Il Silenzio degli Innocenti – L’istituto dell’Esonero tra flessibilità ed abusi
“L’esonero è un atto di viltà con cui la società colpisce l’anello più debole del sistema distogliendo l’attenzione delle proprie mancanze e inefficienze. L’esonero è un fallimento. Fallimento di un progetto che non si è voluto difendere. Fallimento di una pianificazione cui non si è dato tempo di attuarsi. Fallimento di un’idea in cui non si è voluto credere”. (Frederic Massara – Direttore Sportivo dell’A.C. Milan)
Sommario: Premessa – 1. Il rapporto di lavoro in generale – 1.1. Il lavoro subordinato ed il lavoro autonomo – 2. Le peculiarità del lavoro sportivo e la figura dell’allenatore – 2.1. Il contratto di lavoro sportivo: forma e contenuto – 3. L’istituto dell’esonero – 3.1. L’esonero come ipotesi di trasferimento senza destinazione – 3.2. Le radici dello jus variandi – 3.3. La differenza con il licenziamento – 3.4. Il mobbing – 4. La necessità di tutela dell’allenatore in quanto lavoratore e sportivo – 4.1. Le condizioni necessarie per l’esonero dell’allenatore – 5. La libera circolazione degli sportivi – 6. Profili risarcitori legati alla lesione della sfera giuridica (patrimoniale e non) dell’allenatore – 7. Profili procedurali: la giurisdizione in materia di esonero – 8. Conclusioni
Premessa
23 Maggio 2018. Carlo Ancelotti, uno degli allenatori italiani più famosi e vincenti del panorama calcistico mondiale, sottoscrive un contratto triennale con il S.S.C. Napoli.
I tifosi del Napoli sono in visibilio per la notizia, ma c’è qualcuno che sorride di meno, anzi per niente: Maurizio Sarri, fino a pochi giorni prima idolo della città per aver avuto il merito di portare gli azzurri a lottare fino alla fine con la Juventus F.C. di Massimiliano Allegri, nonostante una rosa meno competitiva rispetto ai bianconeri.
Il tecnico toscano apprende nel peggiore dei modi la notizia della sua defenestrazione, senza nemmeno ricevere un provvedimento formale di esonero, nonostante un contratto fino al 2020.
L’allenatore rimane, pertanto, prigioniero in una gabbia d’oro, in quanto de facto è stato sollevato dalla conduzione tecnica della prima squadra, ma essendo rimasto formalmente un dipendente della Società, non può allenare altrove se prima non risolve il contratto che lo lega al club di Aurelio De Laurentis per altri due anni.
Situazione resa ancor più paradossale dalla presenza nel suddetto contratto di una clausola – impropriamente detta – rescissoria di 8 milioni di euro, non proprio il miglior incentivo all’assunzione del tecnico da parte di altre squadre.
L’istituto dell’esonero rappresenta degnamente le particolarità dell’ordinamento sportivo, distinto ma non separato da quello giuridico.
Un’istantanea che pretenda di immortalare il rapporto tra i due ordinamenti, mutuando una similitudine cara al Tognon[1], ritrarrebbe due amanti litigiosi intenti a tirare le lenzuola ognuno dal proprio lato, stante il rapporto d’interazione necessaria tra le due realtà ordinamentali, per dirla con un’espressione coniata dal Lubrano[2].
Infatti, l’ordinamento sportivo è da sempre mosso da spinte indipendentiste nei confronti dell’ordinamento giuridico, restio a rinunciare al controllo su un settore che raccoglie a fattor comune così tanti interessi economico-giuridici.
Lo sport, nella sua accezione più ludica e ricreativa ha ceduto il passo al c.d. sport business, oggetto di attenzioni e di condizionamenti poco consoni alla sua dimensione iniziale.
Dalla creazione del C.I.O. per mano del Barone de Coubertin nel 1894, passando per l’istituzione dei Comitati Olimpici Nazionali (avvenuta in Italia nel 1914) e la loro successiva implementazione di competenze, il mondo sportivo ha assunto i connotati di un vero e proprio ordinamento settoriale,
in virtù della sussistenza dei presupposti individuati dal Santi Romano nella sua teoria pluriordinamentale: società, ordine sociale e normazione[3].
In seguito l’ordinamento giuridico ha assunto contezza della rilevanza di tale settore, arrivando a riconoscere con una pronuncia della Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. III, 11 febbraio 1978, n. 625) che “l’ordinamento giuridico sportivo è originario e dotato di potestà amministrativa e normativa” ed è “collegato all’ordinamento giuridico internazionale, da cui attinge la sua fonte”.
Da tale riconoscimento, tuttavia, non deriva un’autonomia illimitata dell’ordinamento sportivo, essendoci delle zone grigie (una sorta di Alsazia e Lorena normative, se mi è consentito dire) di reciproco interesse, nei cui confronti l’ordinamento giuridico non può continuare a disinteressarsi.
1. Il rapporto di lavoro in generale
Il diritto del lavoro nasce con l’intento di offrire protezione al lavoratore subordinato, considerato tradizionalmente come contraente debole, i cui interessi (patrimoniali e non) non sarebbero adeguatamente tutelati se devoluti esclusivamente alla regolamentazione pattizia.
La Costituzione dedica al lavoro una speciale attenzione, come si evince dai riferimenti degli artt. 1 (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”) e 35 (“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni”), arrivando finanche al ripristino della libertà sindacale (art. 39) e al riconoscimento dello sciopero come diritto soggettivo (art. 40).
Vi sono poi delle disposizioni che sanciscono dei diritti sociali specificamente riconosciuti ai lavoratori subordinati (diritto ad una retribuzione sufficiente, al riposo settimanale ed alle ferie retribuite: art. 36; diritto alla parità per lavoratrici e minori: art. 37), i quali costituiscono espressioni del Principio di Uguaglianza, non solo sul piano formale ma anche su quello sostanziale, ammettendo l’esistenza di ostacoli di carattere economico e sociale che la Repubblica deve rimuovere per consentire “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese” (art. 3, 2° comma).
Degna di menzione è l’emanazione della Legge 15 luglio 1966, n. 604, poiché con essa comincia a penetrare nell’ordinamento l’idea di stabilità del posto di lavoro, condizionandosi la legittimità del licenziamento alla sussistenza di un giustificato motivo.
Tuttavia essa è superata dalla Legge 20 maggio 1970, n. 300, nota come lo “Statuto dei lavoratori”, punto d’incontro tra disciplina del rapporto di lavoro e promozione dell’azione sindacale.
1.1. Il lavoro subordinato ed il lavoro autonomo
Lo Statuto ha fortemente ridimensionato la logica autoritaria insita nel rapporto di lavoro subordinato, rendendolo più equilibrato.
La definizione del lavoratore subordinato è contenuta nell’art. 2094 c.c. “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.
La norma va accostata all’art. 2222, secondo la quale si dà luogo alla stipulazione di un contratto d’opera “quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente”.
Dalla lettura combinata delle due disposizioni, emerge che il tratto differenziale tra le due tipologie lavorative si rinviene nella presenza o meno del vincolo di subordinazione, così come inteso dall’art. 2094 c.c.
In quanto ritenuto contraente debole, il lavoratore subordinato accede ad una serie di tutele precluse al lavoratore autonomo.
Ragion per cui la giurisprudenza ha elaborato degli indici di subordinazione, la cui sussistenza permette di stabilire se un rapporto di lavoro rientri nella nozione di lavoro subordinato o meno[4].
Secondo la definizione dell’art. 2094, emergono tre tratti caratterizzanti del lavoro subordinato:
Retribuzione, tale elemento caratterizza il contratto di lavoro subordinato come contratto oneroso di scambio, non dissimile per questo aspetto dai contratti di lavoro autonomo, salva la diversità nominalistica usata per indicare la prestazione del creditore di lavoro.
Collaborazione, rappresenta l’elemento oggettivo dell’obbligazione lavorativa e descrive semplicemente il fenomeno della partecipazione di un soggetto all’attività lavorativa di un altro. La collaborazione nell’impresa, s’identifica con lo scopo tipico della prestazione e con la stessa causa individuatrice del tipo negoziale del contratto di lavoro subordinato, consiste nell’inserzione del lavoratore nell’organizzazione produttiva dell’impresa.
Eterodirezione, nella quale si risolve la c.d. subordinazione tecnico-funzionale, è stato individuato dal Barassi come tratto distintivo del lavoro subordinato. Secondo parte della dottrina esso si riscontrerebbe, con intensità diverse, anche in contratti di lavoro non subordinato, risultando assai sfumata anche in tale ambito, sia con riguardo alle figure professionali più elevate (dirigenti), sia in relazione a quelle operaie meno qualificate (non occorrono particolari direttive per lo svolgimento delle mansioni di un addetto di pulizie). Ciononostante, per riprendere un’affermazione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, “ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come autonomo o subordinato, assume rilievo prioritario e decisivo l’indagine sulla sussistenza del requisito della subordinazione, inteso come vincolo di carattere personale che assoggetta il prestatore d’opera al potere direttivo del datore di lavoro”[5].
2. Le peculiarità del lavoro sportivo e la figura dell’allenatore
Il 4 luglio 1978, i carabinieri fecero irruzione nei saloni dell’albergo milanese Leonardo da Vinci di Milano, allora sede delle contrattazioni del c.d. “calciomercato”, per accertare eventuali violazioni di norme che vietano l’intervento di mediatori nello svolgimento delle pratiche attinenti al trasferimento di calciatori, da considerarsi lavoratori subordinati a tutti gli effetti.
Da allora ci volle quasi un triennio per addivenire all’emanazione di una Legge che disciplinasse la materia, ovvero la Legge 23 marzo 1981 n. 91, rubricata “Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti”, che possiamo ex post considerare la Grundnorm in ambito sportivo.
Quest’ultima all’art. 1, sancisce che “l’esercizio dell’attività sportiva, sia essa svolta in forma individuale o collettiva, sia in forma professionistica o dilettantistica, è libero”, circoscrivendo all’articolo successivo l’ambito di operatività della legge stessa.
L’art. 2 infatti afferma che “ai fini dell’applicazione della presente legge, sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica”.
Nella categoria degli istruttori, allenatori, selezionatori e maestri, sono ricompresi quei soggetti che svolgono compiti di direzione, controllo e addestramento, miglioramento e preparazione tecnico-fisica degli atleti.
Essi entrano a far parte dell’ordinamento sportivo a seguito del buon esito del procedimento di tesseramento, il quale subordina l’esercizio professionale dell’attività sportiva al possesso di particolari requisiti.
Il contratto di lavoro sportivo che intercorre tra la società e l’allenatore è un contratto di lavoro subordinato la cui origine privatistica è innegabile, nonostante l’autonomia delle parti in concreto sia erosa dalle norme imperative che disciplinano in modo inderogabile il contenuto e gli effetti del contratto in ragione della disparità tra le parti contraenti.
Tra i requisiti oggettivi che decretano l’appartenenza alla categoria degli sportivi professionisti vi sono:
l’onerosità, ovvero un ritorno economico correlato alla prestazione resa dall’allenatore, che possa distinguere quest’ultimo dal suo collega dilettante;
la continuità, intesa come dedizione nel tempo all’attività sportiva a cui l’allenatore dedica la propria vita e da cui trae motivo di guadagno, facendone la principale attività lavorativa;
la qualificazione attribuita dalla federazione competente, in base alle direttive del C.O.N.I.
2.1. Il contratto di lavoro sportivo: forma e contenuto
Il successivo art. 4 racchiude la disciplina della forma e del contenuto del contratto di lavoro sportivo ed introduce i principi lavoristici della contrattazione collettiva in subiecta materia.
Esso afferma che il suddetto rapporto “si costituisce mediante assunzione diretta e con la stipulazione di un contratto in forma scritta, a pena di nullità, secondo il contratto tipo predisposto, conformemente all’accordo stipulato, ogni tre anni dalla federazione sportiva nazionale e dai rappresentanti delle categorie interessate”.
La Società ha l’onere di depositare il contratto presso la Federazione Sportiva Nazionale per l’approvazione dello stesso, ed al fine di proteggere la parte contrattualmente più debole, il terzo comma prevede altresì la sostituzione automatica delle clausole peggiorative del contratto rispetto a quelle del contratto tipo, così come prevede la disciplina codicistica di cui all’art. 2077, co. 2, c.c.
Al quinto comma è prevista la possibilità di introdurre nel contratto uno strumento centrale nel sistema di risoluzione delle controversie insorgende dallo stesso, mediante il quale si devolvono ad arbitri le possibili controversie tra la Società e lo Sportivo.
Il sesto comma sancisce il divieto di stipulazione nel contratto di clausole di non concorrenza o limitative della libertà contrattuale dello sportivo, per il periodo successivo all’estinzione del contratto medesimo, al fine di garantire la mobilità dei professionisti in un’attività in cui l’elemento concorrenziale è imprescindibile (tuttavia nel famoso caso Lavezzi, fu dichiarata legittima l’apposizione di una clausola di non concorrenza “nazionale” in quanto compensata da un aumento di stipendio dell’attaccante argentino ex Napoli).
La specialità della disciplina in esame emerge anche all’ottavo comma, in cui sono elencate le disposizioni di diritto comune inapplicabili ai rapporti sportivi: gli artt. 4, 5, 7, 13, 18, 33, 34 dello Statuto dei Lavoratori; artt. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 della Legge 15 luglio 1966, n. 604 sui licenziamenti individuali, nonché l’intera Legge 18 aprile 1962, n. 230 sui contratti di lavoro a termine (ora sostituita dal D.Lgs 6 settembre 2001, n. 638).
L’inapplicabilità di tali norme giustifica, ad esempio, la riproduzione con apparecchi audiovisivi della prestazione lavorativa dello sportivo (data la dimensione spettacolare di quest’ultima) e la possibilità, rilevante all’epoca, di procedere all’assunzione diretta dello sportivo[6], stante il carattere fiduciario ed intuitu personae della prestazione richiesta dalla Società, a cui si accompagna l’impossibilità di adibire lo sportivo a mansioni diverse da quelle per le quali quest’ultimo sia stato assunto, data la specificità e l’infungibilità delle stesse.
L’origine contrattuale del rapporto di lavoro fa sì che tra gli elementi indefettibili di esso, figuri il consenso delle parti ed una predisposizione formale conforme al contratto tipo approvato dalle organizzazioni sindacali di categoria.
Nella fase di approvazione dell’accordo collettivo, le Federazioni, associazioni di natura privatistica che de facto esercitano delle competenze da organi del C.O.N.I., agiscono da soggetti super partes nell’iter che porta alla conclusione di un accordo che tenga conto sia delle esigenze delle Società Sportive, sia degli allenatori, rappresentate rispettivamente dalla Lega e dall’A.I.A.C.
3. L’istituto dell’esonero
Il dizionario della lingua italiana con riguardo al verbo “esonerare” recita testualmente: “dispensare da un obbligo, da un onere; sollevare da un incarico”.
L’esonero è un istituto giuridico del tutto peculiare per mezzo del quale la Società Sportiva, a fronte di risultati tecnici insoddisfacenti o divergenze di vedute a livello di gestione dello spogliatoio e della rosa, solleva l’allenatore dall’adempimento dalle obbligazioni convenute al momento della stipulazione del contratto pur mantenendo salva la corresponsione a quest’ultimo della retribuzione.
L’utilizzo di tale strumento è particolarmente invalso nella tradizione calcistica italiana, poco propensa ad impostare progetti sportivi a lungo termine come invece avviene altrove (Joachim Low, allenatore della Nazionale di Calcio Tedesca da 12 anni; Arsene Wenger, allenatore dell’Arsenal F.C. dal 1996 al 2018; Alex Ferguson, allenatore del Manchester United F.C. dal 1986 al 2013).
Basti pensare che delle 20 squadre che parteciperanno alla Serie A 2019/20, ben 11 club non avranno lo stesso allenatore con il quale si sono presentate ai nastri di partenza della scorsa stagione.
La legittimità di tale pratica non è stata mai messa in discussione dagli allenatori, più per la sostanziale acquiescenza degli stessi – per ragioni di mera opportunità – che per un solido fondamento giuridico di tale istituto.
L’atteggiamento di passività degli allenatori non può tuttavia permettere che in virtù dell’aspetto consuetudinario si possa legittimare un istituto che presenta alcuni aspetti di antigiuridicità.
Dal punto di vista giuridico si definisce l’esonero come un trasferimento sine destinationem, con il quale il creditore (la Società Sportiva) rinuncia all’adempimento dell’altra parte (l’allenatore), ovvero a beneficiare della prestazione lavorativa contrattualmente prevista a carico del tecnico.
In capo all’esonerante permane l’onere di retribuzione dell’esonerato, ma una siffatta prospettazione trova il proprio vulnus nell’interesse ad adempiere che l’allenatore nutre, che si aggiunge al diritto ad ottenere la retribuzione economica.
L’allenatore esonerato non può allenare un’altra squadra fino al termine della stagione sportiva in essere ed in caso di contratto pluriennale, per poter allenare nuovamente deve prima rescindere l’impegno con la Società esonerante e solo allora egli potrà ritenersi libero di accasarsi altrove. Altrimenti egli rimarrà a disposizione della Società fino alla scadenza del contratto, continuando ad essere retribuito e rimanendo a disposizione, nel caso in cui essa decidesse di richiamarlo.
Il rapporto tra Società ed Allenatore riveste quasi sempre i caratteri della prestazione di lavoro subordinato, in quanto quest’ultimo è soggetto alle direttive ed al potere disciplinare della dirigenza della Società.
3.1. L’esonero come ipotesi di trasferimento senza destinazione
L’esonero in quanto riconducibile alla fattispecie del trasferimento di mansioni senza destinazione ovvero come esonero dall’adempimento delle proprie obbligazioni contrattuali, dovrebbe confrontarsi con il disposto dell’art. 13 dello Statuto dei Lavoratori come confluito nell’art. 2103 c.c., rubricato “mansioni del lavoratore”, il quale disciplina la modifica unilaterale delle mansioni lavorative.
Tuttavia l’art. 4 della Legge n. 91/1981 prevede l’inapplicabilità di alcune disposizioni dello Statuto al rapporto di lavoro sportivo, tra cui l’art. 13 e per converso l’art. 2103 c.c.[7].
L’inapplicabilità di detta disposizione comporta delle conseguenze che variano a seconda della corrente dottrinale che si considera più aderente alla lettera della norma.
Un orientamento la considera introduttiva di uno jus variandi del datore di lavoro che in base ai principi generali non sussisterebbe oppure sarebbe esercitabile solo a determinate condizioni; dall’altro lato, diverso orientamento vede la norma come limitativa di un diritto potestativo cui sarebbe riconducibile il potere direttivo del datore di lavoro.
Molti autori hanno considerato l’art. 13 inapplicabile in virtù della particolare specificità dei compiti che costituiscono oggetto dei rapporti sportivi, la quale lascerebbe scarso margine di manovra a mutamenti di mansioni[8], anzi qualcuno in virtù dell’espressa inapplicabilità di tale disposizione ha dedotto la possibilità per il lavoratore sportivo di essere adibito a mansioni non equivalenti, ricavando altresì dall’inapplicabilità dell’art. 18 la legittimità del licenziamento.
3.2. Le radici dello jus variandi
La dottrina ha da sempre considerato lo jus variandi un potere eccezionale, in quanto la regola generale è rappresentata dal principio generale della consensualità nella determinazione oggettiva del contratto, ex artt. 1322 e 1346 c.c. (anche se per il Giugni costituisce una caratteristica naturale del contratto di lavoro[9]).
Lo jus variandi[10] è definito come un potere attribuito al datore di lavoro in una peculiare condizione giuridica, qual è l’impresa; da ciò, e dagli eventuali poteri sussistenti in capo al datore di lavoro, non è però possibile desumere il potere di variazione della prestazione concordata.
La dottrina risalente di Demogue[11] raffrontava l’istituto dello jus variandi con il diritto di recesso, in quanto il primo sarebbe una species del secondo, potere quest’ultimo sì ampio da arrivare fino alla determinazione potestativa della cessazione del vincolo obbligatorio.
Il Giugni, invece, criticava fermamente tale dottrina in quanto questi due poteri sarebbero ontologicamente divergenti l’uno dall’altro e detta ricostruzione risultava una forzatura ermeneutica volta a ravvicinare due istituti dalle conseguenze dissimili e non sovrapponibili.
A dare man forte alla suddetta tesi interviene anche l’orientamento dottrinale secondo il quale è necessario il consenso del lavoratore per procedersi a modifiche delle mansioni estranee a quelle contrattuali.
In tal caso ci si troverebbe dinanzi ad un vera e propria vicenda modificativa della prestazione ed in tali situazioni non opera uno jus variandi incondizionato nell’ambito dell’equivalenza[12], in quanto l’accettazione delle nuove mansioni – se ritenuta necessaria – non può essere ridotta al contegno concludente del lavoratore, essendo invece necessaria l’accettazione esplicita del mutamento da parte dello stesso.
Si osserva che vi è una tendenza generale dell’ordinamento “a sancire l’attribuzione dello jus variandi sempre mediante una esplicita statuizione di legge”[13]; le norme che prevedono tale potere hanno peraltro natura eccezionale, non estensibile in via analogica[14].
Tra le condizioni cui veniva assoggettato lo jus variandi prima dell’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori, autorevole dottrina[15] ricordava la sussistenza di specifiche esigenze dell’impresa.
Tale condizione viene definita come “limite interno” in forza del quale un atto che nasceva come libero scadeva a meramente discrezionale, divenendo invalido se non indirizzato in concreto alla soddisfazione dell’interesse per la tutela del quale il relativo potere è attribuito.
Il medesimo limite viene poi ripescato dalla dottrina nell’ipotesi del trasferimento del lavoratore che “vale a condizionare il potere alla realizzazione di quell’interesse per cui il potere è attribuito”[16].
Lo stesso autore[17] giunge a ritenere il potere unilaterale di modificazione delle mansioni “come strumento eccezionale, non può essere ammesso se non in presenza di una norma inequivoca che lo attribuisca”[18].
Si può pertanto sostenere che l’art. 2103 diviene una norma di legittimazione all’esercizio dello jus variandi, in mancanza della quale lo stesso non sussisterebbe.
Da ciò consegue che nel campo del lavoro subordinato sportivo, stante il disposto dell’art.4 della Legge n. 91/1981 e l’inapplicabilità dell’art. 2103, l’eventuale mutamento di mansioni è ricostruibile solo in base ai principi generali.
Tale normativa infatti fa sì che il settore del lavoro subordinato sportivo sia regolato dalle regole generali, come se non ci fosse l’art. 2103; e poiché lo jus variandi del datore di lavoro sportivo non può trovare la propria fonte in altre disposizioni normative, quali l’art. 2094 c.c. o in altre norme della Legge sul professionismo sportivo, ne consegue che tale potere non compete al datore di lavoro, se non espressamente previsto da disposizioni contrattuali, individuali o collettive.
3.3. La differenza con il licenziamento
Spesso nel gergo giornalistico l’istituto dell’esonero viene confuso con il licenziamento, anche se tra i due vi è una differenza ontologica.
Il licenziamento trova applicazione soltanto nei rapporti a tempo indeterminato (mentre il rapporto di lavoro sportivo può avere una durata quinquennale massima) e può essere comminato:
per giusta causa, ex 2119 c.c. ovvero per una causa tale da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Essa può consistere in qualsiasi fatto di oggettiva gravità, riferibile tanto alla sfera contrattuale quanto a quella extra-contrattuale;
per giustificato motivo soggettivo, consistente in un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro. Si tratta di fatti o comportamenti colposi del creditore che seppur meno gravi rispetto all’ipotesi sub a), contaminano irrimediabilmente il rapporto fiduciario in essere tra le parti;
disciplinare, quale massima sanzione comminabile dal datore di lavoro in seguito all’inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore. La legittimità di tale licenziamento è subordinata al rispetto della procedura delineata dalla Legge n. 604/1966 e dall’art. 7 della Legge n. 300/1970;
per giustificato motivo oggettivo, ossia per fatti inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. Vi rientrano tutte quelle situazioni aziendali che possono condurre alla soppressione di un posto di lavoro, salvo l’obbligo di repechage del datore di lavoro.
Con il licenziamento il lavoratore cessa di prestare la propria attività a favore del datore di lavoro, venendo reciso formalmente e sostanzialmente il suo vincolo contrattuale con quest’ultimo.
L’esonero invece, comporta una cessazione sostanziale dell’attività lavorativa, in quanto il rapporto contrattuale rimane formalmente valido, così come l’obbligo in capo al datore di lavoro di corrispondere la retribuzione fino alla naturale scadenza dello stesso.
3.4. Il mobbing
Con il termine “mobbing” ci si riferisce a tutte le forme di terrore psicologico sul posto di lavoro, ad attacchi sistematici e reiterati, abusi, oltraggi, soprusi esercitati da colleghi o da un superiore su un lavoratore indesiderato per diverse ragioni.
Da ciò può conseguire “la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisico e psichico e del complesso della sua personalità” (ex multis Cass. Civ., n. 3875/09).
La Suprema Corte nella suddetta pronuncia ricomprende nel mobbing, “un comportamento del datore di lavoro (o del superiore gerarchico, del lavoratore a pari livello gerarchico o addirittura subordinato), il quale, con una condotta sistematica e protratta nel tempo e che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, pone in essere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro”.
La dottrina ha ravvisato tre elementi costitutivi:
l’ambito lavorativo;
la frequenza, la durata, la reiterazione e la particolare intensità delle azioni vessatorie intraprese, con relativo parimenti intenso e rilevante danno patito dalla vittima;
l’intento persecutorio e/o discriminatorio posto in essere nei confronti della vittima.
Tale fenomeno negli ultimi anni ha colpito anche il mondo dello sport, trovando anche qui tutela e protezione in virtù del fatto che lo svolgimento dell’attività lavorativa costituisce non soltanto un obbligo, ma un diritto tutelato dall’ordinamento giuridico allo svolgimento dell’attività sportiva (salvo assenze giustificate da infortuni, esigenze tecnico-sportive, squalifiche).
Non è infatti ammissibile che l’atleta ne sia escluso a tempo indeterminato e senza una motivazione plausibile e, ove ciò si verifichi, le conseguenze sono la lesione del diritto all’immagine professionale, oltreche la perdita di chances professionali future.
Si pensi al “caso Cassano”, quando ai tempi della sua militanza con l’A.S. Roma, egli venne relegato in panchina per un lungo periodo di tempo a causa del rifiuto a rinnovare il contratto, sì da incidere negativamente sull’immagine professionale e le chances lavorative dello stesso, nonché sulla dell’allora Commissario Tecnico, Marcello Lippi, di non convocare il giocatore per la fortunata spedizione mondiale di Germania 2006.
Vicende analoghe, ma con esiti diversi hanno riguardato altri calciatori come Luis Jimenez della Ternana con una vicenda portata all’attenzione della Sezione Lavoro del Tribunale di Terni, conclusasi con una conciliazione tra le parti.
Nel caso del Sarri, qualora il patron azzurro Aurelio De Laurentis non avesse “liberato” l’allenatore toscano dal suo contratto, per favorire la stipulazione di un accordo con il Chelsea F.C., egli avrebbe potuto lamentare:
un danno da perdita di chance (le trattative con il Chelsea F.C. si erano effettivamente tenute);
un comportamento sleale del datore di lavoro (assumere Ancelotti in vigenza del rapporto con Sarri non permette di elevare elogi a De Laurentis) volto ad interrompere bruscamente tale rapporto;
un danno all’immagine professionale del lavoratore;
una lesione del diritto del Sarri a prestare la propria attività in quanto lavorativa e
4. La necessità di tutela dell’allenatore in quanto lavoratore e sportivo
Nel diritto sportivo la stessa nozione di diritto all’esecuzione della prestazione finisce con mutare nel diritto all’esecuzione sportiva: l’esecuzione sportiva deve infatti essere considerata come parte della libera esplicazione della propria personalità e costituisce quindi una componente del diritto alla realizzazione personale.
Il concetto di diritto alla realizzazione personale viene configurato come il diritto a vivere pienamente la propria esistenza, la cui lesione configura appunto il danno esistenziale.
L’interesse all’esercizio della pratica sportiva come diritto fondamentale delle persona non ha avuto storicamente molta attenzione, forse perché di rado lo sport è stato sottoposto a limitazioni da parte dell’autorità.
Oggigiorno l’importanza del fenomeno sportivo è cresciuta prepotentemente ed in misura altrettanto esponenziale sono aumentati gli stakeholders intenzionati ad approfittare dei possibili guadagni connessi al mondo dello sport.
Per questo, in attesa di una tutela positiva, si deve apprestare all’atleta e al suo allenatore ex iure naturale la giusta tutela giuridica, la quale va ricompresa nella più ampia tutela dei diritti umani, dei diritti dell’uomo: ciò allo scopo di riconoscere ad ogni uomo quei diritti minimi che lo fanno essere persona completa: il diritto a vivere come egli desidera, come intende esplicare la propria personalità per conseguire la propria realizzazione personale.
L’esecuzione sportiva è patrimonio fondamentale di ogni persona dedita allo sport, soprattutto oggi che il corpo è sempre più sacrificato ad una vita dominata dalle macchine e dai computer: lo sport, invero, è una delle poche occasioni in cui l’attività fisica può manifestarsi appieno.
Ma se questo diritto va riconosciuto ad ognuno, a fortiori va riconosciuto ad uno sportivo professionista: l’atleta, e così l’allenatore, è veramente sé stesso quando pratica il suo sport; toglierglielo equivale a togliergli una parte di sé.
Il diritto all’esecuzione sportiva diventa quindi il diritto a praticare il proprio sport al livello che si merita di avere.
Se si è atleta in relazione ad altri competitori, non si può essere atleta se non in relazione a competitori adeguati: il diritto all’esecuzione sportiva diventa diritto a partecipare se si ha diritto a partecipare, diritto a vincere se si ha diritto a vincere.
E’ questo un diritto costituzionalmente tutelato, come attualmente esige la giurisprudenza di legittimità[19] per accordare il risarcimento del danno esistenziale, posto che il diritto dello sportivo professionista a svolgere la propria prestazione costituisce un’estrinsecazione del diritto ad esplicare al meglio la propria personalità (ex art. 2 Cost.), a scegliersi un lavoro confacente alle proprie aspirazioni (ex art. 4 Cost.), a lavorare in libertà e dignità (ex artt. 36 e 41 Cost.).
La categoria del danno esistenziale ben può quindi supportare la giusta richiesta di tutela degli allenatori che vengano ingiustamente esonerati, al di là dell’eventuale danno patrimoniale che ne consegua.
4.1. Le condizioni necessarie per l’esonero dell’allenatore
In quanto tale istituto soggiace alle regole generali che informano la disciplina giuslavorista, se non sussiste consenso dell’altra parte, l’esonero diviene legittimo solo quando la prestazione in sé sia divenuta impossibile, ma non per colpa dell’allenatore e quindi non in modo tale da giustificare la risoluzione del contratto.
Ed è chiaro che, essendo la locatio operarum un’obbligazione di mezzi e non di risultato, anche pessimi risultati sportivi da soli non potrebbero configurare una responsabilità dell’allenatore.
Lo jus variandi va giustificato sulla fonte testuale degli artt. 1175, 1176, e soprattutto 1375 c. c.: la buona fede impone al debitore (il lavoratore) di collaborare con il creditore (il datore di lavoro) per la migliore riuscita della prestazione lavorativa.
Tale prestazione per essere utile deve essere possibile: in ciò si sostanzia un principio volto ad introdurre quel minimo di collaborazione cui deve informarsi ogni ordinamento giuridico moderno, sì da non ledere l’interesse altrui fuori dai limiti della legittima tutela dell’interesse proprio.
Vi è poi quella corrente giurisprudenziale[20] secondo la quale dal principio dell’art. 1175 c. c. si ricaverebbe che gli stessi atti di esercizio dei poteri discrezionali del datore di lavoro sono soggetti alla regola della correttezza, con conseguente obbligo della motivazione al fine di esteriorizzare i criteri adottati.
Anche dal principio di buona fede si ricava che la prestazione del debitore, per essere utile, deve anche essere possibile.
Assume rilevanza pertanto l’intuizione del Demogue, configurando cioè la giusta causa di esonero come un minus della giusta causa di recesso, ricercando nell’ambito della disciplina del recesso le cause giustificative di uno jus variandi anche laddove è espressamente esclusa l’applicabilità dell’art. 2103 c. c.
Si può sostenere che l’esonero sia possibile in presenza di una giusta causa che non consenta la continuazione del rapporto di lavoro con quella specifica mansione: l’unica condizione legittimante l’esonero dell’allenatore è quindi la sussistenza di un impedimento oggettivo, assimilabile alla giusta causa prevista nell’art. 2119 del cod. civ. come causa di recesso immediato.
Basandosi dunque sul concetto di giusta causa di esonero, per la sua sussistenza ci si può riferire alla giurisprudenza in tema di giusta causa di recesso, che attribuisce particolare rilevanza all’elemento fiduciario, ritenuto “elemento indefettibile del rapporto”[21], la cui lesione legittima il licenziamento.
Pertanto una volta ammessa la necessità di una giusta causa di esonero, questa può essere ricostruita dal Giudice competente, sulla base di una serie di valutazioni concrete, tenendo ben presente l’essenziale elemento fiduciario e la specificità del lavoro subordinato sportivo[22].
A questo proposito va ricordato che la dottrina ravvisa, nella prestazione sportiva “un’intensità del carattere della subordinazione maggiore rispetto alle altre prestazioni lavorative contemplate nel nostro ordinamento”[23].
Riguardo alla specialità di tale rapporto risultano accentuati i vincoli a cui l’allenatore è soggetto: ciò vale sia per il dovere di diligenza, che nel campo sportivo non può misurarsi con il metro del buon padre di famiglia ex art. 1176 c. c.; sia per il dovere di disciplina che di fedeltà.
Tutto ciò va coordinato con il ruolo di “intermediario” dell’allenatore, nella concretizzazione dell’indirizzo tecnico della società, nel suo carattere di espressione finale – e perciò essenziale – della speciale subordinazione che lega lo sportivo professionista alla società di appartenenza.
La giusta causa di esonero potrà rinvenirsi nell’impossibilità di continuare ad allenare quella specifica squadra per rottura del vincolo fiduciario allenatore-giocatori, dovendosi procedere all’esonero solo dopo aver appurato la fiducia della squadra nei confronti del suo tecnico.
In tale ottica l’allenatore sarebbe legittimamente assoggettabile all’esonero qualora non godesse più della fiducia della rosa a sua disposizione, poiché tale perdita di fiducia gli renderebbe impossibile portare avanti il suo compito di conduzione tecnica.
Ove si condivida questa tesi la società potrebbe legittimamente esonerare l’allenatore solo dopo aver verificato la sfiducia della squadra nei suoi confronti.
Questa soluzione è adatta anche per quella corrente di pensiero che configura l’esonero come una facoltà giustificata dall’esercizio dei poteri imprenditoriali, giacché il corretto esercizio degli stessi non legittima un esonero immotivato correlato al puro arbitrio della Società Sportiva.
5. La libera circolazione degli sportivi
Presentando dei tratti di transnazionalità, la vicenda del Sarri permette di poter menzionare en passant il caso Bosman, il quale ha permesso agli sportivi comunitari di potersi liberamente accasare all’interno dell’Unione Europea.
Nel 1990 il 26enne Jean-Marc Bosman decideva di non rinnovare il contratto in essere con il Royal Football Club Liegi, squadra belga di prima divisione, accordandosi con i francesi del Dunkerque nella successiva sessione di Calciomercato.
Il trasferimento non si concretò poiché non si trovò l’accordo con il Liegi per l’indennizzo, nonostante il contratto con il club belga fosse scaduto.
La conseguenza fu che Bosman fu messo fuori squadra con l’ingaggio ridotto, decidendo di fare causa alla RFC Liegi, alla federazione calcistica belga ed anche all’UEFA.
Della questione fu investita la Corte di Giustizia, la quale diede ragione a Bosman stabilendo che i regolamenti federali sulla compravendita dei calciatori causassero una illegittima restrizione alla libera circolazione dei lavoratori, prevista dall’art. 39 del TCE.
Da quel giorno a tutti i calciatori europei fu consentito trasferirsi liberamente da una squadra europea all’altra al termine del proprio contratto, e firmare un pre-contratto con un altro club nei sei mesi precedenti la scadenza di quello in vigore con la propria squadra.
Ai fini della presente trattazione va evidenziato che la Corte stabilì che nelle limitazioni all’utilizzo di giocatori stranieri, non potevano rientrarvi quelli comunitari, pena la lesione della libera circolazione ex art. 39.
Tra gli obiettivi del TCE, l’art. 2 prevede l’instaurazione di un mercato comune, alla cui realizzazione è strumentale “l’eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali” (art. 3); affinché sia realizzata la libertà di circolazione delle persone, l’art. 12 vieta “qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità”.
Gli artt. 39 ss. sulla libera circolazione dei lavoratori riconoscono a ciascun cittadino europeo il diritto di svolgere un’attività lavorativa su tutto il territorio dell’Unione, con conseguente abolizione di ogni forma di discriminazione basata sulla cittadinanza.
La Corte di Giustizia ha più volte affermato che l’insieme delle norme del Trattato concernenti la libera circolazione delle persone mira a facilitare ai cittadini comunitari l’esercizio di attività di qualsiasi natura nel territorio comunitario e ostano all’adozione da parte degli Stati membri di misure, provvedimenti, azioni che ne ostacolino direttamente o indirettamente l’esecuzione o che comunque ne sfavoriscano lo svolgimento.
6. Profili risarcitori legati alla lesione della sfera giuridica (patrimoniale e non) dell’allenatore
In presenza di un esonero disposto in carenza dei presupposti, l’allenatore potrebbe chiedere alla società di risarcirgli i danni che gliene derivano e che non vanno limitati a quelli patrimoniali che l’allenatore professionista può subire come indiretta conseguenza della perdita di reputazione connessa al suo esonero, in quanto esso arreca senz’altro anche un rilevante danno non patrimoniale all’allenatore esonerato.
Già nel 1995 la Cassazione aveva evidenziato come “in qualsiasi attività professionale l’inattività incida sulla professionalità e sui corrispettivi economici legati all’impiego”, configurando il diritto “in via di principio” in capo al lavoratore “a non essere allontanato da ogni mansione, e cioè il diritto all’esecuzione della propria prestazione” (Cass. Civ., Sez. Lav., 3 giugno 1995, n. 6265). Dopo l’emersione della categoria del danno esistenziale, nel 2001 si è affermato che “il lavoro costituisce non soltanto un mezzo di sostentamento e di guadagno, ma anche un mezzo di estrinsecazione della personalità del lavoratore” (Cass. Civ., Sez. Lav., 14 novembre 2001 n. 14199) per cui l’adibizione a mansioni inferiori o la forzata inattività causano un danno che deve essere risarcito.
In un importante arresto giurisprudenziale (Cass. Civ., Sez. Lav., 26 maggio 2004 n. 10157) la Suprema Corte ha affermato che il danno da dequalificazione professionale “attiene alla lesione di un interesse costituzionalmente protetto dall’art. 2 Cost., avente ad oggetto il diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità nel luogo di lavoro secondo le mansioni e con la qualifica spettategli per legge o per contratto. Pertanto, i provvedimenti del datore di lavoro che illegittimamente ledono tale diritto vengono immancabilmente a ledere l’immagine professionale, la dignità personale e la vita di relazione del lavoratore, sia in tema di autostima e di eterostima nell’ambiente di lavoro ed in quello socio familiare, sia in termini di perdita di chances per futuri lavori di pari livello”.
La stessa Suprema Corte ha da ultimo riconosciuto il danno esistenziale al lavoratore demansionato (Cass. Civ, Sez. Lav., 10 gennaio 2018, n. 330) con una pronuncia che riepiloga i principi fondamentali in subiecta materia.
D’altronde il diritto all’esecuzione della propria prestazione è strettamente collegato alla tutela della professionalità del lavoratore, come “immediata e diretta protezione alla dignità del lavoratore o, se si vuole, della sua personalità professionale” (così Pisani)[24]: la sottrazione di mansioni senza conferimento di altre analoghe configura un’illecita sottoutilizzazione professionale, che sicuramente costituisce fonte di danno esistenziale in capo al lavoratore/allenatore.
Interessante a tal proposito è la tesi di chi[25] motiva l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 2103 c. c., per gli sportivi professionisti, con la sussistenza di un “interesse oggettivamente giustificato, e quindi un diritto all’esecuzione del lavoro” in capo allo sportivo (come all’interprete di opere drammatiche e musicali, o al giornalista).
Secondo lo stesso autore ciò avviene ogni qualvolta il lavoratore, oltre che l’interesse alla retribuzione, ha pure quello all’esecuzione del lavoro, giustificato oggettivamente dalla natura dell’attività di cui si tratta.
Deve pertanto considerarsi tutelato anche l’interesse all’utilizzazione, da parte dell’imprenditore, del lavoro eseguito e nella forma prevista[26].
L’esonero può pertanto causare dei risvolti non patrimoniali, rischiando di ledere l’immagine, nonché la dignità professionale dell’allenatore stesso, circostanza che assume una rilevanza tutt’altro che insignificante, stante anche il disposto dell’art.2087 c.c., il quale impone al datore di lavoro di proteggere, oltre all’integrità fisica, “la personalità morale del lavoratore”.
I fattori che lo causano sono di matrice diversa e in alcune situazioni è difficile trovare una “colpa” dell’allenatore che lo giustifichi.
Le cause più comuni sono da rinvenirsi in:
risultati non in linea con le aspettative societarie, anche alla luce degli investimenti fatti in sede di calciomercato;
attuazione del progetto tecnico-tattico con modalità non condivise dall’assett societario;
problemi di comunicazione con lo spogliatoio, lo staff tecnico e gli organi della Società (dirigenti, presidente).
Tuttavia anche i migliori allenatori vengono esonerati, quindi è un evento che rimane statisticamente probabile, da considerare tra i rischi possibili a cui è soggetto l’allenatore durante la sua carriera professionale.
Da dramma può tramutarsi però in un nuovo stimolo, in un passaggio necessario per la crescita, potendo quest’ultimo approfittarne per un eventuale aggiornamento o approfondimento di alcune tematiche, nonché di riflettere in maniera autocritica sul proprio modus operandi che può aver inciso sull’esonero stesso, senza per questo rinunciare ad un guadagno economico.
7. Profili procedurali: la giurisdizione in materia di esonero
L’art. 4 della Legge n. 91/1981 prevede la facoltà per le parti di inserire nei contratti di lavoro sportivo la clausola compromissoria, con la quale il tesserato s’impegna ad adire i Collegi arbitrali istituiti presso le Federazioni per la risoluzione delle controversie economiche che possono insorgere con le società sportive.
La citata disposizione trova la sua ratio nel carattere spiccatamente fiduciario del rapporto di lavoro sportivo che, unitamente ad una pressoché generalizzata mancanza di squilibrio nei rapporti di forza tra le parti, attenua, nella fase di conclusione del rapporto, la posizione di disparità delle stesse, riducendo sensibilmente la possibilità che la volontà dello sportivo non si formi in maniera del tutto libera e scevra da condizionamenti.
La suddetta facoltà fa sì che non sia necessaria una siffatta previsione nel contratto collettivo recepito in quello individuale attraverso il contratto tipo, in quanto, anche laddove il contratto collettivo nulla disponga in merito, ben potrebbero le parti inserire nel contratto individuale la suddetta clausola, traendo la volontà espressa in tal senso piena legittimità dalla legge che tale facoltà prevede e disciplina.
Ciò che è richiesto è che la clausola risulti chiaramente espressa nel contratto individuale, non potendo essere richiamata per relationem, poiché gli artt. 24, 102, 1° co. Cost., non consentono arbitrati obbligatori, poiché causanti un’illegittima compressione del diritto di difesa e la violazione del principio generale della tutela giurisdizionale.
Nonostante la previsione non abbia carattere obbligatorio, nella prassi gli accordi collettivi di categoria prevedono l’obbligo di munire il contratto individuale di lavoro di una clausola compromissoria, la cui violazione costituisce illecito disciplinare, in virtù dell’autonomia dell’ordinamento sportivo rispetto a quello statale.
In ambito internazionale l’inserimento della suddetta clausola costituisce, ai sensi dell’art. 10, par. 4, lett. c), presupposto per l’ammissione alla F.I.F.A. per le Confederazioni, giacché la richiesta di affiliazione da parte dell’associazione (es. U.E.F.A.) è subordinata “ad una dichiarazione che riconosca l’autorità del T.A.S.”, pena l’applicazione delle sanzioni previste dallo Statuto F.I.F.A.
Delle competenze del Collegio arbitrale si occupa l’art. 48 C.G.S.-F.I.G.C., in base al quale:
“La F.I.G.C. riconosce pieno effetto alle decisioni pronunciate dai Collegi arbitrali, costituiti sulla base degli accordi collettivi con le Associazioni rappresentative degli sportivi professionisti, per la risoluzione delle controversie fra sportivi professionisti e società di appartenenza”.
8. Conclusioni
Alla luce delle considerazioni sopra riportate, si è voluto compiere un’attenta riflessione sulle perplessità che l’istituto solleva, specialmente con riferimento alla propria copertura costituzionale.
Tale pratica, infatti, poggia su un terreno su cui insistono due differenti “proprietari”: l’ordinamento statale e quello giuridico, ognuno promotore di proprie istanze, a volte difficilmente conciliabili.
La necessità di trovare una terza via che consenta di mediare le esigenze di entrambi, è un onere derivante dalle conseguenze dell’esonero, ricadenti in due distinte realtà ordinamentali.
Il rapporto di compenetrazione tra i due ordinamenti richiede che l’esonero rispetti i valori sottesi nella Carta Costituzionale coinvolti in tale vicenda, aventi una valenza non meramente programmatica e dal cui rispetto discenderebbe una regolamentazione puntuale di tale pratica tale da contrastarne un ricorso ad libitum e irrispettoso della disciplina giuslavorista comune.
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[1] J. Tognon, Diritto comunitario dello sport, Torino 2009, p. XI.
[2] E. Lubrano, Ordinamento sportivo e Giustizia statale, XIV cap. di Lo sport e il diritto, AA.VV., Napoli 2004.
[3] S. Romano, L’ordinamento giuridico, Pisa 1918, pp. 25 ss.
[4] Assenza di rischio, continuità, assoggettamento ad un orario di lavoro, corresponsione della retribuzione a cadenze fisse, ecc.). Cfr. M. Roccella, Manuale di Diritto del Lavoro, Torino 2010, p. 35.
[5] Cfr. Cass. Civ., SS.UU., 30 Giugno 1999, n. 379.
[6] Il mercato del lavoro, o meglio l’incontro tra domanda e offerta doveva svolgersi sotto il controllo pubblico, al fine di evitare discriminazioni nell’accesso al lavoro e abusi a danno dei lavoratori, seguendo il criterio della c.d. chiamata numerica inoltrata agli uffici pubblici nelle cui liste di collocamento i soggetti da avviare al lavoro erano obbligati ad iscriversi. Oggi il sistema delle assunzioni è stato liberalizzato e sburocratizzato e la disposizione ha perso la sua connotazione fortemente derogatoria che aveva al tempo della sua emanazione. Cfr. M. T. Spadafora, Diritto del lavoro sportivo, Torino 2012.
[7] P. Dalla Costa, La disciplina giuridica del lavoro sportivo, Vicenza 1993, p. 67.
[8] F. Rotundi, La legge 23 marzo 1981 n. 91 ed il professionismo sportivo: genesi, effettività e prospettive future, in Riv. Dir. Sport., 1991, p. 31.
[9] G. Giugni, Mansioni e qualifica del rapporto di lavoro, Napoli, 1963, p. 229.
[10] Ibidem, p. 232.
[11] R. Demogue, Des modifications aux contrats par volonte’ unilaterale, in Revue trimestrielle de droit civil, 1907, pp. 245-306
[12] C. Pisani, La modificazione delle mansioni, Milano 1996, p. 15.
[13] Ibidem, p. 15.
[14] Storicamente peraltro, nella locatio operarum lo jus variandi è stato riconosciuto in virtù di un supposto consenso tacito iniziale, ovvero con varie motivazioni volta a volta ritrovate nella reciproca benevolenza delle parti, nell’equità e nella buona fede nell’esecuzione del contratto, negli usi integrativi del contratto. Nella sua evoluzione storica, lo jus variandi non è ammesso sempre (cfr. Giugni, op. cit., p. 263): costante è il richiamo ad un presupposto di fatto che valga a legittimarne l’esercizio, come condizione di necessità sulla base delle necessità aziendali: non è mai rimesso all’arbitrio di parte.
[15] G. Suppiej, Il rapporto di lavoro, Padova 1982, p. 308.
[16] Ibidem, p. 341.
[17] Ibidem, p. 324.
[18] La ratio secondo il Giugni (op. cit., p. 173) sarebbe allora quella di adeguare la prestazione ad esigenze sopravvenute nel corso del rapporto, da cui altri autori hanno ricavato la prevalenza delle ragioni tecnico-organizzative dell’impresa sul diritto del lavoratore a vedersi mantenuto nelle stesse mansioni iniziali. Tale ratio deve però confrontarsi con i principi generali del contratto in subiecta materia ed in particolare con il disposto degli artt. 1321 e 1372 c. c. da cui si ricava che il solo strumento idoneo a modificare il contenuto del contratto è l’accordo della parti (così Pisani, op. cit., p. 40) da cui si ricaverebbe “l’impossibilità di riconoscere un simile potere in assenza di una espressa previsione” proprio perché lo jus variandi, come diritto potestativo, non potrebbe configurarsi se non in presenza di una specifica investitura normativa o contrattuale.
[19] Le famose Sentenze gemelle Cass. Civ. 31.5.2003, n. 8827 e Cass. Civ. 31.5.2003 n. 8828, nel cui solco si sono poi inserite Cass. Civ. 12.12.2003 n. 19057, Cass. Civ. 10.2.2004 n. 2494, Cass. Civ. 23.2.2004 n. 3549, e Cass. Civ. 25.2.2004 n. 3806.
[20] Cass. Civ. n. 5688/1979, Cass. Civ. n. 3675/1983, Cass. Civ. 31741/1984, Cass. Civ. 2621/1985.
[21] Ex plurimis: Cass. Civ., Sez. Lav., 26.7.2002, n. 11108.
[22] In un rapporto l’elemento a fiducia viene infatti ad essere una fiducia “a due vie”, è fondamentale vi sia fiducia del presidente nell’allenatore e fiducia della squadra verso l’allenatore stesso.
[23] Dalla Costa, op. cit., pp. 66.
[24] G. Pisani, op. cit., p. 129.
[25] F. Santoro-Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, Napoli 1995, p. 194.
[26] Di interesse all’esecuzione della prestazione lavorativa parlano anche F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, (Diritto del lavoro, Vol. II., Il rapporto di lavoro subordinato, Torino 1992, p. 280). Anche Trabucchi (Istituzioni di diritto civile, Padova 1990, p. 515) parlava in generale della possibilità di un interesse del debitore all’adempimento, citando in particolare il caso dell’artista (facilmente assimilabile allo sportivo professionista) avente interesse a rappresentare la sua parte nella recita. Da ciò deriverebbe una fattispecie complessa in cui in effetti (nel caso esemplificato) il creditore della prestazione principale è in parte anche il debitore della realizzazione della recita. Applicando alla nostra questione il ragionamento del Trabucchi, si può configurare una società sportiva creditrice verso l’allenatore della prestazione lavorativa, e debitrice nei suoi confronti dell’assegnazione della squadra alla sua conduzione tecnica.
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Augusto Valente
Avv. Augusto Valente
Nel 2020 ha conseguito l'abilitazione forense presso la Corte d'Appello di Roma, è iscritto presso il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Cassino (FR).
Ha conseguito, in entrambi i casi presso l'Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale, la laurea in Servizi Giuridici per lo Sport, discutendo la tesi in Diritto del Lavoro Sportivo con il Prof. Luca Miranda, e la laurea magistrale in Giurisprudenza discutendo la tesi in Diritto Processuale Amministrativo con la Prof.ssa Margherita Interlandi.Ha collaborato, negli anni accademici 2018 e 2019 con le cattedre di Diritto Amministrativo e Diritto Processuale Amministrativo del Prof. avv. Raffaele Montefusco, presso l'Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale.
Ha svolto la pratica forense presso lo Studio Legale Santopietro in Pontecorvo (FR), occupandosi prevalentemente di Diritto Civile e Diritto Amministrativo. Dal 2019 fa parte dello studio CLAvis - Consultants Lawyers & Accountants di Roma, occupandosi di Diritto Civile, Amministrativo e Sportivo. È autore di diverse pubblicazioni sulla rivista scientifica online Salvis Juribus.
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