Il sostentamento del clero cattolico in Italia

Il sostentamento del clero cattolico in Italia

a cura di Giorgia Cottone

Sono ormai trascorsi circa 29 anni da quando negli Acta Apostolicae Sedis e nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana veniva contestualmente pubblicata la legge 20 maggio 1985, n. 222 dettante disposizioni sugli enti e i beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico al servizio delle diocesi.

E’ perciò naturale che si senta il bisogno di riprendere i motivi di fondo e gli essenziali principi ispiratori della riforma, richiamare alcuni presupposti generali e affrontare i problemi che presentano più evidenti segni di criticità.

La remunerazione di coloro che si dedicano all’apostolato divino è problema antico. La Chiesa vive nello spazio e nel tempo, ha bisogno necessariamente di risorse adeguate per finanziare le proprie attività e il proprio personale. Per questi fini la Chiesa ha sempre fatto ricorso fin dalle origini alla generosità dei fedeli. Nei primi tre secoli la Chiesa non ricevette nulla da uno Stato che finanziava i culti pagani e il culto imperiale, ma comprimeva e  perseguitava la nuova religione cristiana.

L’apporto dello Stato, inseritosi più tardi, ha certo permesso un accrescimento dei mezzi necessari, ma ha talvolta introdotto ambiguità, che hanno condizionato la piena libertà del ministero pastorale o generato forme paradossali di tutela, sfociate in misure di pesante interferenza amministrativa, quando non addirittura nell’eversione del patrimonio ecclesiastico.

Il nuovo sistema di sostentamento del clero nasce sulle ceneri del cosiddetto sistema beneficiale-congruale. Un sistema con inconfondibili caratteri feudali di cui troviamo le prime avvisaglie nel sec. VIII e giunto fino a noi con tutte le sue imperfezioni originarie, aggravate, a partire dalla seconda metà del 1700, da interventi eversivi degli Stati sul patrimonio ecclesiastico.

In base a tale sistema beneficiale, confermato dall’ordinamento canonico sino al nuovo codice del 1983, l’ufficio ecclesiastico era affiancato da una persona giuridica: il beneficium, vale a dire una massa o dotazione di carattere patrimoniale, eretta in un ente del tipo “fondazione”, il cui reddito serviva a retribuire il funzionario ecclesiastico.

Il sistema beneficiale si fondava dunque sul frazionamento del patrimonio ecclesiastico in tante masse di varia consistenza attribuite ai singoli enti ecclesiastici (benefici) e godute dai titolari in cambio del loro servizio pastorale o liturgico, ma con la totale esclusione di chi non aveva cura d’anime e senza alcuna preoccupazione perequativa tra un beneficio e l’altro.

Questo sistema era fonte di notevoli diversificazioni nel trattamento economico dei chierici, essendo il reddito beneficiale variabile a seconda dell’entità patrimoniale delle differenti dotazioni e inoltre a ciò si aggiungeva che non tutti gli uffici ecclesiastici godevano di un beneficio né questi avevano uguale rilevanza, per cui, accanto ai benefici parrocchiali o mense vescovili più ricchi ve ne erano anche di poveri.

Il sistema comunque in Italia aveva raggiunto un suo  equilibrio che cessò bruscamente con l’applicazione a tali enti della legislazione eversiva ottocentesca.

Per questo motivo (fin dai primi anni dell’unità d’Italia) lo Stato italiano è intervenuto versando un supplemento di congrua a quegli ufficiali ecclesiastici il cui beneficio producesse redditi in misura inferiore ad un dato minimo previsto dalla legge, progressivamente aggiornato, secondo l’andamento della svalutazione monetaria.

Con l’aggiunta dell’assegno statale, il reddito del titolare del beneficio, considerato inferiore al minimo stabilito dalla legge, raggiungeva la cifra ritenuta “congrua” per il suo sostentamento.

Sul finire dell’Ottocento, dunque, il sistema beneficiale, proprio a seguito dell’intervento statale, perde la propria funzionalità, poiché con la legislazione eversiva parte del patrimonio dei benefici era stato incamerato dallo Stato senza compenso o convertito in titoli di debito pubblico, per cui il patrimonio residuo spesso non era sufficiente ad assicurare agli ecclesiastici un adeguato sostentamento.

Inoltre, a partire dal XIX secolo, il sistema beneficiale inizia a perdere efficacia: la perdita di valore dei beni immobiliari, lo sviluppo di nuove condizioni economiche e politiche, la rivoluzione industriale, ma soprattutto l’abolizione del sistema feudale, lo avevano reso  sempre meno adeguato a raggiungere lo scopo per cui era nato.

La sua longevità e la sua capacità di sopravvivenza di fronte alle mutate condizioni economiche della società si spiegano principalmente con il timore della Chiesa cattolica di procedere ad una riforma radicale che potesse mettere in qualche modo in discussione il proprio assetto patrimoniale. Del resto il supplemento di congrua versato dallo Stato, aveva garantito alla Chiesa un introito certo e sufficiente, stemperando l’esigenza di una riorganizzazione del patrimonio.

Ad imporre alla Chiesa cattolica il superamento del sistema beneficiale, furono tuttavia una serie di fattori e circostanze che emersero con chiarezza nel dibattito conciliare.

Di per sé, infatti, il sistema beneficiale non era mai stato un sistema perfetto in quanto non tutti gli uffici godevano di un beneficio e comunque i vari benefici avevano un differente patrimonio che in alcuni casi non era idoneo al sostentamento degli ufficiali ecclesiastici e detta circostanza dava luogo a notevoli sperequazioni nel trattamento economico dei funzionari oltre che ad un costante impoverimento del patrimonio ecclesiastico a causa del penetrante controllo statale e del disinteresse dei titolari dei benefici a valorizzare i beni che amministravano.

Le esigenze di superamento del sistema beneficiale hanno condotto, nel nuovo Codice di diritto canonico del 1983, alla previsione dell’istituzione, nelle singole Diocesi, di “un istituto speciale che raccolga i beni o le offerte”, allo scopo di provvedere al sostentamento dei chierici che prestino servizio a favore delle stesse.

A tale riforma dell’ordinamento canonico ha aderito anche lo Stato italiano con l’Accordo di Villa Madama e la successiva l. 222/85.

Quest’ultima ha previsto l’erezione, in ogni Diocesi, degli Istituti per il sostentamento del clero, mediante decreto del Vescovo interessato; stabilendo, inoltre, che la CEI eriga l’Istituto centrale per il sostentamento del clero, finalizzato ad “integrare le risorse” di questi ultimi.

Tali Istituti hanno acquisito la personalità giuridica civile con un particolare procedimento abbreviato di riconoscimento. Essi sono diventati titolari dei beni già appartenuti agli enti beneficiali, i quali contestualmente si  sono estinti mediante appositi provvedimenti vescovili.

L’Istituto centrale  è nato, invece, con un proprio fondo di dotazione conferitogli dalla CEI; a tale patrimonio si aggiungono, inoltre, le somme derivanti dalle erogazioni volontarie annuali dei fedeli, nonché quella parte delle somme derivanti dall’8 per mille di competenza della Chiesa cattolica, destinata ogni anno dalla CEI al sostentamento del clero.

L’Istituto centrale riceve, all’inizio di ciascun esercizio, lo stato di previsione di ogni Istituto diocesano, corredato dalla relativa richiesta di integrazione. Verificati detti dati, provvede quindi alle relative assegnazioni e, terminato ogni esercizio, riceve da ciascun Istituto una relazione consuntiva, contenente le modalità di corresponsione delle somme ricevute; gli eventuali avanzi di gestione vengono versati all’Istituto centrale.

Il diritto alla remunerazione spetta ai sacerdoti che svolgano servizio “in favore della Diocesi”, cioè a quei presbiteri che, su mandato scritto del Vescovo, sono impegnati a tempo pieno in una attività ministeriale diocesana.

Detti soggetti possono ricevere tale remunerazione da parte dell’IDSC integralmente; oppure attraverso l’erogazione di una “integrazione”, nel caso in cui fruiscano di ulteriori proventi corrisposti da altri enti ecclesiastici o soggetti esterni alla struttura gerarchica della Chiesa (nel caso, ad esempio, ricoprano l’incarico di cappellani militari, insegnanti di religione…).

Al fine della determinazione di detti assegni, la CEI ha stabilito che ⅔ della remunerazione siano identici per tutti gli interessati, partendo da una base di 75 punti,  mentre la parte rimanente sia calcolata tenendo conto di criteri relativi al caso specifico (quali, l’anzianità nell’esercizio del ministero pastorale, 2 punti ogni 5 anni fino ad un massimo di 16 punti, l’ufficio ricoperto, al vescovo diocesano ad es. vengono riconosciuti 40 punti aggiuntivi,  l’eventuale alloggio destinato all’ecclesiastico), attraverso l’assegnazione di un determinato numero di “punti” relativi a ciascun criterio.

Il valore monetario del singolo  “punto” viene periodicamente stabilito dalla CEI ed è stato recentemente indicato in 12 €.

La determinazione della remunerazione spettante al singolo sacerdote viene quindi definita in concreto sulla base delle dichiarazioni annuali dei presbiteri all’IDSC e, qualora tali somme non raggiungano la misura stabilita dalla CEI secondo i parametri sopra richiamati, l’Istituto provvede, quindi, alla conseguente integrazione della stessa.

Per quanto concerne i rapporti finanziari con la Chiesa cattolica, la l. 222/85 prevede che ogni anno, una quota pari all’8 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche venga destinata, in parte, “a scopi di interesse sociale o di carattere umanitario a diretta gestione statale e, in parte, a scopi di carattere religioso a diretta gestione della Chiesa cattolica”.

Questo tipo di sostegno economico può essere considerato come una vera e propria forma di finanziamento diretto, in quanto comporta un effettivo trasferimento di fondi dallo Stato alle confessioni religiose che ne beneficiano, quasi tutte quelle che hanno stipulato un’intesa, oltre alla Chiesa cattolica.

La suddetta quota viene liquidata dagli uffici e ripartita sulla base delle dichiarazioni annualmente rese dai contribuenti e della scelta espressa proprio da quest’ultimi. Va sottolineato però che, il secondo periodo del terzo comma dell’art. 47 della legge 222 dispone che “in caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in base alle scelte espresse“. Questo comma ha sollevato parecchi dubbi e polemiche rappresentando dunque uno degli aspetti più controversi e discutibili del sistema dell’otto per mille.

Nella pratica accade che la scelta di destinare l’otto per mille in sede di dichiarazione IRPEF, venga effettuata da meno del 50% dei contribuenti, mentre l’altra parte, ossia quella più consistente dal punto di vista numerico, non rende esplicita la propria volontà.

L’effetto paradossale di questo meccanismo, che balza immediatamente agli occhi, sta nel fatto che i beneficiari dell’otto per mille si vedono distribuire i fondi non solo grazie a coloro che hanno scelto di darli a loro, ma anche grazie a coloro che non hanno espresso alcuna preferenza. Per tale ragione è necessario che i contribuenti siano informati con maggiore chiarezza sul meccanismo di ripartizione dell’otto per mille, spiegando loro che le quote non destinate non finiscono nelle casse dello Stato, ma vengono ripartite in funzione delle scelte espresse dagli altri, che per lo più sarebbero la minoranza dei contribuenti.

Le perplessità e la contrarietà di una parte della popolazione rispetto a questo sistema di finanziamento che porta una notevole  somma di denaro specialmente nelle casse della Chiesa cattolica, che è quella che riceve il maggior numero di preferenze, circa il 36 % che si traducono in un esborso per lo Stato di circa un miliardo settanta milioni di euro l’anno, ha portato ad una raccolta di firme nell’aprile 2013 allo scopo di promuovere un referendum abrogativo ex art. 75 Cost. che però non hanno raggiunto il numero sufficiente. La richiesta mirava  nello specifico ad abrogare il secondo periodo del terzo comma dell’art. 47 della legge 222, che cita “in caso di scelte non espresse da parte dei contribuenti, la destinazione si stabilisce in proporzione alle scelte espresse”. In tal modo si sarebbe garantito che una scelta non espressa non corrispondesse più ad una scelta altrui. A prescindere dal risultato ottenuto fino a questo momento da coloro che si oppongono alle modalità che regolano l’erogazione delle somme in questo sistema di finanziamento delle confessioni, è chiaro come la ripartizione delle scelte non espresse nella stessa percentuale di quelle espresse sia un punto debole di tale sistema che prima o poi dovrà essere rivisto.

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