Il sindacato di legittimità in materia di “Patteggiamento”
Sommario: 1. Premessa: lo stato dell’arte a seguito della L. 103/2017 (c.d. Legge Orlando) – 2. Confisca e patteggiamento: l’ineludibile onere giustificativo
1. Premessa: lo stato dell’arte a seguito della L. 103/2017 (c.d. Legge Orlando)
Come è noto, la l. 103/2017 (cd. Legge Orlando), nel chiaro intento di assicurare una più celere definizione dei procedimenti, ha ridimensionato la disciplina codicistica del rito speciale normativamente previsto dagli artt. 444 e ss., circoscrivendo l’ambito degli errores in iudicando censurabili in sede di legittimità.
A tale proposito, il novellato comma II bis dell’art. 448 c.p.p. statuisce adesso espressamente che “Il pubblico ministero e l’imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza”.
Ebbene, pur nella consapevolezza del rinnovato quadro normativo, nondimeno, va ribadita la centralità che l’impianto giustificativo riveste nell’attuale quadro costituzionale, specie con riguardo a quei provvedimenti funzionalmente diretti ad incidere sulla libertà personale del singolo, fra i quali non possono non essere ricompresi, unitamente alle pronunce di condanna in senso stretto, anche quelli conseguenti all’applicazione del rito previsto dall’art. 444 e ss. c.p.p..
Ed invero, avuto specifico riguardo al perimetro estensivo del dovere motivazionale in materia di patteggiamento, la giurisprudenza di legittimità, già in epoca risalente, non ha mancato di provvedere, in ossequio al dato precettivo direttamente ricavabile dal combinato disposto di cui agli artt. 111 e 125 co. III c.p.p., all’individuazione dello schema euristico cui il decidente è tenuto a conformarsi.
Emblematica, in tal senso, è la pronuncia a Sezioni Unite n. 5777/1992, con la quale si è proceduto analiticamente a delineare l’architettura contenutistica della sentenza che applica la pena su richiesta delle parti, evidenziando, a tal fine, la necessità per il Giudice di operare secondo uno schema delibativo ad un tempo positivo e negativo, “Positivo quanto all’accertamento: a) della sussistenza dell’accordo delle parti sull’applicazione di una determinata pena; b) della correttezza della qualificazione giuridica del fatto nonché della applicazione e della comparazione delle eventuali circostanze; c) della congruità della pena patteggiata, ai fini e nei limiti di cui all’art. 27 Cost., comma 3; d) della concedibilità della sospensione condizionale della pena, solo qualora l’efficacia della richiesta sia stata subordinata alla concessione del beneficio. Negativo quanto alla esclusione della sussistenza di cause di non punibilità o di non procedibilità o di estinzione del reato”. (cfr. Cass. Pen. Sez. Unite, n. 5777/1992, Di Benedetto; Cass. Pen., Sez. IV, 03/12/2003, n. 3499).
Correlativamente, ne discende che, affinché l’obbligo di motivazione in materia di patteggiamento possa dirsi compiutamente soddisfatto, è necessario che il Giudice, rispetto agli elementi sottratti o, comunque, non specificatamente oggetto dell’accordo cui sono pervenute le parti processuali, esprima un corredo giustificativo che non si esaurisca nell’utilizzo di mere clausole di stile, di guisa che il contenuto della sentenza che applica la pena non si riduca alla stregua di un acritico recepimento della volontà negoziale.
2. Confisca e patteggiamento: l’ineludibile onere giustificativo
Tanto doverosamente premesso in relazione all’attuale quadro giuridico di riferimento, occorre a questo punto trasferire il focus della presente disamina avuto riguardo all’ ulteriore aspetto, non riguardante il trattamento sanzionatorio in senso stretto, anch’esso rivestente centrale importanza in materia di patteggiamento, e cioè quello involgente il perimetro applicativo della misura di sicurezza della confisca.
Segnatamente, il principale referente normativo al riguardo è costituito dall’art. 445 c.p.p., il quale, letteralmente, stabilisce che, in caso di patteggiamento, “quando la pena irrogata non superi i due anni di pena detentiva soli o congiunti a pena pecuniaria, non comporta la condanna al pagamento delle spese del procedimento nè l’applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza, fatta eccezione della confisca nei casi previsti dall’articolo 240 del codice penale”.
Ai fini di completezza espositiva, giova, altresì, evidenziare come, la disciplina relativa al rito in discorso interessa non soltanto il richiamato art. 240 c.p., ma anche l’ipotesi della confisca, anch’essa obbligatoria, c.d. “allargata” o per sproporzione, originariamente prevista dall’art. dell’art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, e poi, da ultimo, trasfusa nell’attuale art. 240 bis c.p..
Ciò posto, la questione che qui interessa riguarda non già l’astratta applicabilità, o compatibilità, delle cennate misure di sicurezza rispetto alla struttura rito in disamina, quanto, piuttosto, la esigenza per cui la concreta adozione delle stesse risulti sorretta dall’allestimento, da parte del Giudice, di un’apposita ed adeguata trama giustificativa, che dia effettivamente conto, pur a fronte della natura contratta del procedimento, dei rispettivi presupposti applicativi.
Il tema de quo, per il vero, è stato – ed è tutt’ora – al centro di un acceso dibattito giurisprudenziale.
Alla stregua dell’orientamento di legittimità, allo stato largamente maggioritario, “in tema di patteggiamento, l’estensione dell’applicabilità della confisca, per effetto della L. n. 134 del 2003, a tutte le ipotesi previste dall’art. 240 c.p., e non più solo a quelle previste come ipotesi di confisca obbligatoria, impone al giudice di motivare le ragioni per cui ritiene di dover disporre la confisca di specifici beni sottoposti a sequestro, ovvero, in subordine, quelle per cui non ritiene attendibili le giustificazioni eventualmente addotte in ordine alla provenienza del denaro o dei beni confiscati” (Cass. Pen. Sez. III, n. 14204/2020).
Analoga conclusione, inoltre, per evidenti ragioni di ordine sistematico, non può che valere anche rispetto all’ipotesi della confisca contemplata dall’art. 240 bis c.p., dovendo al riguardo farsi applicazione del costante indirizzo ermeneutico professato dalla Suprema Corte regolatrice, da ritenersi anch’esso ampiamente condivisibile, secondo cui “in tema di patteggiamento, la sinteticità della motivazione tipica del rito non può estendersi all’applicazione della misura di sicurezza della confisca” con il logico corollario per cui, il Giudice che intenda disporre l’ablazione ai sensi dell’attuale art. 240 bis c.p., è investito dal duplice onere di motivare “sia sulle ragioni per cui non ritiene attendibili giustificazioni eventualmente addotte in ordine alla provenienza del denaro o dei beni confiscati, sia sull’esistenza di una sproporzione tra i valori patrimoniali accertati ed il reddito dell’imputato o la sua effettiva attività economica” (cfr. Cass. Pen. Sez. I, n. 17092 del 02.03.2021, Rv. 281358-01).
Ad ulteriore riprova della centralità rivestita dall’obbligo motivazionale sulla confisca in materia di patteggiamento rileva, altresì, l’innovativo principio di diritto recentemente affermato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, con la pronuncia n. 21368/2020.
Segnatamente, in detta occasione, i Giudici di legittimità, chiamati a dirimere la querelle interpretativa insorta a seguito della entrata in vigore del rimodulato art. 448 co. 2 bis c.p.p., hanno risolutamente fatta salva la possibilità per le parti, pur a fronte della cennata interpolazione legislativa, di censurare la sentenza di patteggiamento che applichi la confisca avvalendosi della disciplina, normativamente contemplata dall’art. 606 co. 1 lett. e), del vizio della mancanza della motivazione, purché l’applicazione o meno della misura di sicurezza non abbia formato oggetto di espressa pattuizione tra le parti. (cfr. Cass. Pen. Sez. U. n. 21368 del 26.09.2019, dep. 17.07.2020).
Trattasi, a ben vedere, di assunto ermeneutico che, oltre a rivelarsi pienamente condivisibile sul piano epistemologico, non contrasta affatto con la ratio, evidentemente perseguita dalla Riforma Orlando, e perfettamente incarnata dal già più volte citato art. 448 co. 2 bis c.p.p., di limitare, rispetto all’istituto della pena concordata, il fenomeno del sovrabbondante accesso allo scrutinio di legittimità, non potendo la natura contratta del rito speciale in discorso – all’infuori dell’area di negoziabilità legalmente assegnata alle parti – estendersi fino al punto da dispensare il Giudice dal rendere conto delle specifiche ragioni a sostegno dell’applicazione di istituti (del tipo di quelli come la confisca), potenzialmente in grado di incidere su posizioni giuridiche soggettive (quali il diritto di proprietà) ricomprese sotto l’egida della primaria tutela costituzionale.
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Gabriele Ferro
Laureato in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Siena, attualmente praticante avvocato, con predilezione per il settore del diritto penale sostanziale e processuale.
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