Il riconoscimento del c.d. straining oltre il mobbing
Cass. Civ., Sez. lavoro, Ord. 27 giugno 2024, n. 19196
La pronuncia in esame prende le mosse dal caso di una infermiera dell’ASL di Benevento, la quale adiva il Tribunale di prime cure lamentando di aver subito molestie di natura sessuale e mobbing da parte del responsabile del reparto presso la quale prestava servizio.
L’infermiera richiedeva, tra l’altro, di condannare l’autore delle molestie e l’ASL di Benevento in solido ai sensi degli artt. 1228, 2043, 2049 cod. civ. al risarcimento dei danni biologico, morale, esistenziale, nonché del danno alla professionalità.
Il Tribunale accoglieva solo in parte le richieste dell’infermiera, respingendo, in particolare, le domande risarcitorie.
Impugnata la pronuncia ed esaurito il giudizio, i giudici di secondo grado rilevavano che il quadro probatorio offerto dall’infermiera, seppur facesse risultare un clima degradato, non fornisse abbastanza elementi per giungere a un giudizio sicuro sulla ricostruzione dei fatti. In effetti, pur ritenendo provati alcuni episodi persecutori posti in essere dal responsabile del reparto, gli stessi non risultavano sufficienti ad integrare il reato di mobbing in assenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi rilevati dalla ricorrente, anche per il ristretto arco temporale in cui si collocavano.
L’operatrice sanitaria, al fine di revocare la sentenza pronunciata, si vedeva quindi costretta ad adire la Suprema Corte.
Gli Ermellini hanno rilevato, in particolare, un errore di valutazione in capo al ragionamento della Corte d’Appello che, una volta accertata l’assenza dei requisiti tipici della condotta di mobbing, respingeva semplicemente la domanda, omettendo di verificare se tali episodi, valutati singolarmente, potessero comunque integrare una lesione di diritto.
Il principio operato dalla Cassazione è invero basato sulla tutela del lavoratore, sancita e tutelata dall’art. 2087 cod. civ. quale norma generale posta a presidio della salute e della dignità del lavoratore, retta non da un numerus clausus o da principi di tipizzazione ma da atipicità. L’istituto del mobbing acquisisce sicuramente rilevanza nell’identificazione di un comportamento in contrasto con la legge ma non è l’unico parametro a cui fare riferimento.
Il datore di lavoro, hanno affermato gli Ermellini, è infatti “tenuto in generale ad astenersi da condotte illecite “stressogene”(c.d. straining), e a tal fine il giudice del merito, pur se non accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno”.
Inoltre, ha specificato la Corte, la domanda giudiziale posta in termini di mobbing non inficia il procedimento, in quanto in primis occorre vedere al fondamento della domanda, ossia la violazione in generale dell’art. 2087 cod. civ. in tutte le sue possibili manifestazioni ed indipendentemente dalla qualificazione della condotta.
In secondo luogo, ha continuato la Corte, è compito del giudice interpretare la controversia (anche applicando norme di legge diverse) purché rimangano inalterati il petitum e la causa petendi.
Il giudice è tenuto quindi ad escludere la violazione dei diritti in riferimento alla salute e alla dignità del lavoratore solo nel momento in cui nessuno dei fatti, anche singolarmente valutati, configuri una lesione degli stessi.
Sulla scorta di tali motivazioni la Suprema Corte ha cassato quindi la sentenza, rinviando alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione.
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Avv. Chiara Vacante
avvocato civilista iscritta presso l'ordine degli avvocati di Bari
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