Il ruolo dell’autonomia privata nelle relazioni familiari

Il ruolo dell’autonomia privata nelle relazioni familiari

Nella materia del diritto di famiglia è solo di recente che stiamo assistendo ad un lento ampliamento delle maglie dell’autonomia privata, essendo il nostro ordinamento da tempo incline a sposare la constatazione, avanzata dalla dottrina, secondo cui la materia familiare rappresenta quell’ambito del diritto che “il diritto può solo lambire1.

Nonostante la natura indubbiamente veritiera di siffatta espressione, le più conservatrici correnti dottrinali e giurisprudenziali del XXI secolo non possono, oggi, non tenere conto dell’evoluzione sociale in atto e dei passi in avanti che riguardo tali tematiche sono già stati compiuti dalla maggior parte dei paesi esteri.

Su impulso di tale spinta, un primo tentativo di ampliamento dell’autonomia negoziale tra privati è stato proposto, in ambito nazionale, dal legislatore con il D.L. 132/2014, convertito nella L. 162/2014, recante importanti novità inerenti la materia in esame. L’articolo 6 del detto decreto, infatti, prevede la possibilità per i coniugi, giunti ormai nella fase patologica del rapporto coniugale, e quindi in sede di separazione e/o divorzio, di stipulare le c.d. convenzioni di negoziazione assistita, con l’ulteriore precisazione di poter queste ultime essere sottoscritte non solo alla presenza di un notaio, ma anche solamente dinanzi agli avvocati delle parti, idonei al pari del primo, a conferire alla convenzione stipulata valore di atto pubblico (salvo naturalmente il caso in cui oggetto della convenzione sia il trasferimento di diritti reali immobiliari: in tale evenienza è obbligatorio l’atto stipulato dinanzi al notaio). In tale sede, è così offerta alle parti, che scelgono consensualmente di separarsi e/o di procedere con il divorzio, di negoziare gli aspetti patrimoniali della relazione giunta ormai ad una fase di crisi.

È bene, sin da subito, considerare la disparità di trattamento che, in tal modo, il nostro impianto legislativo mette in luce tra i suddetti accordi e gli accordi stipulati, invece, in una fase antecedente alla crisi coniugale, i c.d. accordi pre-matrimoniali.

Rimandando a qualche riga più avanti la spiegazione riguardo gli accordi pre-matrimoniali e la conseguente evoluzione giurisprudenziale sul punto, non può sin da subito non ricordarsi che gli accordi stipulati in vista di una futura separazione e/o divorzio sono considerati, dalla dottrina e giurisprudenza maggioritaria, nulli, cosi che palese appare l’immotivata diversificazione normativa all’interno dell’impianto civilistico: sembrerebbe, infatti, contro la logica ammettere la validità e l’efficacia degli accordi stipulati ex art. 6, D.L. 132/2014, ed escluderla invece nei diversi tipi di accordi pre-matrimoniali, premesso che entrambi si propongono di regolare aspetti patrimoniali derivanti dalla crisi matrimoniale e che gli stessi si distinguono esclusivamente in base al criterio temporale, intervenendo i secondi nella fase fisiologica del rapporto di coppia.

Ma la legge del 2014 porta con sé un ulteriore novità, mutuata dall’art. 12 del D.L. dello stesso anno, a norma del quale è concessa ai coniugi la possibilità di stipulare, alla presenza di un ufficiale dello stato civile e di due testimoni, patti patrimoniali, al fine di regolare le situazioni soggettive, di natura patrimoniale appunto, che dal matrimonio erano sorte in capo ai due. La possibilità di accedere a tale forma estremamente semplificata incontra i soli limiti della non consensualità della decisione di separarsi e della presenza di figli minori, maggiorenni con handicap o comunque economicamente non sufficienti. La stessa disposizione chiarisce poi che non possono essere oggetto dell’accordo stipulato in tale sede i trasferimenti patrimoniali. Tale ultimo comma dell’art.12, di dubbia interpretazione, è stato oggetto di chiarimenti offerti da due consecutive circolare ministeriali, provenienti precipuamente dal Ministero dell’Interno.

La prima circolare, risalente al 2014, offriva un’interpretazione ministeriale secondo cui per “trasferimenti patrimoniali” dovevano intendersi tutte le concessioni patrimoniali, sia una tantum che periodiche, elargite da un coniuge all’altro; a parere del ministero, una simile interpretazione sembrava in linea con la ratio sottesa alla legge n. 162, e cioè quella di tutelare il soggetto economicamente più debole. Invertendo la sua rotta, lo stesso ministero, solo un anno dopo, nel 2015, offriva una nuova interpretazione, senza dubbio più restrittiva, della medesima disposizione: per “trasferimenti patrimoniali” dovevano intendersi solo i trasferimenti una tantum, escludendo così le prestazioni di natura periodica che sfuggivano al divieto posto dalla disciplina in esame. Le anzidette circolari, così vicine nel tempo eppure così distanti quanto a contenuti, invero sollevavano dubbi sulla corretta interpretazione dell’art. 12, dubbi che ben presto giunsero all’attenzione del giudice amministrativo. In particolare, cogliendo la prima occasione utile2, il T.A.R. capitolino si pronunciava dichiarando l’annullamento della circolare interministeriale del 2015, e sposando la contraria tesi secondo la quale devono escludersi dal campo di applicazione dell’art. 12 in questione tutti i trasferimenti patrimoniali, a nulla rilevando le modalità di erogazione – una tantum o periodica -.

Tuttavia, la suddetta decisione, ritenuta dal Consiglio di Stato immeritevole di condivisione, è stata, nello stesso anno, superata da una diversa decisione che optava invece per la soluzione opposta. Il Consiglio, infatti, dopo aver illustrato i susseguenti snodi interpretativi concernenti la disposizione in esame, asseriva più correttamente che gli interpreti del diritto avrebbero dovuto distinguere a seconda che si tratti di prestazioni una tantum ( ex art. 5, l. 898/1970) o di prestazioni periodiche, essendo vietata, ex art. 12, d.l. 132/2014, la stipulazione di accordi solo del primo tipo.

Non può non notarsi, dunque, come tale ultima pronuncia opti a favore di un ampliamento del raggio entro cui può muoversi l’autonomia privata; ampliamento che, con maggiori difficoltà, si è raggiunto in merito agli accordi pre-matrimoniali, a cui si era brevemente accennato.

Gli accordi c.d. pre-matrimoniali sono accordi stipulati da due soggetti nubendi, o che abbiano già contratto matrimonio, al fine di regolare i loro rapporti patrimoniali pro futuro, anticipando così la regolamentazione ad una fase antecedente alla crisi coniugale. La validità di tali accordi è, oggi, negata dal nostro ordinamento, a fronte di una dottrina e di una giurisprudenza consolidata, fin troppo conservatrice ed ancora legata ad una visione cristiana, rectius cattolica, della nostra società.

Le argomentazioni a sostegno della nullità prendono piede dalla pronuncia della Corte di Cassazione, sez. civ., n. 3777 del 1981, a rigor della quale tali accordi sarebbero nulli non solo in quanto contrari all’ordinamento tout court, ma anche perché lesivi del diritto di difesa, riconosciuto e garantito dalla Carta Costituzionale all’art. 24; dalla citata pronuncia emerge, infatti, la preoccupazione dei giudici a che i coniugi, a seguito della stipulazione di siffatti accordi, tengano comportamenti, durante il matrimonio oppure in sede processuale, influenzati da quanto pattuito in sede di accordo pre-matrimoniale. Le ragioni di una simile preoccupazione, a parere dello scrivente, non potrebbero, tuttavia, giustificare la chiusura del nostro ordinamento dinanzi a una simile forma contrattuale, in linea con l’evoluzione sociale e con il loro riconoscimento, quali accordi validi, anche da parte dei più reticenti paesi stranieri (quale, ad esempio, la Gran Bretagna).

Le considerazioni avanzate dalla giurisprudenza di legittimità, volte a sostenere la nullità si fondano, inoltre, sulla asserita illiceità della causa e dell’oggetto degli accordi in questione: e cioè lo status coniugale. Sul punto, è bene chiarire che se da una parte è vero che gli status non possono formare oggetto contrattuale, non solo onde evitare un c.d. “mercimonio di status“, scongiurato dalla dottrina, ma soprattutto perché idonei a inficiare la validità dei contatti stessi; d’altro canto, sembra legarsi ad un’atavica concezione la considerazione per cui tali accordi debbano ritenersi nulli anche quando si incentrino esclusivamente su aspetti di tipo patrimoniale.

Leitmotiv della giurisprudenza che sceglie la strada della nullità è, a ben vedere, il riferimento all’art. 160 c.c. che recita che “gli sposi non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio“. A norma di simili orientamenti, l’efficacia della norma avrebbe carattere ultrattivo, tale da estendersi anche alla fase patologica del rapporto di coppia, punto che senza bisogno di ulteriori precisazioni mostra la sua illogicità, soprattutto per il suo esplicarsi in una materia, quale quella familiare, dove nessun diritto o dovere può avere un’efficacia ultrattiva. La stessa collocazione della suddetta disposizione all’interno del codice civile mostra chiaramente il suo essere di disposizione avente carattere generale, inserendosi quale norma di apertura al capo VI, Libro I, del codice civile.

Tuttavia, nonostante tali rilievi, la giurisprudenza, tanto di legittimità quanto di merito, non ha potuto evitare di compiere un primo tentativo volto al recupero della validità degli accordi di cui si discute. Il primo passo in avanti in tal senso è stato compiuto dal Tribunale di Torino, con ordinanza datata 20 aprile 2012, in cui il giudice torinese ha sostenuto con fermezza la necessità di un’apertura del nostro ordinamento a tali forme di autonomia contrattuale che, in considerazione dell’evoluzione sociale in corso, non possono più essere relegati entro l’alveo della nullità. Nel timido tentativo di recupero dell’efficacia di tali accordi, il giudice evidenzia le illogicità e le insufficienze delle argomentazioni proprie della corrente più conservatrice, finendo, nel caso di specie, con il ritenere valido l’accordo tra due coniugi, i quali congiuntamente avevano deciso che l’erogazione dell’assegno di mantenimento, a carico del marito, sarebbe venuto a cessare al compimento del primo atto d’introduzione per la causa di cessazione degli effetti civili del matrimonio, senza a nulla più pretendere (la moglie) nè una tantum, nè periodicamente. Da tale pronuncia innovativa, la corrente più liberista sugli accordi pre-matrimoniali, prende piede, in guisa che numerose sono le pronunce successive volte ad ampliare l’ambito dell’autonomia privata, riconoscendo come validi accordi stipulati già nella fase fisiologica del matrimonio.

Sulla scia del Tribunale di Torino, anche la giurisprudenza di legittimità, con la sentenza n. 23713 dello stesso anno, afferma invero che “gli accordi stipulati in vista di un futuro divorzio e/o separazione non contrastano con l’ordine pubblico, né con la disposizione di cui all’art. 160 c.c.“. Così anche, e ancor più di recente, il Tribunale di Caltanissetta, che nel 2015, ha ritenuto valido l’accordo con cui le parti decidevano in merito all’assegno di mantenimento, all’affido del figlio e della casa coniugale, e ancora circa l’addebito della separazione. Sul punto, il giudice siciliano ha evidenziato che se, da un lato, è ammissibile che le parti stipulino accordi di natura patrimoniale, d’altro canto, in armonia con i principi del nostro ordinamento, è esclusa una loro libera disposizione circa lo status, richiamando poi originalmente l’art. 458 c.c. al fine di escludere nel caso di specie la validità per quella parte dell’accordo che statuiva sull’addebito della separazione (specificatamente in capo alla moglie). Sebbene pacificamente la ratio sottesa alla norma di cui all’art. 458 c.c. sia quella di escludere che un soggetto possa previamente rinunciare ad un diritto non ancora sorto, tuttavia, e secondo il parere non solo di questo scrivente, dovrebbe dirottarsi l’attenzione sugli interessi tutelati sottesi alla citata norma, che devono senz’altro rinvenirsi nella tutela appunto degli eredi di fronte ad eventuali decisioni istintive, e cioè prese in un momento antecedente alla morte del de cuius e che ben potrebbero essere ribaltate in seguito, tenuto conto tra l’altro che si tratta di disposizioni inerenti esclusivamente la materia delle successioni.

L’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale, alla luce delle pronunce di cui si è brevemente discusso, apre così un varco nel nostro ordinamento all’esplicarsi della autonomia privata nella materia familiare, che da tempo sembrava chiusa ad infiltrazioni esterne, a causa anche e principalmente, della preminenza, almeno fino a quel momento, degli interessi pubblicistici sottesi alla vita familiare a scapito di quelli privati, che pur di quel rapporto fanno parte.

Pertanto, seppur su un diverso fronte, il legislatore non ha potuto chiudere gli occhi dinanzi all’odierna evoluzione sociale, e con questa all’evoluzione del concetto di matrimonio, per il quale non può più essere offerta una definizione unitaria. Questa, probabilmente, la ratio dell’ingresso nel panorama nel diritto italiano della legge n. 76 del 2016, comunemente nota come legge c.d. Cirinnà. La detta legge, composta da un solo e lungo articolo può essere suddivisa in due parti: la prima dedicata alle unioni civili tra soggetti dello stesso sesso, la seconda alla diversa ipotesi delle convivenze di fatto. Senza prolungarsi ulteriormente in questa sede, circa le novità introdotte dalla legge in esame, e al fine di mettere in luce solo gli sforzi compiuti dalla giurisprudenza e dal legislatore per l’ampliamento delle maglie dell’autonomia privata -argomento in questione-, deve richiamarsi tra i tanti il solo comma 50 dell’art. 1, legge Cirinnà. Tale comma prevede, infatti, la possibilità per i conviventi di fatto, che abbiano regolarmente proceduto alla registrazione della convivenza, secondo le modalità prescritte dalla stessa legge, di stipulare i c.d. contratti di convivenza, al fine di regolare le loro situazioni patrimoniali. La forma imposta per tali contratti è quella scritta ab sustantiam, e le parti, nel termine di dieci giorni, dovranno provvedere alla registrazione del contratto così redatto nel registro dell’ufficiale dello stato civile, ai fini della sua opponibilità a terzi. Tuttavia, la legge non indica i limiti contenutistici dei contratti in questione, lasciando solo in questo caso uno spazio, forse, troppo ampio alla libertà negoziale delle parti. Non può, dunque, non evidenziarsi con stupore la disparità di trattamento tra i coniugi e i conviventi di fatto, essendo questi ultimi al contrario dei primi nella possibilità di stipulare accordi di natura patrimoniale, anche in vista di un futuro scioglimento della convivenza, possibilità questa negata fino ad oggi ai coniugi.

In conclusione, deve pertanto auspicarsi un’apertura che sia sempre più effettiva del nostro ordinamento nei confronti dell’autonomia privata nella materia familiare, che sebbene delicata, non può non fare i conti con la direzione assunta dalla nostra società: sempre più laica, sempre più aperta, sempre più eterogenea.


1La nota espressione, in particolare, è di Carlo Arturo Jemolo.

2 Sentenza n. 48713 del 2016, TAR Lazio, sede di Roma.


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Martina Quacinella

Laureata in Giurisprudenza, presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e attualmente studentessa presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali dell'Università Federico II di Napoli.

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