Il risarcimento del danno non patrimoniale da illecito trattamento dei dati personali
L’Ordinanza n. 11020 del 26.4.2021 della Corte di Cassazione offre l’occasione per soffermarsi, ancora una volta, sui principali aspetti relativi all’indagine richiesta al giudice ai fini del riconoscimento del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale[1] conseguente alla violazione della normativa (comunitaria e nazionale) posta a tutela dei dati personali.
Nella sua attuale ontologia giuridica, segnata dall’art. 82 del Regolamento UE n. 2016/679 (il quale richiama, seppur con i suoi caratteri di specialità, l’art. 2043 c.c.), il danno risarcibile non si identifica con la lesione dell’interesse (anche fondamentale) tutelato dall’ordinamento, bensì con le conseguenze di tale lesione.
Infatti, il superamento della teoria del cd. “danno evento”, creata compiutamente dalla sentenza n. 184 del 1986 della Corte Costituzionale in tema di danno biologico, è il frutto di successive elaborazioni giurisprudenziali del revirement operato dalla medesima Consulta con la sentenza n. 372 del 1994, i cui esiti possono compendiarsi nelle parole della sentenza n. 26972 del 11.11.2008 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (che, unitamente alle coeve decisioni n. 26973, n. 26974 e n. 26975, ha segnato l’approdo del diritto vivente in tema di danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.), secondo cui “gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, che si ricavano dall’art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva) […] consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest’ultimo dall’ingiustizia determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo l’opinione ormai consolidata…)”[2].
Orbene, in ordine al risarcimento dei danni, si osserva che la Corte di Cassazione, all’interno della recente Ordinanza n. 112020/2021, ha avuto modo di ricordare il (consolidato) principio di diritto “secondo cui il danno non patrimoniale risarcibile, ai sensi dell’art. 15 del previgente D.Lgs. n. 196/2003 (codice della privacy), pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 della Costituzione e dall’art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della “gravità della lesione” e della “serietà del danno”, in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 della Costituzione, da cui deriva (come intrinseco precipitato) quello di tolleranza della lesione minima[3], sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 del codice della privacy, ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva, restando comunque il relativo accertamento di fatto rimesso al giudice di merito”[4].
A corredo di tale assunto, la Suprema Corte ha, infine, concluso precisando che “deve, inoltre, rilevarsi che il danno alla privacy, pur non essendo, come ogni danno non patrimoniale, in “re ipsa”, non identificandosi il danno risarcibile con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione, può essere, tuttavia, provato anche attraverso presunzioni (vedi in materia di lesione del danno non patrimoniale dell’onore, Cass. n. 25420 del 26/10/2017, i cui principi, sotto il profilo della prova del danno, sono applicabili anche al caso in esame)”.
[1] Le tipologie di danno cd. privacy affermatesi, con maggior frequenza, in giurisprudenza: segnalazione illegittima alla centrale rischi; spamming; telefonate indesiderate; comunicazioni elettorali indesiderate; perdita di dati; illegittimo controllo del datore di lavoro.
[2] Nell’alveo dell’art. 2043 c.c., va ricondotto anche il danno indicato dall’art. 2059 c.c., nel senso che tale ultima norma non disciplina un’autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c., bensì regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali (da intendersi come categoria omnicomprensiva, all’interno della quale non è possibile individuare, se non con funzione meramente descrittiva, ulteriori sottocategorie) sul presupposto dell’esistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dall’art. 2043 c.c. (cfr. ex multis: Corte di Cassazione n. 8703 del 9.4.2003).
[3] Si tratta, in particolare, della “soglia di risarcibilità”, individuata dalla giurisprudenza al fine di porre un freno al ristoro dei danni cd. bagatellari. Infatti, il diritto al risarcimento del danno può essere riconosciuto solo ove – alla luce di un necessario bilanciamento tra il principio di solidarietà verso il danneggiato e quello di tolleranza imposto dal contesto sociale – la lesione superi il livello di tolleranza e, dunque, una certa soglia di offensività, e il pregiudizio che ne consegue non sia futile (ossia non consista in meri disagi o fastidi).
[4] Cfr. ex multis: Corte di Cassazione n. 17383/2020, n. 207/2019 e n. 25420/2017.
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