necessario il rispristino dello status quo precedente alla stipulazione contrattuale, “fittiziamente” modificato dall’atto inefficace. Peraltro, laddove ricorrano gli estremi di una responsabilità precontrattuale, all’azione di nullità, per legge imprescrittibile, può accompagnarsi anche la richiesta risarcitoria nei limiti del cd. interesse negativo.
Tuttavia, l’originaria inefficacia dell’atto, che, come precisato, diviene definitiva con la sentenza giudiziale di accertamento, non preclude, in termini assoluti, una rilevanza dello stesso nei confronti di terzi estranei al contratto né la produzione di effetti anche rispetto alle parti.
Con riferimento al primo aspetto, l’assunto si giustifica alla luce della disciplina sulla trascrizione, quale specifica forma di pubblicità all’adempimento della quale la legge subordina l’efficacia dell’atto che ne costituisce oggetto, in cui rientrano, ai sensi dell’art. 2652 n. 6 c.c., anche le azioni giudiziali di nullità.
Orbene, ferma restando l’astratta idoneità della dichiarazione di nullità di un’alienazione a travolgere anche i diritti dei terzi acquirenti, e cioè i diritti che i terzi hanno acquistato dall’alienante o da suoi aventi causa, la trascrizione può, tuttavia, determinare un’inopponibilità della sentenza di nullità nei confronti dei terzi, senza per ciò solo rendere valido l’atto: in particolare, se la trascrizione della domanda giudiziale di nullità viene eseguita dopo cinque anni dalla trascrizione dell’atto nullo, la sentenza dichiarativa non pregiudica la posizione dei terzi, che abbiano, però, acquistato in buona fede in base ad un atto iscritto o trascritto in epoca precedente alla trascrizione della domanda di nullità.
Con riguardo al secondo aspetto, ai contraenti è rimessa, in generale, la facoltà di evitare la sanzione della nullità, attribuendo efficacia all’atto nullo. Lo strumento attraverso il quale si garantisce tale operazione è rappresentato dalla conversione, intesa come modifica legale del contratto, attuabile nel rispetto sostanziale dello scopo delle parti.
Più specificamente, in virtù del dato letterale di cui all’art. 1424 c.c., il contratto nullo potrebbe produrre gli effetti di un diverso contratto, del quale abbia i requisiti di sostanza e di forma, se, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, deve ritenersi che esse lo avrebbero voluto se ne avessero conosciuto la nullità.
Si cita, a titolo esemplificativo prettamente dottrinale, la costituzione di un usufrutto immobiliare verso un corrispettivo periodico che si converte in contratto di locazione.
I presupposti di operatività della conversione si identificano nella nullità del contratto, nell’idoneità degli effetti giuridici modificati a soddisfare in misura apprezzabile gli interessi delle parti, nella sussistenza dei requisiti necessari per produrre effetti giuridici diversi e nell’ignoranza delle parti circa l’invalidità del contratto.
Si tratta di una modifica che opera di diritto, ma nel rispetto sostanziale del programma voluto dalle parti: infatti, il fondamento della conversione risiede, pur sempre, nei principi della buona fede e correttezza e della conservazione del contratto. Pertanto, anche in ossequio all’ormai pacifica teoria della causa in concreto, alla conversione è subordinato un giudizio di obiettiva congruenza tra gli effetti giuridici modificati e lo scopo delle parti, al fine di constatare una effettiva esigenza di mantenimento del contratto.
Distinte figure di conversione sono rappresentate dalla conversione formale e dalla conversione legale: la prima determina la conversione del negozio ad altro tipo formale avente i medesimi effetti giuridici, attribuendo, quindi, semplicemente, una diversa qualifica formale al negozio costituito, che detenga i requisiti necessari per produrre gli effetti voluti. La conversione legale è, invece, specificamente prevista dalla legge, operando a prescindere dalla volontà delle parti in ordine alla conversione ed al di fuori del concreto giudizio di comparazione tra lo scopo originario delle parti e quello realizzabile mediante il contratto convertito.
Contratto illegale e contratto illecito. La rilevanza penale delle trattative e della conclusione del contratto.
Il riferimento, innanzi esposto, al rimedio della conversione assume maggiore rilevanza se considerato con riguardo alla distinzione tra contratto illegale e contratto illecito, di cui all’art. 1418, comma 1 e comma 2, che rimandano, rispettivamente, alla disciplina delle nullità virtuali e delle nullità strutturali.
Pertanto, il contratto si intende illegale quando si presenta contrario alle norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente.
Quest’ultimo inciso implica, dunque, che, nonostante l’atto possa versare in una condizione di invalidità, non necessariamente venga comminata la sanzione della nullità. Ed infatti, è ben possibile che, per espressa previsione legislativa, l’ordinamento preveda il ricorso ad un differente rimedio, quale, ad esempio, l’annullabilità.
Di converso, il contratto si definisce illecito quando è la causa ad essere contraria ad una norma imperativa. Più specificamente, per espresso riferimento dell’art. 1418, comma 2, c.c. alla disposizione di cui all’art. 1343 c.c., la causa è illecita quando contraria a norme imperative, ordine pubblico e buon costume, da intendersi questi ultimi, rispettivamente, come complesso dei principi fondamentali e dei precetti negativi di onestà e moralità sociali che sono propri dell’ordinamento positivo.
In particolare, la contrapposizione tra contratto illegale e contratto illecito rileva sotto un duplice profilo: da un lato, l’eventuale riconoscimento di un effetto “sanante” di cui all’art. 2652 n. 6 c.c., con riguardo all’efficacia del contratto nei confronti di terzi per priorità nella trascrizione, ovvero la possibilità di conversione di cui all’art. 1424 c.c. e, dall’altro, l’incidenza della violazione della norma penale sul contratto.
Con riguardo al primo aspetto, è pacificamente stabilito come il contratto illecito sia da qualificarsi sempre nullo ed improduttivo di effetti, in conformità a quanto stabilito dall’art. 1418, comma 2 c.c., nel quale il Legislatore non ammette deroghe alla sanzione della nullità, con la conseguenza che allo stesso non possa attribuirsi alcuna esigenza conservativa. Motivo per il quale non si ammette l’operatività del regime di inopponibilità di cui all’art. 2652 n. 6 c.c. né il ricorso alla conversione contrattuale.
Al contrario, come testualmente previsto dalla norma con la locuzione “salvo che la legge disponga diversamente”, la nullità virtuale di cui all’art. 1418, comma 1 c.c., che integra la fattispecie del contratto illegale, non esclude l’applicabilità di una sanzione differente dalla nullità ovvero la facoltà di rendere il contratto efficace.
Una simile conclusione si fonda sul suddetto principio generale per il quale la contrarietà ad una norma imperativa non comporta imprescindibilmente la nullità contrattuale, come, invece, avviene per le nullità strutturali del contratto illecito, purchè, e qui risiede il punto di discrimine, tale contrarietà si riferisca esclusivamente al contratto globalmente inteso. In caso contrario, è indubbio che si applicherà il regime del contratto illecito.
Il differente trattamento riservato alle due figure contrattuali si giustifica in funzione della maggiore gravità del contratto illecito rispetto al contratto illegale: ed infatti, mentre quest’ultimo si mantiene nel terreno dell’antigiuridicità, il primo integra ipotesi di illiceità, le quali, determinando violazione ai più alti valori di natura collettiva, personale, sociale e morale del nostro sistema, richiedono una incisività particolare.
Per cui, solo la violazione di norme imperative riferite all’illiceità, sancita dalla previsione di cui all’art. 1343 c.c., determinano una insostituibile nullità del contratto, poiché, collocandosi al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento, esprimono principi giuridici ed etici fondamentali.
In riferimento alla seconda questione, ci si è interrogati circa le sorti del contratto concluso in violazione di una norma penale. In altri termini, si è discusso se tale contrarietà importi necessariamente la sanzione della nullità.
Sul punto, si sono registrati due diversi orientamenti: il primo filone ritiene che il contrasto tra contratto e norma penale sia sufficiente a determinare una nullità virtuale del primo ex art. 1418, comma 1 c.c.: infatti, la norma penale ha funzione di norma imperativa, in ragione del precetto ivi contenuto, la cui violazione integra la fattispecie di invalidità. Peraltro, si è precisato come l’ordinamento non possa tollerare che la contrarietà ad una norma penale e relativa conseguenza sul contratto sia subordinata ad una eventuale azione civile da parte della persona offesa.
All’opposto, l’altra corrente, tutt’ora dominante, attribuisce rilievo alla imprescindibile differenza tra la norma penale e la norma civile, posto che sono supportate ciascuna da una propria ratio e da propri criteri di accertamento. In effetti, la norma incriminatrice ritiene penalmente rilevante esclusivamente quei fatti che determinano un disvalore tale da considerarsi riprovevoli per l’ordinamento, che, all’uopo, adotta le relative tutele.
Pertanto, la verifica delle sorti del contratto concluso in violazione della norma penale deve essere effettuata alla luce di tale diversità, applicando la sanzione della nullità in riferimento al fondamento del divieto previsto nel precetto penale.
Più in particolare, è necessaria un’operazione di riqualificazione in termini civilistici della fattispecie penale, a seguito della quale verificare se a quest’ultima possa o meno corrispondere una patologia contrattuale.
E quindi, in ossequio alla intangibile autonomia che contraddistingue le due norme ed al raffronto tra le stesse, si è concluso come di seguito.
In primo luogo, laddove al comportamento penalmente rilevante corrisponda un’ipotesi di illiceità della causa o dei motivi comuni ad entrambe le parti di cui agli artt. 1343 e 1345 c.c., integrando dunque una forma di contratto illecito, troverà applicazione il regime delle nullità strutturali di cui all’art. 1418, comma 2 c.c., con conseguente nullità dell’atto. Qui, la illiceità incide direttamente su un elemento strutturale del contratto ed è su questa base che ne viene riconosciuta la nullità: ne costituisce esempio tipico il reato di associazione a delinquere ex art. 416 c.p., in cui è la causa dell’accordo, finalizzata alla commissione di specifici reati, ad essere di per sé illecita.
In secondo luogo, la disciplina differisce parzialmente a seconda che si affronti l’ipotesi del reato-contratto ovvero del reato in contratto: nel primo caso, essendo la stipulazione del contratto in sé a costituire reato, il Legislatore ritiene applicabile il regime delle nullità virtuali di cui all’art. 1418, comma 1 c.c., trattandosi di negozio contrario ad una norma imperativa, quella penale, come avviene nella cessione di sostanze stupefacenti.
Nel secondo caso, la legge considera il contratto totalmente lecito, sanzionando, invece, il comportamento assunto dalle parti nella fase precedente alla stipulazione contrattuale: se la norma penale assoggetta a sanzione il comportamento di entrambe le parti in contratto, tale condotta assumerà i connotati di un contratto nullo per illiceità della causa o dei motivi comuni ex art. 1418, comma 2 c.c., posto che il giudizio di disvalore sociale grava su ciascun contraente.
In caso contrario, ossia qualora la sanzione penale sia indirizzata ad un unico contraente, il che avviene nella maggior parte dei reati con la necessaria cooperazione della vittima, quale, ad esempio, il reato di truffa di cui all’art. 640 c.p., il contratto deve ritenersi annullabile, salvo che la legge disponga una specifica nullità testuale a riguardo.
Infatti, in questi casi, il comportamento scorretto si considera idoneo ad incidere sulla libera formazione e manifestazione di volontà della vittima, che, riqualificato in un’ottica civilista, determina un vizio del consenso sanzionabile ex artt. 1427 e ss. c.c.
Può, quindi, concludersi nel senso che la violazione di una norma penale in sede di stipulazione del contratto, non comporta automaticamente la nullità del negozio, dovendosi soffermare l’attenzione sull’interesse protetto dalla norma incriminatrice. E ciò è possibile esclusivamente attraverso la suddetta operazione di riqualificazione civilista della fattispecie penale, mediante la quale verificare la concreta effettiva coincidenza degli scopi e degli effetti previsti dal precetto penale con quelli propri della norma civile.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Valeria Gioia
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