Il rifiuto di tutela tra buona fede, abuso del diritto ed exceptio doli generalis
Sommario: 1. Introduzione – 2. Nozione e ricostruzione dell’ “abuso del diritto” – 3. La buona fede oggettiva quale criterio fondante del divieto di abuso – 4. Il rimedio: l’exceptio doli generalis – 5. Due casi specifici di abuso del diritto: clausole di claims made basis e nullità selettiva delle clausole del contratto quadro da parte del consumatore-investitore – 6. Conclusioni
1. Introduzione
Il tema dell’abuso del diritto si sviluppa come un argomento complesso, tanto in termini di collocazione sistematica, quanto per ciò che concerne la compatibilità con i diritti di autonomia privata e di difesa delle proprie posizioni giuridiche, rispettivamente consacrati negli artt.41 e 24 Cost.
Dinnanzi a tale questione è opportuno comprendere come sia concepibile che l’esercizio di un proprio diritto possa assumere un carattere “abusivo”, tanto da giustificare, quale sanzione, il rifiuto di tutela da parte dell’ordinamento.
Il concetto di rifiuto contrassegna, invero, un insanabile contrasto sia con l’iniziativa economica privata che con la possibilità di agire in giudizio a tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
È evidente che al cuore della tematica, di forte impatto giurisprudenziale, si pone la ricerca di un giusto equilibrio tra due valori inderogabili di civiltà: il diritto all’azione giudiziaria da un lato e il principio di solidarietà e correttezza ex art.2 Cost. dall’altro.
A quest’ultimo principio si ispira, in particolare, l’altrettanto cogente clausola generale della buona fede oggettiva nei rapporti interprivati, in forza della quale ogni soggetto, lungi dal poter perseguire scopi meramente egoistici, deve agire e comportarsi nel rispetto e a tutela degli interessi della controparte.
Ciò che il sistema intende reprimere è quindi l’azione egoistica, violativa della buona fede, che viene qualificata in termini di “abuso”, ovvero uso distorto o difforme degli strumenti giuridici messi a disposizione dall’ordinamento, ognuno dei quali è connotato da propri limiti modali e funzionali.
In quest’ottica il divieto di abuso, nelle sue varie manifestazioni normative, è un limite all’esercizio del diritto e può essere visto come il punto di incontro tra i due poli opposti dell’autonomia privata e della solidarietà dell’agire umano, poiché grazie ad esso l’ordinamento censura un intento deviante rispetto al modello costituzionale, se non addirittura disturbante.
Questa deviazione preclude all’agente la tutela voluta, l’azione dolosa cagionando al terzo un sacrificio sproporzionato rispetto all’interesse perseguito, tanto da giustificare la presenza di meccanismi sanzionatori ad hoc e di rimedi processuali di antica origine, quali l’exceptio doli generalis.
2. Nozione e ricostruzione dell’ “abuso del diritto”
Allo scopo di far luce sul “rifiuto di tutela” per mezzo dell’exceptio doli, si rende opportuno esaminare il concetto di abuso del diritto nei suoi caratteri essenziali.
In primo luogo, come già accennato, l’abuso del diritto può essere definito come l’utilizzo distorto di una posizione giuridica sostanziale o di uno strumento processuale, il cui titolare è mosso da un intento scorretto, fraudolento o capriccioso e quindi eccessivamente lesivo dell’altrui interesse.
Sebbene l’ “abuso” trovi la sua origine nella Rivoluzione francese con la diffusione di forme d’ esercizio abusivo della proprietà privata da parte di una borghesia sempre più liberale, nel sistema giuridico italiano esso tarda ad affermarsi per molti decenni.
Nemmeno l’avvento del Codice del 1942 costituisce l’occasione di una sua espressa positivizzazione, ancorché l’idea d’abuso fosse già viva nell’intenzione del legislatore che, nell’art.7 del Progetto di codice, ritenne opportuno sancire il divieto di esercizio del diritto in contrasto con scopo per il quale era stato riconosciuto.
Nella redazione definitiva, il legislatore si volle però astenere dal dettare una norma definitoria di carattere generale, in favore di una collocazione del concetto frammentaria e settoriale, ove l’abuso viene richiamato da norme diverse, ma accomunate dalla medesima ratio ispiratrice.
La ragione della scelta, avallata per lungo tempo dalla giurisprudenza, può essere individuata tanto nell’essenza del principio ispirato a un dovere di correttezza meramente etica, quanto nella difficoltà di delinearne con precisione i margini d’applicazione, così rendendo potenziale il rischio di un uso arbitrario e prevaricante in sede processuale.
In tale assetto ideologico, il concetto di abuso è dunque rimasto per lungo tempo confinato in una dimensione etico-morale, priva di rilievo in materia di responsabilità.
Non va tuttavia tralasciato che in ambito comunitario “l’abuso di posizione dominante” ha trovato la propria collocazione generale, in forza dell’art.54 CDFUE e dell’art.102 TFUE.
Nonostante la ratio del divieto costituisca l’essenza di numerose norme nazionali che ne recepiscono l’essenza, nessuna di esse può considerarsi il referente generale dell’abuso così come inteso nel progetto di codice, a causa del loro eccessivo carattere specialistico.
Da ciò si evince la difficoltà per l’interprete di ricostruire l’istituto in termini positivi, a meno che non si faccia richiamo ad un’interpretazione “costituzionalmente orientata” che esula dalla base scritta e di cui si dirà poc’anzi.
Si guardi ad esempio l’art.833 c.c. in materia di atti emulativi, norma che per lungo tempo è stata concepita come l’esempio positivo del divieto di abuso da parte del legislatore.
L’art.833 c.c., incidendo sul diritto di proprietà, sancisce il divieto da parte del proprietario di compiere atti privi di qualsivoglia utilità, esclusivamente finalizzati ad arrecare molestia a terzi, ovvero mossi da un proprio intento capriccioso.
L’istituto, sorretto dall’elemento soggettivo dell’animus nocendi del proprietario, pone quindi un limite all’esercizio “pieno ed esclusivo” del diritto di proprietà, in tutti i casi in cui l’agere non sia accompagnato da un intento utilitaristico, anche minimale.
Al tempo stesso l’estrema settorialità della norma non consente di generalizzare l’istituto all’intero ordinamento, a causa dell’ambito esasperatamente specialistico in cui si colloca, quale quello della proprietà fondiaria.
Nonostante l’impossibilità oggettiva di individuare un referente generale, l’opera ermeneutica è stata in grado di cogliere dei tratti comuni che ben delineano i tratti essenziali della figura.
Sicuramente l’abuso si afferma laddove il titolare (e solo il titolare) del diritto si trovi dinnanzi a una pluralità di alternative rimediali in suo favore, ma di queste sceglie quella più riprovevole.
Nel perseguire questa strada, il soggetto che abusa del proprio diritto, non solo è forte di una posizione asimmetrica rispetto alla controparte, ma compie una ponderazione d’interessi nettamente in proprio vantaggio e in pregiudizio del partner contrattuale.
Rievocando la fattispecie degli atti emulativi, ad esempio, l’interesse che il titolare del diritto fa prevalere sull’interesse contrapposto, non è nemmeno qualificabile come tale, costituendo, al più ,una forma di insensato capriccio personale.
Accanto a questi elementi comuni, il punctum dolens della questione è però rappresentato dal fatto che l’abuso può estrinsecarsi anche attraverso l’autonomia negoziale: in tale settore l’inibizione all’esercizio del diritto appare se non impossibile quantomeno illogica, tanto più in ragione del fatto che il legislatore non prevede un rimedio che paralizzi il comportamento scorretto.
Appare difficile ammettere che l’autonomia negoziale, sulla quale a stento l’ordinamento si impone di intervenire, possa essere sindacata dal punto di vista comportamentale e cioè attraverso un controllo che consentirebbe al giudice di interferire sulla libertà negoziale, peraltro consacrata nell’art.41 Cost.
Ciò fa sì che l’indagine sul fondamento giuridico debba essere condotta alla luce della clausola generale di buona fede oggettiva, che nella sua accezione più moderna ed evoluta rappresenta lo strumento interpretativo attraverso cui l’interprete ristabilisce l’equilibrio e la proporzione nei rapporti tra privati.
Buona fede e abuso del diritto sono inscindibilmente connessi.
3. La buona fede oggettiva quale criterio fondante del divieto di abuso
La buona fede oggettiva costituisce il dovere delle parti di un rapporto obbligatorio di comportarsi con lealtà e correttezza, al fine di tutelare reciprocamente gli interessi della controparte, nei limiti del non apprezzabile sacrificio.
Essa non è consacrata nel codice mediante una norma definitoria, ma la si trova richiamata in specifiche disposizioni: nell’art.1175 c.c. in materia di obbligazioni, nell’art.1337 c.c. inerente alla correttezza nelle trattative precontrattuali e nell’art.1375 c.c. inerente all’esecuzione del contratto.
Come per l’abuso del diritto, la scarna normativa in materia e la potenziale latitudine applicativa ha indotto la giurisprudenza a farne un uso moderato, tanto che, fino agli anni ’60 la buona fede veniva concepita quale mero parametro di comportamento delle parti, come tale, inidonea ad essere fonte di responsabilità ex contractu.
Solo a partire dagli anni ’80 la buona fede inizia un percorso di valorizzazione in chiave solidaristica, quale attuazione dell’art.2 Cost. ed acquisisce la connotazione di “buona fede integrativa” dei rapporti obbligatori, idonea ad essere richiamata dal giudice per valutare la completezza dell’adempimento contrattuale.
Questa moderna posizione vede nella clausola una fonte di obblighi ulteriori rispetto a quelli di prestazione, in forza dei quali assume rilevanza la “collaborazione operosa” tra le parti e il dovere di protezione reciproca, che si estrinseca anche sotto la veste di correttezza informativa.
In tal senso, il dovere di protezione permeato dalla buona fede consente all’interprete di rivalorizzare la struttura stessa dell’obbligazione, ora concepita come un rapporto complesso ove, accanto all’obbligo primario di prestazione, gravitano una serie di obblighi ancillari che fanno capo alla protezione reciproca degli interessi.
Si badi che detta impostazione ha costituito anche il fondamento per la risarcibilità della violazione del contatto sociale qualificato.
Sulla base di questa nuova vocazione solidaristica della buona fede, il richiamo operato dagli artt.1175-1337-1375 c.c. abbandona il ruolo di parametro e assume quello integrativo del rapporto obbligatorio.
Tanto che, in fase patologica, il Giudice potrà usufruire della clausola integrativa onde valutare la sussistenza di un inadempimento, ben oltre la corretta esecuzione della prestazione in quanto tale.
In quest’ottica la clausola assume il ruolo di “limite interno” al rapporto tra le parti, la cui violazione può esser fonte di responsabilità ex contatto ai sensi dell’ art.1218 c.c.
Se è dunque vero che il concetto di lealtà e correttezza si pone in antitesi rispetto a quello di malafede, ecco quindi che l’uso distorto/scorretto di uno strumento approntato dall’ordinamento si atteggerà come abuso.
Un primo esempio può rinvenirsi l’uso scorretto del diritto di recesso, qualora venga esercitato da un soggetto “forte” al solo scopo di preservare il proprio interesse, eccedendo il limite del “non apprezzabile sacrificio” per la parte “debole”.
In definitiva, l’abuso è una modalità con cui il soggetto viola la clausola di buona fede, potendo detta violazione essere sia funzionale che modale.
Nel primo caso avremmo un abuso finalizzato a trarre vantaggio o conseguire un’utilità, mentre nel secondo caso esso arrecherà ad altri un sacrificio eccessivo e sproporzionato.
Tanto sin qui esposto, si è reso necessario a chiarire il fondamento normativo che ha condotto all’affermazione dell’abuso in termini di principio generale che, in conformità all’art.12 delle preleggi, consente al giudice di risolvere la controversia anche in assenza di una disposizione positiva.
A tali conclusioni è pervenuta la lapidaria giurisprudenza nei noti casi Fiuggi e Renault (Cass.civ. sez.I, n.3775/1994 e Cass.civ.sez.III, n.20106/2009) che, facendo leva su una tale qualificazione di abuso, ha ritenuto che l’esercizio del diritto da parte del suo titolare non è pieno e esclusivo ma gravato da un limite interno, esistente nel rispetto solidaristico dell’interesse contrapposto.
La risposta sanzionatoria all’abuso troverà così il suo naturale approdo nel rifiuto di tutela, per il tramite di quell’istituto non consacrato c.d. exceptio doli generalis.
4. Il rimedio: l’exceptio doli generalis
Dinnanzi a alla necessità di impedire che un soggetto in mala fede possa trarre un indebito vantaggio dal proprio comportamento fraudolento, o possa venire contra factum proprium, la prassi giurisprudenziale ha progressivamente consentito alla parte lesa di appellarsi all’eccezione di dolo.
In tale facoltà risiede la dialettica tra il diritto d’azionare le proprie pretese legittime e il principio di solidarietà nei rapporti tra privati, dovendosi ammettere una retrocessione del primo in favore del secondo quante volte il vantaggio, formalmente legittimo, sia mosso da un animo doloso.
Ebbene, affinché si potesse realizzare ciò, il codice ha previsto rimedi ad hoc, ispirati all’eccezione di dolo.
Si guardi in primo luogo all’art. 1227 c.c. il quale limita il risarcimento in ragione dell’entità del concorso di colpa del creditore nel verificarsi del danno, ovvero all’impossibilità di annullare il contratto quando il minore abbia usato artifizi o raggiri per occultare la minore età ai sensi dell’art.1426 c.c.
Si guardi ancora agli artt.128-129-129 bis c.c. in materia di matrimonio putativo, ove si prescrive che, qualora uno dei coniugi ha contratto matrimonio in buona fede, gli effetti del matrimonio valido continuano a prodursi per lui fino alla sentenza che ne dichiara la nullità. In tal senso il coniuge in mala fede può bensì ottenere la nullità del matrimonio, dovendo però soggiacere alle conseguenze, anche patrimoniali, del proprio comportamento.
Altro caso è quello contemplato dall’art.1207 c.c. in materia di mora credendi, il quale rende inesigibile il credito da parte del creditore che ha ritardato l’esecuzione, con connesso effetto liberatorio per il debitore.
Ancora si veda la compensazione del credito, in uno all’eccezione di compensazione ex art.1241 c.c. e 36 c.p.c., strumento, questo, idoneo a rendere il credito inesigibile, oppure, all’ipotesi di doppia alienazione immobiliare con malafede del secondo acquirente che ha trascritto per primo. In quest’ultima ipotesi, ferma la prevalenza dell’acquisto, si determina una responsabilità aquiliana in solido tra il terzo avente causa e l’alienante nei confronti del primo acquirente.
A ben vedere le prescrizioni del codice consentono di reagire all’abuso mediante strumenti differentemente orientati che negano la naturale tutela del diritto: riduzione del risarcimento, validità del contratto annullabile, perpetrazione degli effetti del matrimonio putativo, risarcimento ex art.2043 nel caso di doppia alienazione ed altri.
Pur tuttavia, l’importanza dell’interesse sotteso al rifiuto di tutela ha indotto la giurisprudenza ad ampliare le proprie prospettive, ammettendo l’esperibilità dell’eccezione di dolo anche al di fuori dei casi normati.
Ciò si è ottenuto elevando l’eccezione a principio generale dell’ordinamento che, ai sensi dell’art.12 disp.att. consente di integrare le fattispecie di dubbia risoluzione.
L’exceptio doli generalis, la quale va distinta dall’exceptio doli specialis relativa al dolo incidentale in fase genetica del rapporto, si manifesta come un rimedio processuale ancora impregnato della sua originaria connotazione romanistica: la parte, in via d’eccezione, chiede al giudice di impedire l’azionabilità di un diritto legittimo, ma illegittimamente perseguito.
In un’ottica kelseniana il rapporto che si viene a delineare può essere così strutturato: la buona fede rappresenta il precetto, l’abuso del diritto il fatto, l’eccezione di dolo (o rimedi similari) l’effetto.
La valorizzazione del principio ha trovato conferma in numerosi casi, successivi alle già citate sentenze Fiuggi e Renault, ad esempio in materia societaria.
L’art.2367 c.c. investe i soci del potere di convocare l’assemblea, il che costituisce un diritto connesso al possesso delle azioni. Tuttavia, il potere di convocazione è stato ritenuto contrario a buona fede ogni qual volta posto in essere dalla maggioranza in danno della minoranza e per mero interesse personale, o dalla minoranza al solo fine di recare ostruzionismo.
L’eccezione di dolo si è invocata anche nella prassi atipica del sale and lease back, ovvero quei contratti di locazione finanziaria che, pur non atteggiandosi astrattamente come contratti in frode al divieto di patto commissorio, sottendono la violazione degli obblighi informativi da parte del locatore, ponendo il conduttore in posizione pregiudizievole.
5. Due casi specifici di abuso del diritto: clausole di claims made basis e nullità selettiva delle clausole del contratto quadro da parte del consumatore-investitore
E’ possibile ora analizzare come operi l’exceptio doli sia in materia assicurativa, con riferimento al contratto d’assicurazione stipulato con clausola di claims made basis, che nel caso in cui l’investitore opzionalmente chieda la nullità solo di alcuni ordini di acquisto aventi come fonte un contratto quadro nullo per difetto di forma.
Nel primo caso si osserva che la “claims made” costituisce quella clausola con cui le parti, derogando all’art.1917 c.c. stabiliscono che l’effettività della copertura assicurativa si ha solo se la richiesta di risarcimento da parte del danneggiato avverrà durante la vigenza della copertura assicurativa stessa, non più coincidendo la copertura con il momento effettivo del danno.
Al dilà della qualificazione giurisprudenziale delle claims made in termini di clausole astrattamente legittime che partecipano alla struttura dell’assicurazione da responsabilità civile, è importante ai nostri fini evidenziare che il Supremo Consesso intervenuto sul punto, tra i vari rimedi riconosciuti all’assicurato avverso l’eventuale vessatorietà della clausola, ne ha individuato uno che partecipa della natura abusiva e può essere paralizzato con l’exceptio doli: il recesso abusivo da parte dell’assicuratore nell’eventualità di denuncia di sinistro.
Nel secondo caso, invece, il quesito concerne la possibilità per l’intermediario finanziario di sollevare l’eccezione di dolo dinnanzi ad un uso selettivo della nullità da parte dell’investitore.
Ci si trova dinnanzi a una serie di investimenti effettuati dall’investitore per il tramite, dell’intermediario finanziario, in virtù delle disposizioni previste da un contratto quadro per il quale è richiesta la forma scritta ad substantiam, anche con riguardo alla sottoscrizione.
Le Sezione Unite con sent. 4 novembre 2019, n.28314, si sono trovate a comporre la vexata quaestio avente il seguente oggetto: se, a fronte dell’accertamento e dichiarazione di nullità di un contratto quadro per mancanza della forma scritta, l’investitore possa esperire una nullità selettiva e dunque far salvi solo gli investimenti vantaggiosi, ovvero se detta nullità travolga ogni tipo di investimento con annessa restituzione reciproca degli indebiti.
La Suprema Corte ha statuito nel senso di aderire ad una soluzione che ricostruisce il focus della questione, ovvero l’istituto delle nullità di protezione contemplate dall’art.36 D.Lgs.205/2006, alla luce del principio di buona fede oggettiva e correttezza.
Ciò allo scopo di porre un freno ad un uso indiscriminato dell’istituto da parte del suo beneficiario, che si ponga in contrasto con un interesse altrettanto elevato, quale quello della solidarietà.
In applicazione dell’art.23 TUF si afferma che la nullità del contratto quadro, dovuta al mancato rilascio della copia all’investitore, costituisca un vizio di forma ad aubstantiam per violazione del principio di trasparenza, idoneo a far decadere gli investimenti susseguenti.
Ciò non di meno, tale prerogativa accordata al consumatore in ossequio al suo interesse privilegiato, non gli consente di usufruire in maniera abusiva della nullità selettiva, che seppur ammessa dalle Sezioni Unite, non deve costituire uno mero strumento emulativo, il cui unico scopo sia quello di arrecare nocumento al intermediario finanziario.
Detto altrimenti, la nullità selettiva degli investimenti derivanti da un contratto quadro nullo è esperibile dal consumatore, quante volte questo atteggiamento non sia contrario a buona fede e sia volto a recuperare investimenti svantaggiosi o sconvenienti tenuto conto del quadro complessivo dell’operazione.
Il Giudice sarà dunque tenuto ad accertare l’atteggiamento doloso del consumatore che, nonostante abbia realizzato un’operazione complessivamente vantaggiosa, si sia determinato ad arrecare il pregiudizio. In questo caso verrebbe in soccorso l’exceptio doli generalis in favore dell’intermediario, il quale ben potrà paralizzare la pretesa attorea.
Dovendosi ritenere che, ai sensi dell’art.36 Cod.Cons., l’azione di nullità consumeristica abbia una connotazione relativa, di essa non potrà mai avvalersi l’intermediario al fine di agire per la ripetizione dell’indebito ex art.2033 c.c., dovendo piuttosto valutare se ricorrano gli estremi dell’inibizione.
6. Conclusioni
L’autonomia privata e il diritto ad una tutela piena ed effettiva, pur essendo precetti consolidati nel tessuto costituzionale, soffrono un’importante limitazione, dovuta al favore accordato dall’ordinamento al principio di solidarietà di cui all’art.2 cost.
Tale limitazione si concretizza nella clausola integrativa della buona fede oggettiva, che investe, non solo la materia dei contratti, ma qualsiasi forma di rapporto intersoggettivo improntato al reciproco rispetto.
Essa impone una leale e fiduciosa cooperazione, secondo cui ogni parte deve agire e comportarsi a tutela e nell’interesse della controparte; come tale, il precetto de quo entra a far parte della trama di ogni regolamento d’interessi.
Essendo una clausola integrativa, ma non attizia, la sua violazione è cagione di responsabilità ex art.1218 c.c. e, in alcuni casi, si atteggia come una forma di abuso del diritto, tanto che quest’ultimo è generalmente ritenuto un elemento indiziario della violazione della buona fede.
L’abuso del diritto, inteso come uso distorto/fraudolento dello strumento giuridico deve essere concepito come un principio generale che trae legittimazione direttamente dalla buona fede e quindi dalla solidarietà.
L’effetto dell’abuso è il rifiuto di tutela, che si esplica o secondo i rimedi tipizzati dall’ordinamento, o per il tramite del rimedio processuale di antichi natali definito exceptio doli generalis, con cui il convenuto può paralizzare la pretesa legittima ma fraudolenta della controparte.
Per questa sua peculiarità l’eccezione ha acquisito nell’ordinamento il rango di principio generale ed è così divenuta suscettibile d’essere applicata tutte le volte in cui non sia la legge ad impedire che un soggetto possa trarre vantaggio da un agire scorretto e sleale.
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Angela Marinangeli
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