Il ritardo nell’adozione del provvedimento: il tempo è un bene della vita?
Con la sentenza n. 3920 del 22 settembre 2016, il Consiglio di Stato, sezione V, è tornato ad affrontare la questione relativa alla individuazione dei presupposti del danno derivante dal mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento amministrativo.
Nel caso di specie, il ricorrente, in seguito al mancato rilascio dell’autorizzazione unica di cui all’art. 12 del d.lgs. 29 dicembre 2003, n.387, nonché della verifica di assoggettabilità a V.I.A. (Valutazione di Impatto Ambientale) per la costruzione e l’esercizio di un impianto fotovoltaico finalizzato alla produzione di energia elettrica da immettere nella rete ENEL, presentava ricorso al Tribunale Amministrativo per il Molise: adduceva, in particolare, che a causa del tempo impiegato per la conclusione del procedimento non fosse più possibile realizzare l’impianto progettato nei termini prescritti dalla normativa per potere beneficiare dei previsti incentivi statali; conseguentemente, chiedeva riconoscersi il danno derivante dalla mancata adozione del provvedimento nei termini prescritti dalla legge.
L’arresto dei giudici della V sezione del Consiglio di Stato segna un ulteriore tappa nell’evoluzione dell’ annosa questione relativa al riconoscimento di un pregiudizio risarcibile nell’ipotesi di ritardo nell’adozione di un provvedimento da parte dell’Amministrazione, in particolare allorchè venga azionato il cosiddetto danno da mero ritardo, che si configura in due ipotesi:
– allorché l’Amministrazione adotti tardivamente un provvedimento legittimo, ma sfavorevole per l’interessato;
– quando l’Amministrazione rimanga inerte, non adottando un provvedimento nei termini prescritti dalla legge a tal fine.
Si tratta, in ultima analisi, di stabilire se il tempo possa essere qualificato quale bene della vita autonomo, suscettibile di subire un pregiudizio economicamente valutabile, e quindi suscettibile di risarcimento a prescindere dalla valutazione circa la spettanza del bene della vita sotteso al provvedimento richiesto dal privato.
Leading case nella circostanza può essere rinvenuto nella pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.7 del 2005, che ha negato la tutela risarcitoria del danno da mero ritardo, in quanto la lesione dell’interesse pretensivo o dinamico suscettibile di risarcimento ( in seguito al riconoscimento dello stesso realizzato a far data dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 500 del 1999) presuppone la conclusione positiva del giudizio di spettanza del bene della vita richiesto.
Tuttavia, nuovi arresti giurisprudenziali, nonché novità legislative intervenute nel periodo successivo, hanno posto in discussione l’assunto fatto proprio dal Supremo Consesso della Giustizia Amministrativa. Sul primo versante, sono state manifestate talune aperture a favore della risarcibilità del danno da mero ritardo, riconoscendosi, in alcune pronunce, allorchè la p.a. “tradisca” la fiducia del privato cittadino nella solerte e proficua conclusione del procedimento, che il cd. “contatto procedimentale” creatosi tra Pubblica Amministrazione e privato, ingeneri in quest’ ultimo un legittimo affidamento circa la tempestiva conclusione del procedimento.
Sul piano legislativo, invece, un primo intervento ha riguardato il corpus normativo della legge 7 agosto 1990 n.241 sul procedimento amministrativo: la legge n.69 del 18 giugno 2009, inserendo nel testo di legge l’art. 2 bis, ha riconosciuto al privato il risarcimento del danno ingiusto derivante dalla inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. Successivamente, il codice del processo amministrativo, d.lgs. n.104 del 2 luglio 2010, ha ribadito all’art. 30 comma 4, in una disposizione finalizzata all’individuazione del dies a quo per presentare il ricorso finalizzato al risarcimento del danno da ritardo, la risarcibilità del danno che il ricorrente provi aver subito in esito all’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.
Occorre ancora menzionare come l’art. 133 comma 1, lett. a ) n.1 del medesimo Codice abbia devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la cognizione delle controversie in materia di risarcimento del danno derivante dall’inosservanza del termine di conclusione del procedimento.
Di recente, il legislatore è nuovamente intervenuto sul punto con il d.lgs. 21 giugno 2013 n.69 conv. in legge 9 agosto 2013 n. 98, con il quale ha introdotto un comma 1 bis nel corpus dell’art. 2 bis della legge 241, statuendo il diritto per l’istante di ottenere un indennizzo in conseguenza del mero ritardo nella conclusione del procedimento: dunque, un ristoro patrimoniale conseguente alla valutazione del mero ritardo nell’adozione di un provvedimento, che qui funge da strumento riparatorio a favore del privato, nonché coercitivo e sanzionatorio nei confronti dell’Amministrazione.
Tuttavia, il quadro normativo delineato, in specie l’ultimo intervento del 2013, con la previsione di un ristoro di natura indennitaria in conseguenza del mero ritardo, non ha consentito ex se di porre fine all’annosa questione, né di definire gli elementi costitutivi della responsabilità dell’Amministrazione che non adotti il provvedimento nei termini previsti: infatti, a fronte di chi ha ritenuto che il legislatore del 2013 abbia “sdoganato” nel sistema il cosiddetto danno da ritardo mero, v’è stato chi ha sostenuto che nulla è cambiato, avendo il meccanismo dell’indennità struttura e funzione ben diverse da quello risarcitorio.
La questione, comunque, rimane influenzata dalla soluzione che si preferisca dare a quella ad essa preliminare, relativa all’individuazione della natura, aquiliana o contrattuale, della suddetta responsabilità; questione più volte esaminata in giurisprudenza, in ultimo anche dalla sentenza in commento.
Infatti, solo dall’accoglimento della tesi della natura contrattuale della responsabilità della p.a. potrebbe conseguire il risarcimento del danno da mero ritardo nell’adozione del provvedimento, in esito alla verifica della violazione del termine di conclusione del procedimento da parte della stessa Amministrazione: in tal caso, infatti, potrebbe ritenersi verificato un inadempimento nei confronti di un privato, in conseguenza del cosiddetto “contatto procedimentale” instauratosi con l’apertura del procedimento; esso sarebbe fonte di un legittimo affidamento del cittadino nella conclusione del procedimento nei termini di legge, la cui lesione fonderebbe autonomamente un pregiudizio risarcibile. Pertanto, nel caso di specie, il ricorrente sarebbe onerato, in sede processuale, solo di fornire la prova dell’instaurazione del procedimento volto alla realizzazione di un suo interesse legittimo pretensivo o dinamico, e di allegare l’inadempimento della p.a., nella specie sussistente nella mancata conclusione dello stesso nei termini previsti dalla legge, secondo il modello di responsabilità derivante dall’applicazione dell’art. 1218 c.c..
Viceversa, dall’accoglimento della tesi della natura extracontrattuale della responsabilità dell’amministrazione deriverebbe un riparto dell’onere della prova decisamente diverso: graverebbe, infatti, in capo al ricorrente la necessità di fornire la prova di tutti gli elementi costitutivi della domanda ex art. 2697 c.c., in specie dell’effettivo danno subito, non potendo quest’ultimo consistere nel mero ritardo nell’adozione del provvedimento, ma risolventesi necessariamente nella formulazione del cosiddetto giudizio di spettanza del bene della vita finale, costituito dal certo o altamente probabile esito favorevole del procedimento amministrativo.
Dunque, la tesi della natura contrattuale della responsabilità dell’amministrazione conclude in senso positivo la questione della risarcibilità del danno da mero ritardo. In particolare, la giurisprudenza fautrice di questa soluzione valorizza il dato normativo emerso negli ultimi anni, laddove i riferimenti al “risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento” (art. 2 bis comma 1 l. 241/1990), nonché al risarcimento del danno “che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento” (art. 30 comma 4 c.p.a.), risulterebbero essere indici inequivoci della voluntas legis di riconoscere normativamente il risarcimento in tali ipotesi; nello stesso senso, l’aver devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la cognizione di tali controversie testimonierebbe la presa di coscienza della natura contrattuale di tale forma di responsabilità, in quanto connotata da una frammistione di diritto soggettivo ed interesse legittimo propria delle materie affidate alla cognizione esclusiva del g.a..
Deporrebbe in tal senso, ultroneamente, la Rubrica dell’art. 7 comma 1, lett. c) della legge 69 del 2009, “certezza dei tempi di conclusione del procedimento”, elemento da cui desumere l’intenzione del legislatore di perseguire con la riforma l’obiettivo di sanzionare condotte lesive della suddetta tempistica procedimentale, a prescindere dalla spettanza del bene della vita per il privato.
Conseguentemente, si deduce come il ritardo nella conclusione del procedimento sia assurto al rango di pregiudizio ex se risarcibile, in quanto “costo illegittimo” che incide sulle aspettative e sulle scelte dei privati, al fine tradendole; in secondo luogo, come risulti nella specie violato il principio della certezza dei rapporti giuridici che vedono come parte la Pubblica Amministrazione ( ex plurimis, Cons. St., sez. III, 30 aprile 2014, n. 2279; Cons.St., sez. III, 31 gennaio 2014, n. 468).
L’opposto orientamento, per vero maggioritario, e di cui si fa fautrice anche la sentenza in commento, sostiene la natura aquiliana della responsabilità per danno da ritardo della Pubblica Amministrazione, e conseguentemente nega la risarcibilità del danno da mero ritardo, cui non si accompagni l’accertamento circa la spettanza del bene della vita a favore del privato ricorrente. Ciò, in primo luogo, facendo leva su un argomento di tipo storico testuale: l’analisi del Lavori Parlamentari che hanno preceduto l’adozione della legge 98 del 2013 denunciano come il disegno di legge “Nicolais” conteneva un inciso, “indipendentemente dalla spettanza del beneficio derivante dal provvedimento richiesto”, espunto dal testo finale dell’art. 2 bis l.241/1990, come approvato nel 2009; ciò testimonierebbe, in maniera inequivocabile, la volontà legislativa di preservare il modello di responsabilità preesistente, fondata sul giudizio di spettanza del bene della vita finale.
Neppure, in senso contrario, potrebbe dedursi la previsione, sul punto, della giurisdizione esclusiva del g.a., in quanto semplicemente volta a ribadire la cognizione amministrativa circa le azioni di risarcimento del danno derivante da silenzio o da ritardo nella conclusione del procedimento, risolvendo in nuce eventuali dispute che sarebbero potute insorgere dopo che la nota sentenza della Corte Costituzionale n.204 del 2004 aveva ritenuto illegittima l’estensione della giurisdizione esclusiva ai meri comportamenti della Pubblica Amministrazione.
Le conseguenze applicative di maggiore momento che derivano dall’accoglimento di tale soluzione si rinvengono in riferimento alla ripartizione dell’onus probandi al fine di ritenere dimostrata la sussistenza di un danno economicamente valutabile , quindi risarcibile: infatti, non basterà la prova della violazione del termine di conclusione del procedimento, il quale costituirà solo un indice oggettivo del danno, ma non potrà da solo fondare la pronuncia di condanna della p.a. al risarcimento. Occorrerà, piuttosto, fornire la prova della responsabilità aquiliana della Pubblica Amministrazione, ai sensi dell’art. 2697 c.c., in tutti i suoi elementi costitutivi: sia quelli di carattere oggettivo (ammontare del danno, ingiustizia dello stesso, nesso causale) sia quelli soggettivi (dolo o colpa della p.a.); è necessario soffermarsi, in particolare, sulla prova dell’esistenza e dell’antigiuridicità del danno, da ritenersi sussistente ogniqualvolta risulti dimostrato, con certezza o rilevante probabilità, che, in caso di tempestiva adozione del provvedimento richiesto il privato avrebbe conseguito un risultato rilevante in termini economici, frustrato dall’attività illegittima della p.a. (ex plurimis, Cons. St., sez.IV, 10 giugno 2014, n.2964; Cons. St., sez. V, 10 febbraio 2015, n. 675).
Le considerazioni di tale orientamento, puntualmente riproposte dal Consiglio di Stato nella sentenza del 22 settembre 2016, portano gli stessi Giudici Amministrativi a ribaltare l’arresto del Tribunale Amministrativo del Molise, e, per l’effetto, a rigettare la domanda tesa al riconoscimento del danno da ritardo nell’adozione del provvedimento amministrativo: in quanto il termine di conclusione del procedimento non sarebbe decorso dalla data di presentazione dell’originaria istanza, quanto piuttosto da quella della presentazione del progetto modificato seguendo le indicazioni della conferenza di servizi all’uopo convocata. Da ciò deriva che nemmeno possa considerarsi non fornita la prova della sussistenza di un danno al privato derivante dalla mancata adozione del provvedimento autorizzativo all’esercizio dell’attività, in quanto ciò che nel caso di specie viene ritenuto mancante è piuttosto il ritardo nella conclusione del procedimento, posto che il termine di cui all’art. 12 comma 4, d.lgs. n. 387 del 2003, non risulta ancora essere decorso.
In conclusione, può dirsi che la giurisprudenza maggioritaria, nel cui solco si inserisce la sentenza della V sezione del Consiglio di Stato, risulta tuttora ancorata alla tesi della natura extracontrattuale della responsabilità dell’Amministrazione da mancata conclusione del procedimento nei termini previsti ex lege, ciò comportando un aggravio dell’onere probatorio per il ricorrente, in quanto relativo a tutti gli elementi costitutivi di tale tipologia di illecito; è sempre necessaria, a questa stregua, la prova che la lesione abbia cagionato un pregiudizio al privato consistente nella diminuzione o privazione di un valore patrimonialmente valutabile, secondo il disposto dell’art. 1223 c.c.. Tale orientamento non è risultato scalfito dalla riforma del 2013, che, sia pur introducendo una prima disposizione di tutela per il bene “tempo” del privato nei confronti dell’Amministrazione, opta tuttavia per una tutela di tipo indennitario, inducendo a ritenere la non illiceità del comportamento nella specie tenuto, con la conseguente esclusione di forme di responsabilità aquiliana ancorate all’elemento dell’ingiustizia del danno, allorché il giudizio di spettanza relativo al provvedimento finale, favorevole per il privato, abbia esito negativo.
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Pietro Palumbo
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