Il sottile confine tra corruzione propria ed impropria nella “vendita” della discrezionalità

Il sottile confine tra corruzione propria ed impropria nella “vendita” della discrezionalità

Una particolare questione, al centro di ferventi dibattiti tra gli studiosi, concerne quei casi in cui la corruzione abbia ad oggetto un atto discrezionale della pubblica amministrazione essendo, in tali casi, incerto il discrimen fra corruzione “propria” e corruzione “impropria”.

Prima di addentrarci nei meandri della suddetta tematica, è necessario innanzitutto chiarire la differenza tra “attività vincolata” e “attività discrezionale”, nonché tratteggiare i contorni della fattispecie incriminatrice della corruzione, ponendo particolare attenzione alla distinzione tra corruzione c.d. “propria” ed “impropria”.

Il legislatore, nel fissare i limiti del potere amministrativo, può decidere di non lasciare alla pubblica amministrazione alcun margine di apprezzamento (c.d. attività vincolata), ovvero, può rimettere alla stessa un margine di valutazione più o meno ampio.[1]

A tali forme di attività corrisponde una diversa forma di potere: l’esercizio di un’attività vincolata priva la P.A. del potere di effettuare delle scelte alternative, permettendole di esercitare solo un potere vincolato in presenza di determinati presupposti; l’attività discrezionale, invece, implica il potere della pubblica amministrazione di libertà di scelta e di decisione in ordine all’an, al quid, al quomodo e al quando dell’emanazione dell’atto.[2]

Ciò posto, la disciplina giuridica della corruzione è contemplata agli artt. 318- 322 del codice penale ed il tratto caratterizzante di tale delitto è relativo al c.d. pactum sceleris tra il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ed il privato, concernente il compimento di determinati atti da parte del primo.

La corruzione si distingue in propria, se il pubblico ufficiale pone in essere un atto contrario ai doveri d’ufficio ex art. 319 c.p., ed impropria, se costui compie un atto del proprio ufficio ex art. 318 c.p.

In particolare, la condotta del pubblico ufficiale viene incriminata in quanto questo si arricchisce indebitamente sfruttando le proprie qualità e i propri poteri, pregiudicando così il buon andamento e l’imparzialità della P.A. ex art. 97 Cost., che rappresentano il bene giuridico tutelato dalla norma (c.d. corruzione passiva). Il comportamento del soggetto attivo della corruzione è a sua volta censurato dal momento che in siffatto reato il privato aspira a manipolare a suo vantaggio l’azione della pubblica amministrazione (c.d. corruzione attiva).

La corruzione costituisce dunque un reato-contratto, in quanto il legislatore incrimina la stessa stipulazione di un contratto a prestazione corrispettive tra corruttore e corrotto, plurisoggettivo a concorso necessario.

Ebbene, l’enucleazione delle regole necessarie a delineare una chiara linea di demarcazione tra corruzione per atto discrezionale conforme e corruzione per atto discrezionale contrario ai doveri d’ufficio costituisce, senz’altro, un nodo problematico che dottrina e giurisprudenza, attraverso illuminanti e molteplici interpretazioni, hanno cercato in diversi modi di sciogliere.

Secondo un primo orientamento, la corruzione per atto discrezionale sarebbe sempre corruzione impropria, in quanto l’atto discrezionale, costituendo espressione di una libertà di apprezzamento del pubblico ufficiale, sarebbe sempre legittimo.

A conclusioni diametralmente opposte giunge un altro indirizzo interpretativo, secondo il quale il reato di  corruzione per atto discrezionale sarebbe sempre propria giacché il pubblico ufficiale, una volta accettato un indebito compenso per il compimento di un atto del suo ufficio –  rispetto alle cui modalità di realizzazione egli gode di una certa libertà di scelta –  perderebbe la propria imparzialità circa gli interessi (pubblici e privati) da sottoporre a comparazione, di conseguenza, l’atto da compiere risulterebbe in ogni caso viziato da eccesso di potere.

Le suddette impostazioni sono state tuttavia criticate dal momento che comportano inevitabilmente un’interpretatio abrogans, rispettivamente dell’art. 319 c.p. e dell’art. 318 c.p.

Secondo l’indirizzo maggioritario, ciò che è invece indispensabile per distinguere tra corruzione propria ed impropria in caso di uso distorto della discrezionalità amministrativa è la c.d. “vendita” della discrezionalità accordata dalla legge, la previa rinuncia ad una piena e indipendente verifica della soluzione finalizzata al miglior soddisfacimento dell’interesse pubblico esistente nel caso concreto.

L’atto contrario ai doveri d’ufficio rilevante ai sensi dell’art. 319 c.p. si concretizza proprio nella rinuncia, dietro indebito corrispettivo, ad una discrezionalità che invece dovrebbe essere appieno attuata, mentre per aversi la fattispecie incriminatrice meno grave della corruzione per l’esercizio della funzione ex art. 318 c.p. (c.d. impropria) la deformazione del procedimento decisionale deve essere ragionevolmente esclusa[3] e ciò si realizza quando la misura adottata si presenta idonea al miglior soddisfacimento dell’interesse pubblico.[4]

Si configura, in definitiva, il delitto di corruzione impropria soltanto quando l’atto appare di certo identico a quello che sarebbe stato comunque adottato a tutela del pubblico interesse, con lo stesso contenuto e con le medesime modalità, cioè qualora sia dimostrato che lo stesso atto sia stato compiuto nell’esclusivo interesse della pubblica amministrazione anche indipendentemente dalla indebita retribuzione.[5]

 

 


[1] Francesco Caringella, Manuale di diritto amministrativo, ed. 2018
[2] ibidem
[3] Corte di Cassazione, Sez VI penale – sent. 4 giugno 2014, n.23354
[4] ibidem
[5] Tra le altre, Cass. sez. VI, sent 14 giugno 2017 n.35940

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Alessandra Medici

Ha conseguito nel 2016 la laurea magistrale in Giurisprudenza presso la Luiss Guido Carli di Roma, discutendo una tesi in Diritto Penale delle Scienze Mediche e delle Biotecnologie sulla "Responsabilità penale dello psichiatra". Abilitata all'esercizio della professione forense nel 2019, attualmente collabora con un noto studio legale molisano occupandosi prevalentemente di diritto penale e diritto civile. Per la preparazione teorica, ha frequentato a Roma corsi di formazione giuridica avanzata approfondendo, in particolare, il diritto civile, penale e amministrativo.

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