Il rispetto del principio di offensività da parte di alcune delicate categorie delittuose

Il rispetto del principio di offensività da parte di alcune delicate categorie delittuose

Malgrado la indubbia primazia che nel nostro ordinamento riveste il principio di offensività, il legislatore ha positivizzato delle figure giuridiche che assurgono a delle vere e proprie tecniche di tutela giuridica anticipata.

A tale macrocosmo vanno ricondotte diverse categorie di reati relativamente alle quali sorge prima facie il sospetto di un’eccessiva prodromicità della reazione penale rispetto all’effettiva lesione o messa in pericolo del bene protetto. Tale sospetto può derivare innanzitutto da una evidente, e forse eccessiva, anticipazione temporale della tutela. Questo è quanto accade con riferimento ai reati di pericolo e a quelli di possesso.

Riguardo ai reati a dolo specifico e a quelli di attentato, invece, il sospetto di una violazione del principio di offensività deriva dal fatto che il relativo paradigma normativo palesa una pregnante valorizzazione della volontà dell’agente rispetto alla reale offesa.

Analoga funzione di anticipazione della tutela è rinvenibile nell’istituto del delitto tentato di cui all’art. 56 c.p., la cui rilevanza penale è connessa al compimento di atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere un delitto del quale, tuttavia, non risultano integrati tutti gli elementi costitutivi.

Al fine di vagliare la compatibilità di tali tecniche di tutela anticipata con i principi di legalità di cui agli artt. 13 e 25 Cost. è necessario carpirne la ratio e verificare se la relativa disciplina ecceda i limiti di un equo bilanciamento tra l’esigenza di apprestare tutela a beni giuridicamente rilevanti e quella di non comprimere eccessivamente i diritti di libertà.

Il principio di offensività, recepito dal legislatore sin dagli albori della legislazione codicistica, impone di ritenere che il diritto penale trovi legittimazione solo laddove un comportamento materiale si estrinsechi in una più o meno intensa compressione di beni giuridicamente rilevanti.

Tanto emerge dalla conformazione del nostro come di un “diritto penale del fatto”; di un diritto penale, cioè, che esige che il proposito criminoso si sostanzi in un comportamento materiale idoneo a ledere o, quantomeno, a mettere in pericolo il bene protetto.

In quest’ottica sono state dunque respinte tutte le teorie soggettive del reato che, muovendo da un’accentuazione del momento soggettivo dell’illecito, concentravano il fondamento della punibilità nella pericolosità sociale del soggetto nonché nella sua volontà criminosa.

L’esigenza di ancorare la risposta lato senso punitiva dell’ordinamento a comportamenti effettivamente e considerevolmente lesivi dell’altrui sfera giuridica, a ben vedere, non ha costituito un fenomeno strettamente confinato all’ambito penalistico, ma ha plasmato anche la disciplina civilistica del danno risarcibile. Questa esigenza ha, infatti, condotto ad una rivalutazione del concetto di danno risarcibile. Tale non è il c.d. danno-evento, inteso quale mera sussistenza dell’evento lesivo, ma solo il c.d. danno-conseguenza, ossia quel danno che possa considerarsi normale conseguenza di un determinato comportamento alla stregua del principio di causalità adeguata.

Proprio sulla base di tali premesse, prevalente dottrina e giurisprudenza ritengono che il principio di offensività, lungi dal contrapporsi a quello di tipicità, esplichi già la sua funzione in sede di tipizzazione del fatto penalmente rilevante. Donde, un fatto che pur presenti gli elementi costitutivi di una determinata fattispecie delittuosa si deve considerare tipico solo in apparenza laddove concretamente inidoneo a ledere o mettere in pericolo il bene giuridico che la norma si prefigge di tutelare. Dello stesso avviso non sono i sostenitori della c.d. concezione realistica dell’illecito, la quale postula la sussistenza di uno scarto tra tipicità e offensività.

Tutto ciò trova conferma in innumerevoli interventi della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione volti a relegare nell’alveo del penalmente irrilevante tutte quelle condotte che, per l’esiguità del danno arrecato, si dimostrino concretamente inoffensive (si consideri, in particolare, l’ipotesi di una eccedenza minimale rispetto alla dose media giornaliera di cui alla versione originaria del T.U. Stupefacenti ai fini della configurabilità del reato di detenzione di stupefacenti). Dalla medesima ratio muovono tutte quelle pronunce volte a far coincidere il momento consumativo del reato con l’effettiva lesione o messa in pericolo del bene giuridico (si veda la giurisprudenza che richiede, ai fini della consumazione del delitto di furto, non solo l’impossessamento materiale della res ma anche la fuoriuscita del bene dalla sfera di controllo e vigilanza dell’offeso).

La primazia del principio di offensività ha trovato, da ultimo, piena consacrazione nel nuovo art. 131 bis c.p. che codifica una causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, applicabile laddove emerga che l’offesa sia particolarmente tenue e il comportamento del reo non abituale; elementi che si ritiene difettino in presenza di tutta una serie di circostanze – di cui ai commi secondo e terzo – che operano quali vere e proprie presunzioni juris et de jure  di non particolare tenuità del fatto.

Poste tali premesse, passiamo al vaglio della compatibilità con il principio di offensività delle varie tecniche di tutela anticipata.

Per quanto attiene alla categoria dei reati di pericolo pare opportuno innanzitutto sgombrare il campo da quelle fattispecie che non pongono particolari problemi in tal senso. Il riferimento è innanzitutto ai reati di pericolo concreto i quali, sebbene postulino come evento giuridico la semplice messa in pericolo del bene e non la sua lesione, presuppongono un accertamento concreto di quella pericolosità ad opera del giudice. Passando in rassegna alcune delle principali ipotesi delittuose di pericolo concreto, come il delitto di strage o quello di incendio, è evidente come il pericolo assurge ad elemento costitutivo della fattispecie e, come tale, deve essere in concreto provato.

Al fine di tale accertamento, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti affermano doversi condurre – analogamente a quanto avviene nell’ambito del tentativo – un giudizio a base parziale; vale a dire, che tenga conto delle sole circostanze effettivamente conosciute dall’agente nonché di quelle conoscibili alla stregua di un osservatore di media diligenza.

Nei reati di pericolo astratto, invece, la pericolosità viene prevista dal legislatore in via generale e astratta sulla base di regole d’esperienza. Cionondimeno determinate fattispecie consentono, o per via dell’utilizzo di termini dalla forte carica semantica o per via di una interpretazione restrittiva pro reo, di individuare un elemento concreto di pericolo quale requisito della fattispecie. Si pensi ad esempio al reato di epidemia, che fa evidentemente riferimento a quelle malattie che, per la alta carica infettiva e per la velocità di propagazione, pongono in pericolo un indeterminato numero di persone. Si pensi, ancora, al delitto di calunnia il quale non si configura laddove la falsa denuncia sia talmente inverosimile da non determinare l’effettivo rischio dell’esercizio dell’azione penale nei confronti del calunniato.

A destare il fondato sospetto di una violazione del principio di offensività sono, invece, quelle fattispecie di pericolo astratto relativamente alle quali non è possibile, neppure in via interpretativa, rinvenire la necessità di un accertamento di indici di concreta pericolosità. Parte della dottrina ha addirittura sostenuto la illegittimità costituzionale di tali fattispecie.

Non si può, tuttavia, non riconoscere come tali ipotesi di pericolo astratto tout court rappresentino il più efficace – se non l’unico – strumento di tutela di determinati e fondamentali beni giuridici. Nella “società del rischio” in cui viviamo risulta spesso impossibile, alla stregua delle conoscenze scientifiche acquisite in un dato momento, determinare con certezza quali siano i fattori da cui eziologicamente deriva la messa in pericolo di determinati beni giuridici.

Vi sono, poi, certi beni – come l’ambiente o l’economia pubblica – che sono suscettibili di essere posti in pericolo solo da condotte cumulative e che si susseguono nel tempo. Va da sé come, laddove non si ammettesse la possibilità di addebitare anche solo parzialmente l’evento lesivo a ciascuna delle singole condotte potenzialmente pericolose, si rischierebbe di creare un intollerabile vulnus di tutela giuridica. Proprio sulla scorta di tali considerazioni la Corte Costituzionale ha respinto l’idea di una radicale incompatibilità delle fattispecie di pericolo astratto con il dettato costituzionale aprendo, così, la via alla recente e tanto agognata riforma sui reati ambientali.

In questi casi il problema si sposta, dunque, dall’ an della legittimità di tali fattispecie a quello relativo al quomodo della relativa disciplina. Essa dovrà essere il frutto di un equo bilanciamento tra l’esigenza di tutelare beni di primaria importanza (come la salute, l’ambiente o l’incolumità pubblica) e quella di evitare l’illegittima compressione dei diritti di libertà, specialmente di quelle politiche. A tale scopo sopperisce il “principio di precauzione” il quale, espletando una funzione suppletiva in materia politico-criminale, costituisce una valida legittimazione di forme di tutela anticipata. Tale principio impone innanzitutto di espungere dall’ambito del penalmente rilevante tutti quei rischi che non poggino su argomentazioni obiettivamente valide e corroborate dall’opinione di esperti. In secondo luogo, l’esigenza di prudenza insita nel principio di precauzione impone di ricercare una relazione di proporzionalità tra il rango dei beni da proteggere e la limitazione dei diritti di libertà.

Un’altra categoria di reati che desta il sospetto di una violazione del principio di offensività è quella dei reati dolo specifico. Tale tipologia di dolo consiste in una finalità, ulteriore alla mera commissione dell’illecito, che l’agente deve prendere di mira ma che non è necessario si realizzi concretamente affinché il reato si configuri. Si tratta, a ben vedere, di un elemento costitutivo dell’illecito idoneo ad ancorare il punto nevralgico della punibilità alla volontà di offendere, più che alla reale offesa.

In quest’ambito il problema evidentemente non si pone laddove il dolo specifico assolva ad una funzione selettiva e determini, conseguentemente, una restrizione dell’ambito del penalmente rilevante (come nel reato di ricettazione ex art. 648 c.p., il quale esige che il soggetto commetta il fatto al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto) ovvero ad una funzione differenziatrice (si pensi alla diversità degli scopi che l’agente può prendere di mira nel realizzare il sequestro di persona; diversità cui corrispondono varie fattispecie di sequestro). In questi casi si determina anzi una forte aderenza della punibilità alla reale offensività del fatto.

Problematica è, invece, l’ipotesi in cui il dolo specifico assolve ad una funzione squisitamente anticipatoria. In tal caso la punibilità a titolo di reato consumato è ancorata, non alla effettiva realizzazione dell’offesa, ma ad un momento prodromico caratterizzato dall’aver agito con una determinata finalità.

Secondo prevalente dottrina e giurisprudenza, a rendere compatibili tali fattispecie con il principio di offensività sopperisce una loro interpretazione in chiave oggettiva, che tenga conto dell’effettiva idoneità della condotta a conseguire un determinato risultato. Di talché i reati a dolo specifico assurgerebbero a vere e proprie ipotesi di tentativo.

Anche la figura del delitto tentato costituisce una tecnica di tutela anticipata giacché si configura laddove l’agente non riesca a portare a compimento l’illecito programmato. Cionondimeno i requisiti di cui all’art. 56 c.p., consistenti nella univocità ed idoneità degli atti, impongono di ancorare la punibilità del tentativo ad indici di esteriorizzazione dell’intenzione criminosa. La previsione di tali requisiti ad opera del codice Rocco costituì una vera e propria svolta rispetto all’impostazione precedente che, in spregio al principio cogitationis poenam nemo patitur, postulava che ai fini della punibilità del tentativo fosse sufficiente il mero inizio dell’esecuzione.

Per evitare che l’istituto del tentativo venga strumentalizzato al fine di costituire un espediente per punire fatti concretamente inoffensivi, punto cruciale è stabilire quando degli atti possano dirsi idonei a sfociare nella consumazione di un delitto. Per concorde ammissione dottrinale e giurisprudenziale il parametro di accertamento dell’idoneità deve essere condotto sulla base del giudizio della prognosi postuma; di un giudizio, cioè, che tenga conto di tutte le circostanze conoscibili ex ante da parte di un agente di media diligenza e avvedutezza nonché di quelle circostanze ulteriori in concreto conosciute.

Il punctum dolens della distinzione tra delitto tentato e delitto consumato risiede nel fatto che è possibile difetti una corrispondenza tra il momento della consumazione e quello in cui vengono integrati tutti gli elementi costitutivi della fattispecie. In particolare, nei reati permanenti il reato si arresta alla soglia del tentativo laddove la condotta, che pure integra tutti gli elementi costitutivi della fattispecie, non si protrae per un lasso di tempo considerevole. Solo a tale condizione può dirsi infatti giustificata la riconduzione del fatto ad una categoria –quale quella del reato permanente – che si caratterizza per una maggiore riprovevolezza e, conseguentemente, per un più aspro trattamento sanzionatorio.

Un’altra tecnica di tutela anticipata è quella dei delitti di attentato, le cui ipotesi principali sono quelle di cui agli artt. 420, 241 e 286 c.p. Essi puniscono una condotta in quanto tesa al perseguimento di un determinato risultato che, però, non è necessario si consegua in concreto. La ratio di tale figura evidentemente evoca quella propria dei reati a dolo specifico, sebbene in tal caso la riprovevolezza poggi essenzialmente sulla connotazione esteriore della condotta, e non già sull’intenzione soggettiva del suo autore.

Se inizialmente la configurabilità del delitto di attentato era connessa al mero espletamento di un’attività preparatoria, una interpretazione costituzionalmente orientata dell’istituto alla luce del principio di necessaria offensività ha indotto la dottrina – a partire dagli anni ’60 – a subordinare la punibilità delle condotte de quibus alla realizzazione di veri e propri atti esecutivi (i meri atti preparatori giustificano, tuttalpiù, l’applicazione di misure di prevenzione ante delictum. Si riscontra su tale versante una forte assonanza con le conseguenze sanzionatorie proprie del reato impossibile di cui all’art. 215 c.p. ). Di guisa che è oggi rinvenibile una omogeneità strutturale tra tentativo e delitto di attentato, posto che in entrambi i casi sono essenziali le caratteristiche oggettive della univocità e della idoneità degli atti a ledere il bene protetto. Secondo giurisprudenza prevalente la distinzione tra i due istituti risiederebbe essenzialmente nel diverso grado del giudizio di idoneità che deve essere condotto nell’uno e nell’altro caso. Tale giudizio dovrebbe, in tal caso, avere un esito positivo laddove il criterio della prognosi postuma consenta di affermare la mera non impossibilità dell’evento lesivo (e non – come richiesto per il tentativo – la probabilità o elevata possibilità).

La rinnovata esigenza di una rivalutazione dell’intero sistema penale alla luce del principio di offensività ha indotto il legislatore del 2006 a modificare nei tratti essenziali tre importanti fattispecie di delitti di attentato: l’attentato contro l’integrità, l’indipendenza o l’unità dello Stato (art. 241 c.p.), quello contro la Costituzione (art. 283 c.p.) nonché quello contro organi costituzionali e assemblee regionali (art. 289 c.p.).

L’obiettivo è stato raggiunto attraverso una restrizione selettiva delle condotte punibili, nell’ottica di una concezione del diritto penale quale extrema ratio. Tale restrizione è stata resa possibile dalla previsione espressa del duplice requisito della idoneità e della violenza degli atti. Dal momento che la necessaria idoneità degli atti costituiva già da tempo un punto assodato per via dell’attività ermeneutica di dottrina e giurisprudenza, va da sé come il punto cruciale della novella sia costituito dal requisito della violenza degli atti stessi. Tale requisito consente, in particolare, di espungere dall’ambito di rilevanza penale tutte quelle condotte che costituiscano espressione della libertà di pensiero e che non sfocino in veri e propri atti di violenza.


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