Il rifiuto della banca di rinegoziare un mutuo trentennale con tasso di interesse usurario: quale tutela per il debitore?
In generale, l’ordinamento giuridico appresta una serie di tutele in capo al creditore qualora il debitore non ottemperi all’adempimento dell’obbligazione pecuniaria.
In particolare, se il debitore non paga, esso è costituito in mora mediante intimazione fatta per iscritto, a mente dell’art. 1219 c.c..
Inoltre, per espressa previsione normativa, sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno (art. 1224, comma 1, c.c.).
In aggiunta, a titolo esemplificativo, nel caso di contratto di mutuo, il legislatore prescrive esplicitamente che il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante (salvo diversa volontà delle parti), e che il mancato pagamento degli interessi comporta la possibilità in capo al mutuante di chiedere la risoluzione del contratto (art. 1820 c.c.).
Accanto alla tutela del creditore, attraverso gli istituti suesposti, l’ordinamento giuridico accorda altrettanti strumenti di tutela in capo al debitore.
Ne sono un esempio le prescrizioni contenute nell’art. 1227 c.c., a mente del quale se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare un danno il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate. Inoltre, il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza.
Ancora, nel caso di contratto di mutuo, l’art. 1815, comma 2, c.c. sancisce che, qualora siano stati convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi, comportando quindi la gratuità del contratto stesso.
I recenti dibattiti giurisprudenziali e dottrinali si sono concentrati principalmente sull’istituto del contratto di mutuo, con particolare riferimento al caso di tassi di interessi che divengono usurari nella fase di esecuzione del contratto, o che lo sono già in origine, nella fase della stipulazione del contratto.
Il codice civile definisce mutuo il contratto con il quale una parte (mutuante) consegna all’altra una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili e l’altra (mutuatario) si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità (art. 1813 c.c.).
Dalla definizione suesposta è opportuno evidenziare che il contratto di mutuo è un contratto reale, poiché si perfeziona con la consegna; inoltre esso è un contratto a prestazioni corrispettive.
Inoltre, il mutuo è un contratto ad effetti reali poiché le cose dato a mutuo passano in proprietà del mutuatario, come sancisce espressamente l’art. 1814 c.c..
Per quanto concerne gli interessi, vige la regola secondo la quale, salvo diverso accordo tra le parti, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante.
Inoltre, se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi (art. 1815, comma 2).
In particolare, trattasi, per un verso, di nullità parziale, per cui il contratto rimane in essere e viene espunta solo la clausola che contempla gli interessi usurari.
Per altro verso, di nullità originaria, poiché la categoria della nullità, rientrante nel “genus” dell’invalidità del contratto, ha ad oggetto il contratto come atto, non potendo essere contemplata la cosiddetta “nullità sopravvenuta”, in quanto non ammessa nel nostro ordinamento giuridico.
Questione, quest’ultima, non di poco conto se si considera che solo recentemente è intervenuta la Corte di Cassazione che, superando il dibattito giurisprudenziale e dottrinale nel frattempo instaurato, ha statuito la non ammissibilità della nullità sopravvenuta (e della usurarietà sopravvenuta) nell’ordinamento.
Sicché, occorre evidenziare che la regola contemplata all’art. 1815, comma 2, c.c. non può essere applicata al contratto di mutuo già in essere, rispetto al quale il tasso di interesse, al momento della stipulazione, era al di sotto della soglia di usura, ma che successivamente, nel corso della esecuzione, ha poi superato il tasso- soglia.
La ragione di siffatta precisazione muove principalmente da due ordini di questioni.
Anzitutto perché si introdurrebbe una categoria di nullità, la cosiddetta nullità sopravvenuta, che non trova ragione di esistere nel sistema del diritto civile.
Infatti, la categoria della nullità del contratto ha ad oggetto il contratto in sé ed il suo contenuto, attiene alla validità dell’atto, ed è dunque strettamente connessa alla fase della formazione del contratto e non alla fase dell’esecuzione del contratto, ove entra in gioco l’efficacia del contratto stesso, inteso come rapporto.
Inoltre perché la legge n. 24/2001, di interpretazione autentica dell’art. 1815 c.c. (e dell’art. 644 c.p.), espressamente sancisce che si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o convenuti, indipendentemente dal momento del loro pagamento.
Sulla base delle suesposte argomentazioni, è possibile invocare la nullità ex 1815, comma 2, c.c. della clausola del contratto di mutuo che conviene interessi usurari originari e non sopravvenuti.
Diverso è il caso del contratto di mutuo i cui interessi al momento della stipulazione sono non usurari, ma che diventano tali nel corso della sua esecuzione.
In tale circostanza, il contratto è valido: è, infatti, stipulato in ottemperanza all’art. 1815 c.c..
Inoltre, il contratto è efficace, ovvero produce gli effetti voluti dalle parti, poiché non si viola alcun divieto di usura e, quindi, la clausola di pagamento degli interessi, seppur usurari, è lecita.
Vero è che il contratto di mutuo è valido ed efficace per le ragioni suesposte; ma altrettanto vero è che l’ordinamento giuridico non può non tenere nella debita considerazione anche la tutela del debitore, che non può essere vanificata.
In particolare, a titolo esemplificativo, non può essere vanificata la tutela del debitore nel caso in cui, per effetto di una legge sopravvenuta che modifica il tasso soglia oltre il quale l’interesse diventa usurario, il mutuatario si trova costretto a corrispondere al mutuante interessi usurari.
In tale circostanza, ci si domanda anzitutto se il mutuatario possa chiedere la rinegoziazione del contratto di mutuo al mutuante e, nel caso di riposta affermativa, se il mutuante possa opporre il proprio rifiuto alla rinegoziazione.
Per quanto concerne il primo aspetto, esso rientra nella più generale tematica delle cosiddette sopravvenienze contrattuali atipiche.
In altri termini, occorre evidenziare che la rinegoziazione del contratto nei termini suesposti si annovera nel più generale contesto dei contratti che nascono equilibrati, ma che in corso di esecuzione, a causa di sopravvenienze oggettive, diventano squilibrati.
In tale circostanza occorre domandarsi se per riportare il contratto in equilibrio possa essere domandata alla controparte contrattuale la rinegoziazione del mutuo, il cui tasso di interesse ha superato il tasso usurario.
Occorre evidenziare che la questione è al centro di un dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che vede contrapposte differenti tesi.
La prima tesi, meno progressista, sostiene che non possa essere annoverato, in generale, un obbligo di rinegoziazione in capo al creditore in caso di contratto divenuto squilibrato, a meno che non sia espressamente stabilito dal legislatore la possibilità di un rimedio contrattuale conservativo, come ad esempio avviene nel caso del contratto di appalto.
Accanto alla tesi suesposta, esiste un’altra tesi, più progressista, che ammette, in generale, un obbligo di rinegoziazione del contratto ricorrendo alla clausola elastica della buona fede oggettiva di cui all’art. 1375 c.c..
In altri termini, l’obbligo di buona fede contemplato all’art. 1375 c.c. fa sorgere l’obbligo di rinegoziare, inteso quale rimedio in senso lato conservativo.
Tuttavia, occorre evidenziare che l’obbligo di rinegoziazione è un obbligo di mezzi, che comporta l’obbligo di contrattare.
Sicché, anche a voler ammettere nell’ordinamento giuridico, come del resto fa la tesi più progressista, un obbligo di rinegoziazione attraverso la clausola elastica della buona fede oggettiva, tale obbligo non comporta la possibilità di applicare un rimedio conservativo e quindi di adeguare il contratto in questione.
Sulla base di quanto sino ad ora esposto, occorre osservare che in capo al debitore sussiste una tutela debole, sia se si aderisce alla tesi tradizionale, sia se si aderisce alla tesi più progressista, poiché lo stesso non potrebbe comunque utilizzare rimedi contrattuali conservativi-manutentivi.
Circa il secondo aspetto, ovvero se il mutuante può opporre il proprio rifiuto alla rinegoziazione, sulla base di quanto sino a qui esposto, non parrebbe esserci un’unica soluzione.
Se si aderisce alla tesi più progressista, il mutuante avrebbe l’obbligo di rinegoziazione, inteso quale obbligo di contrattare.
Se si aderisce alla tesi meno progressista, il mutuante potrebbe opporre il proprio rifiuto alla rinegoziazione avanzata dal mutuatario.
Con la precisazione che, anche nel caso in cui si aderisse alla tesi meno progressista, occorre in ogni caso tenere nella debita considerazione la clausola generale della buona fede oggettiva e della correttezza, la quale permea la fase delle trattative e di formazione del contratto ex art. 1337 c.c., la fase di esecuzione del contratto ex art. 1375 c.c., nonché la validità del contratto stesso ex art. 1338 c.c..
Sicché, se il rifiuto del mutuatario non risulta conforme a buona fede e correttezza, questo potrebbe generare un comportamento scorretto, che a sua volta potrebbe portare alla richiesta di risarcimento del danno da parte del mutuante.
Ci si potrebbe, infine, domandare quale tipo di buona fede deve essere ottemperata: ovvero, la buona fede integrativa ex art. 1375 c.c., oppure la buona fede valutativa (del comportamento del mutuante- istituto bancario).
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che deve essere tenuta nella debita considerazione la buona fede valutativa del comportamento del creditore.
Tuttavia, occorre evidenziare che, in questo modo, la tutela del debitore parrebbe essere ancora più debole, poiché si tratterebbe di una tutela successiva ed eventuale, azionabile solo nel caso in cui si verificasse un abuso del diritto da parte del creditore.
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Francesca Miniscalco
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