Il riparto di competenze tra l’AGCM e l’AGCOM sulle pratiche commerciali scorrette: dalla “specialità per settori” alla “incompatibilità”
Con sentenza n. 7296 (sez. VI, 25/10/2019), il Consiglio di Stato è tornato a pronunciarsi su una questione controversa, legata all’individuazione dell’Autorità indipendente deputata a irrogare sanzioni in relazione a pratiche commerciali scorrette commesse dagli operatori del settore delle comunicazioni elettroniche. Nel caso sottoposto all’attenzione dei giudici, la condotta sanzionata concerneva la commercializzazione, da parte di una nota compagnia telefonica, di talune schede “sim” sulle quali erano stati preimpostati servizi di navigazione internet e di segreteria telefonica, i cui relativi costi venivano addebitati automaticamente agli utenti laddove non disattivati su espressa richiesta di costoro e senza che della “preimpostazione” di tali servizi e della loro connessa onerosità ne fosse stata data notizia. Riconosciuta la natura di pratica commerciale “aggressiva” di tale condotta ex artt. 24, 25 e 26 lettera f) del Codice del Consumo, l’Autorità garante per la concorrenza e per il mercato provvedeva a comminare una sanzione pecuniaria alla Società telefonica, la quale, tuttavia, impugnava siffatto provvedimento dinanzi al Tar Lazio, che accoglieva il ricorso. Quest’ultimo, difatti, richiamandosi a principi espressi da precedenti Adunanze Plenarie del Consiglio di Stato risalenti al 2012 e al 2016, perveniva alla conclusione che dovesse trovare applicazione la normativa speciale del settore delle comunicazioni elettroniche con conseguente competenza dell’Autorità di garanzia per le comunicazioni. Dall’appello proposto dall’Autorità garante per la concorrenza e il mercato origina invece la sentenza in commento, nella quale i giudici ritengono di poter dirimere il conflitto facendo uso del criterio di incompatibilità, abbandonando i criteri di origine penalistica di specialità o di assorbimento profilati dalle Plenarie del 2012 e del 2016. Si afferma in maniera netta, dunque, la competenza esclusiva dell’Autorità garante per la concorrenza e per il mercato( d’ora in poi anche Agcm o Antitrust), limitando la competenza dell’Autorità di garanzia per le comunicazioni a quelle ipotesi nelle quali le norme di regolazione dettino profili di disciplina incompatibili con quelli delineati dalle norme generali in materia di pratiche commerciali scorrette.
Orbene, svolta questa premessa introduttiva sui fatti di causa e ai fini di una migliore comprensione della conclusione raggiunta, è utile effettuare una breve ricognizione sia della normativa generale sulle pratiche commerciali scorrette, sia delle disposizioni particolari in tema di comunicazioni elettroniche; si passerà poi, in seconda battuta, all’esame dell’evoluzione giurisprudenziale nazionale ed europea sul tema del riparto di competenze tra Autorità indipendenti.
Il “public enforcement” in materia di pratiche commerciali scorrette è saldamente presidiato dall’Autorità garante per la concorrenza e il mercato: il suo intervento si giustifica alla luce della trasversalità del settore, dacché il riequilibrio del mercato giova anche al singolo rapporto di consumo esplicando effetti benefici tanto a livello macroeconomico quanto microeconomico. La disciplina generale di tali pratiche affonda le sue radici nella direttiva 2005/29/ CE, attuata, sul piano interno, dagli artt. 18-27 quater del Codice del consumo (D.lgs. 206/2005). Sotto il profilo soggettivo, la normativa vale per le pratiche commerciali scorrette tra professionista e consumatore: quest’ultimo è individuato nella persona fisica che “agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale”(art. 18 co.1 lett.a). La disciplina si applica inoltre alle cc.dd. “microimprese”, per la cui definizione si rimanda all’art. 18 co. 1 lett. d). Risulta piuttosto pacifica la finalità della normativa: l’obiettivo è quello di tutelare il contraente debole, sopperendo all’asimmetria informativa che fisiologicamente connota il rapporto con la controparte. Dal punto di vista oggettivo, invece, l’art. 20 delinea il concetto di “scorrettezza”, precisando che una pratica commerciale merita simile qualificazione allorché ricorrano due condizioni: la contrarietà della medesima “alla diligenza professionale nonché la sua attitudine a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta ad un determinato gruppo di consumatori”. Il richiamo alla diligenza professionale allude alla nozione di buona fede oggettiva, regola di condotta al quale la parte forte del rapporto, ossia il professionista o l’imprenditore, è tenuto a conformarsi. L’incidenza della pratica commerciale sul “consumatore medio” sottende invece un riferimento all’attività e non all’atto negoziale in quanto tale: postula, in sostanza, un comportamento dalla valenza generale, in grado di esplicare i suoi effetti sulla categoria di consumatori che si muove in un determinato settore. Su quest’ultimo punto, è il caso di precisare come la Corte di Giustizia abbia assunto un atteggiamento critico, osservando che, ai fini dell’operatività della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette, sia del tutto irrilevante che la condotta sia stata tenuta dal professionista una sola volta o abbia pregiudicato un solo consumatore, in quanto dalla direttiva del 2005 non si evince che la stessa debba presentare necessariamente carattere reiterato o che debba danneggiare più di un singolo consumatore. Parte della dottrina ha tuttavia obiettato che, così opinando, si finirebbe per frustrare la norma “de minimis” contenuta nella predetta direttiva, alla cui stregua si richiede che la pratica esplichi un certo effetto di rilevanza macroeconomica.
Tornando ora all’ambito oggettivo della disciplina, giova precisare che il Codice del consumo distingue le pratiche “ingannevoli” da quelle “aggressive”, offrendo per ciascuna di esse un’esemplificazione di tipo casistico: quella ingannevole è la pratica “che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”(art. 21); è considerata invece aggressiva, ai sensi dell’art. 24, quella pratica che “nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento, limita o è idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induce o è idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.” Provvedendo ad un’esemplificazione casistica, il legislatore ha cercato di effettuare una “tipizzazione” normativa del dovere di correttezza professionale, senza tuttavia descrivere in maniera precisa i comportamenti: sarà solo l’accertamento amministrativo o giudiziale a completare concretamente questa opera di “tipizzazione”. Sotto il profilo rimediale, statuisce l’art. 27 co. 9 che, mediante il provvedimento che vieta la pratica commerciale scorretta, l’Agcm dispone inoltre l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, ricompresa tra un minimo e un massimo, che sarà irrogata tenendo conto altresì della gravità nonché della durata della violazione. È opportuno precisare che ad avviso della sentenza in commento, la suddetta sanzione, stante il distinguo tra sanzioni amministrative afflittive e sanzioni amministrative ripristinatorie, ben può essere ricompresa nella prima categoria, presentando natura formalmente amministrativa ma sostanzialmente penale alla luce dei rinomati “criteri di Engel”[1] elaborati dalla Corte Edu: ne deriva pertanto, l’operatività di un preciso paradigma normativo fondato su garanzie di carattere sostanziale e processuale delineate dalle disposizioni della Cedu[2].
Svolto l’inquadramento della normativa di carattere generale, è necessario evidenziare i tratti essenziali della normativa sulle comunicazione elettroniche. Anch’essa rinviene il suo fondamento a livello europeo, in una serie di direttive risalenti al 2002, attuate sul piano nazionale dal D. Lgs. n. 259 del 2003. Precipuo obiettivo di tale disciplina, come non manca di ricordare il Consiglio di Stato, consiste nel perseguimento della c.d. “concorrenza nel mercato”, a mezzo di una graduale liberalizzazione del settore, di guisa da garantire la massima partecipazione possibile degli operatori. Il legislatore è conseguentemente intervenuto esplicando funzioni di regolazione a mezzo di norme imperative o mediante un’Autorità apposita, ossia l’Autorità garante per le comunicazioni (legge n. 249 del 1997).
Anche in questo ambito è possibile distinguere un profilo soggettivo e un profilo oggettivo: quanto al primo, la disciplina di settore si applica all’utente, ovverosia la persona fisica o giuridica che utilizza o chiede di utilizzare un servizio di comunicazione elettronica accessibile al pubblico» (art. 1, comma 1, lett. pp), il quale può essere anche «utente finale», ossia l’utente «che non fornisce reti pubbliche di comunicazione o servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico» (art. 1, comma 1, lett. qq). Il D. lgs. n. 259 del 2003 offre inoltre una più ristretta nozione di consumatore, definendolo come «l’utente finale, la persona fisica che utilizza o che chiede di utilizzare un servizio di comunicazione elettronica accessibile al pubblico per scopi non riferibili all’attività lavorativa, commerciale o professionale svolta» (art. 1, comma a, lett. j). L’ambito oggettivo allude invece alle “reti” nonché ai “servizi” di comunicazione elettronica. Anche in questo settore specifico, la finalità, condivisa del resto con la generale normativa del Codice del consumo, risulta prettamente protezionistica: si intende difatti tutelare la parte debole del rapporto, dinanzi ad uno squilibrio di carattere informativo. Oltre allo stesso legislatore, è la stessa Autorità di settore a svolgere importanti funzioni di regolazione, dettando norme che entrano direttamente a far parte del contratto, aggiungendosi alle prescrizioni legali. Sia che tali regole promanino direttamente dal legislatore, sia che promanino dall’Autorità garante per le comunicazioni in funzione di regolazione, si assiste ancora una volta, ad una tipizzazione di carattere generale del dovere di buona fede oggettiva, essendo i comportamenti delineati in termini generici e non precisi: pertanto, solo nella fase dell’accertamento amministrativo e giudiziale si porterà a compimento siffatto processo. Giova infine ricordare che, analogamente all’Autorità garante per la concorrenza e per il mercato, anche l’Autorità di garanzia per le comunicazioni può emanare sanzioni amministrative pecuniarie (cfr. art. 98 d.lgs. n. 259 del 2003) a fronte di riscontrate violazioni. [3]
Ed è proprio a questo punto che si pone il problema di individuare i pertinenti ambiti di competenza tra L’Autorità generale preposta alla tutela del concorrenza e del mercato, deputata ad esplicare essenzialmente funzioni di vigilanza e l’Autorità di settore, nella specie quella garante per le comunicazioni, preposta, oltre alla vigilanza, allo svolgimento di attività di regolazione. Sul punto la norma cardine è rappresentata dall’art. 19 co. 3 del Codice del Consumo, il quale dispone testualmente che “in caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano effetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici”. Della predetta norma sono state date molteplici interpretazioni ricostruite puntualmente dalla recente sentenza del Consiglio di Stato. Per comodità espositiva, è possibile scandire l’excursus giurisprudenziale in tre fasi: in una prima fase, coincidente con le sentenze dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nn. 11-13 e nn. 15-16 del 2012, il Supremo consesso della giustizia amministrativa ha ritenuto che il termine “contrasto” figurante in tale disposizione dovesse essere inteso non come situazione di antinomia normativa, bensì più semplicemente come diversità di disciplina. Corollario di un simile ragionamento è dunque l’applicazione del principio di specialità ex art. 15 c.p., alla cui stregua “quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”. Orbene nel diritto penale, tale criterio serve a tracciare l’annosa linea di confine tra il concorso apparente di norme e il concorso di reati e, secondo la maggioritaria impostazione “monista”, è il solo ed unico criterio suscettibile di poter essere utilizzato a tale scopo.
Esso presuppone, a livello operativo, un raffronto strutturale tra le fattispecie di reato secondo uno schema di natura logico-formale: la norma speciale contiene tutti gli elementi di quella generale, con in più taluni elementi detti “specializzanti”, i quali possono declinarsi in aggiunta o in specificazione.
La Plenaria del 2012 ha ritenuto di poter fare applicazione proprio di questo principio nell’interpretazione della disposizione: è pertanto applicabile la disciplina delle comunicazioni elettroniche in quanto normativa “speciale” rispetto a quella “generale” di regolazione delle pratiche commerciali scorrette. La peculiarità, dovuta evidentemente alla necessità di adattare siffatto criterio in un ambito ove le condotte non sono rigorosamente tipizzate come invece accade in campo penale, risiede nel fatto che la comparazione non è stata effettuata tra le fattispecie astratte bensì tra “settori”, ossia quello generale delle pratiche commerciali scorrette e quello particolare delle comunicazioni elettroniche. La normativa di settore, purché “esaustiva e completa”, è in grado dunque di precludere l’intervento dell’Autorità indipendente generale, essendo la disciplina generale sulle pratiche scorrette destinata ad operare solo laddove non siano disciplinati “aspetti specifici” delle suddette.
All’esito delle suddette pronunce e della conseguente apertura di una procedura di infrazione contro l’Italia da parte della Commissione Europea, è individuabile una seconda fase, coincidente con una rilevante modifica normativa e con un’ulteriore pronuncia nomofilattica del Consiglio di Stato. Invero, l’introduzione nel corpus dell’art. 27 Cod. Consumo del comma 1 bis ad opera del D.Lgs. n. 21 del 2014 ha comportato che “anche nei settori regolati, ai sensi dell’articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente, spetta, in via esclusiva, all’Autorità garante della concorrenza e del mercato che la esercita in base ai poteri di cui al presente articolo, acquisito il parere dell’Autorità di regolazione competente; resta ferma la competenza delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta; le Autorità possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze.” In ragione dell’apertura della procedura di infrazione e del consequenziale intervento normativo teso ad ovviarvi, si è resa necessaria un’ulteriore sentenza dell’Adunanza Plenaria (n. 3 del 2016), che ha segnato il passaggio dal criterio della “specialità per settori” a quello della “specialità per fattispecie”. Impiegando ancora una volta concetti squisitamente penalistici, tale pronuncia ha fatto ricorso al criterio di assorbimento o consunzione, avversato dai seguaci della prevalente impostazione monista ma sostenuto dalle tesi di stampo “pluralistico”: i fautori delle stesse, invero, ritengono di poter risolvere i casi di concorso apparente servendosi di ulteriori criteri oltre a quello di specialità, criteri che, ancorché non codificati, rispondono a logiche di equità e di giustizia sostanziale. Ricordando il meccanismo operativo del principio, id est l’assorbimento della fattispecie che esprime il minor disvalore nell’alveo della fattispecie maggiormente “ricomprensiva” secondo una logica di progressione criminosa, la Plenaria del 2016 ha ritenuto di poter risolvere il caso concreto sottopostole, (consistente in una pratica commerciale aggressiva attuata tramite la violazione di obblighi informativi da parte di un operatore di telefonia mobile), applicando il criterio della “specialità per fattispecie”, risolvendo, dunque, il conflitto in favore dell’operatività della normativa sulle pratiche commerciali scorrette; difatti, nell’ottica del Supremo Consesso, “la condotta astrattamente illecita secondo il corpus normativo presidiato dall’Autorità garante per le comunicazioni è elemento costitutivo di un più grave e più ampio illecito anticoncorrenziale vietato secondo la normativa di settore presidiata dall’Autorità Antitrust”, sicché si realizza una progressione criminosa tale da determinare l’assorbimento di una fattispecie concreta nell’altra. Se, quindi, la Plenaria del 2012 interpreta la locuzione “aspetti specifici” in chiave settoriale, la Plenaria del 2016 ragiona in termini di fattispecie concreta.
Si giunge così alla terza fase, con una pronuncia della Corte di Giustizia del 2018 (sentenza n. 54), nella quale il Giudice sovranazionale osserva come il termine “contrasto” rimandi ad una situazione di vera e propria incompatibilità normativa: il contrasto sussiste qualora disposizioni aliene alla direttiva 2005/29 disciplinino “aspetti specifici” delle pratiche commerciali scorrette, imponendo ai professionisti degli obblighi contrastanti con la predetta direttiva. Solo a tali condizioni, perciò, si potranno prefigurare margini operativi per le Autorità di settore: al di fuori dell’incompatibilità, il loro intervento è precluso da quello dell’Autorità garante per la concorrenza e per il mercato. È sulla scia delle riflessioni del Giudice europeo che si inserisce, allora, la sentenza del Consiglio di Stato n. 7296 del 2019, con la quale si propende per il definitivo abbandono dei criteri di specialità e di assorbimento, reputati poco consoni a dirimere il problema del riparto di competenze tra Autorità indipendenti nel campo delle pratiche commerciali scorrette, mal adattandosi alle regole di condotta che vengono in rilievo in subiecta materia.
Ed invero, quest’ultime, come dapprima evidenziato, si traducono in declinazioni generali del principio di buona fede oggettiva la cui tipizzazione è rimandata necessariamente alla fase dell’accertamento amministrativo e giudiziale: ne deriva che non si prestano ad una comparazione strutturale tra le fattispecie astratte. Non giova pertanto il criterio di specialità, il quale postula un raffronto tra fattispecie astratte che presentano aspetti in parte comune e in parte differenti; tuttavia, è di scarsa utilità pratica anche il criterio di assorbimento che esige un raffronto tra le fattispecie concrete. Gli “aspetti specifici” cui allude l’art. 19 co. 3 impongono essenzialmente un confronto tra le singole norme generali e quelle di settore, di guisa che quest’ultime potranno trovare applicazione solo ove presentino profili di disciplina incompatibili con quelli generali di disciplina delle pratiche commerciali scorrette. In pratica deve venire in rilievo proprio una divergenza di contenuti, tale da non consentire nemmeno un’astratta coesistenza delle normative. La regola di base, allora, vuole che la competenza, in caso di pratiche commerciali scorrette, spetti esclusivamente all’Antitrust, residuando quella delle altre Autorità solo in quei casi in cui le normative di settore intervengano su “aspetti specifici” delle pratiche in una maniera tale da rendere le due discipline incompatibili.
All’esito della sommaria ricognizione svolta, non si può che accogliere con favore la soluzione accolta dalla sentenza n. 7296 del 2019, la quale, oltre ad allinearsi agli orientamenti della giurisprudenza europea, risulta vieppiù aderente al dato normativo, in particolare alla lettera dell’art. 19 co.3 e dell’aggiunto comma 1 bis dell’art. 27 Cod. consumo. Il criterio dell’incompatibilità delle norme, peraltro, consente di evitare tutte le annose questioni correlate al concorso di norme, prima fra tutte il ne bis in idem. È chiaro infatti che se vi è incompatibilità manca “un medesimo fatto” sul quale si possa appuntare il rischio di una sovrapposizione di procedimenti da parte delle Autorità indipendenti. Ed invero, in questo caso non ci si trova dinanzi a pratiche commerciali scorrette, bensì di fronte a una disciplina che si pone in antitesi rispetto a quella generale: ciò giustifica l’intervento dell’Autorità di settore.
Viceversa, laddove non vi è incompatibilità, significa che vengono in rilievo pratiche commerciali scorrette, suscettibili di essere sanzionate solo ed esclusivamente dall’Autorità garante per la concorrenza e per il mercato. Ragion per cui, se per ipotesi l’Autorità di settore dovesse comminare una sanzione per una condotta che è stata già censurata dall’Antitrust, tale sanzione sarebbe senza dubbio illegittima, dacché l’Autorità di settore non era competente ad intervenire. Ancora una volta, però, il ne bis in idem non avrebbe bisogno di essere scomodato vertendosi al di fuori del concorso di norme.
[1] Tali criteri sono: a) la qualificazione giuridica dell’illecito; b) la natura dell’illecito; c) il grado di severità della sanzione (Corte Edu “Engel e altri c. Paesi Bassi” 1976)
[2] La qualificazione di una sanzione in senso sostanzialmente penale implica dunque uno statuto normativo ben preciso: il rispetto innanzitutto della legalità costituzionale e convenzionale con i suoi corollari di tassatività- determinatezza (o accessibilità- prevedibilità secondo il linguaggio europeo), irretroattività della legge sanzionatoria sfavorevole (contra reum) e retroattività della legge sanzionatoria favorevole; il divieto del ne bis in idem. In altre parole, l’attrazione di una sanzione amministrativa nell’orbita della “materia penale”(in virtù dei menzionati criteri) postula l’operatività di una serie di garanzie convenzionali.
[3] Anche a tal proposito valgono le considerazioni sulla possibile qualificazione sostanzialmente penale delle sanzioni.
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Arianna Franceschi
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