Il tempio di Giove Meilichio a Pompei

Il tempio di Giove Meilichio a Pompei

a cura di Andrea Romano

Problemi di datazione

Fra i templi di Pompei, l’infelice città sepolta dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d. C., quello di Giove Meilichio è senza dubbio il più piccolo, ma anche il più allettante, per una serie di problemi di non immediata soluzione.

Posto nell’angolo nord-orientale del <<Quartiere dei teatri>>, presenta in primo luogo problemi di datazione, che ancora oggi non hanno trovato una risposta univoca e certa.

La statua di Giove, infatti, con la sua espressione energica ed espressiva e con il suo evidente realismo formale ci porta all’arte di Leuchares, mentre quella di Giunone, asimmetrica e popolana, ci induce a pensare all’arte italica che si sviluppò a Pompei subito dopo l’età sillana.

Il leggero drappeggio dell’himation della dea, inoltre, rende ancora più ardua la datazione e porta diversi critici ad una pluralità di richiami e di ipotesi, tali da rendere possibile anche la soluzione di una esecuzione a più mani e in diversi periodi.

Il busto di Minerva, infine, di fattura rozza ed approssimativa, porta tutti i critici a credere che il tempio, gravemente danneggiato dal terremoto del 62 d.C., fu destinato a sede temporanea del culto cittadino della Triade capitolina.

Nell’occasione si raccolse ciò che si poteva: appare, quindi, spiegata la compresenza di statue diverse tra loro, sia per tecnica esecutiva, sia per resa artistica.

Diffusione del culto di Giove Meilichio

Di natura prevalentemente ctonia è il culto di Giove Meilichio, particolarmente diffuso nel mondo greco, come dimostrato dalle poche epigrafi ritrovate, ma anche dalla lettura di alcuni romanzi dell’età ellenistica, primo fra tutti <<I viaggi di Antenore>>, autobiografico.

Discussa e non univoca appare, invece, l’etimologia di “Meilichio”.

Secondo il Nilsson, professore di archeologia classica e di storia dell’arte nell’università di Lund, il termine deriverebbe dl verbo greco “melisso” ed avrebbe il significato di “mite”, di “benigno”, ma anche di colui che è stato reso tale a seguito di una espiazione.

Salomon Reinach, storico dei miti e delle religioni antiche, le cui opere vennero spesso citate anche da Freud, ricordando l’esistenza di un antico altare dedicato a Zeus Meilichio sulla strada che si trova tra Atene ed Eleusi, sottolinea la vicinanza del tempio al luogo dove Fitelo, mitico eroe attico, in seguito all’ospitalità offerta a Demetra, fu dalla dea ricompensato con il dono dell’albero di fico, il cui frutto anticamente era detto “meilicòn”.

Il Peterson, riprende, sotto alcuni aspetti, l’ipotesi del Reinach e vede il termine legato ai benefici che derivano dalla natura e dalla vita dei campi.

Il Picard, infine, sottolinea la natura ctonia del dio e lo reputa oggetto del culto extraurbano collegato alle necropoli.

Il culto di Giove Meilichio a Pompei

Diciamolo subito: non esistono elementi precisi che possano illuminarci sulla sicura attribuzione del tempio a Giove Meilichio a Pompei, se non un’iscrizione osca rinvenuta a Porta di Stabia, la strada che permetteva di raggiungere il porto della città nel modo più agevole e celere.

La particolare ubicazione del tempio ci porterebbe ad ipotizzare che esso era originariamente dedicato a qualche divinità legata al mare e al superamento dei pericoli che da esso potevano in vario modo nascere.

Di questo avviso è anche Amedeo Maiuri; il grande archeologo ritiene che Zeus Meilichio sia giunto a Pompei dalla Sicilia, attraverso Napoli nec nos audemus haec verba negare.

Le fasi di scavo del tempio

Il tempio fu riportato alla luce in due diversi momenti, intervallati da un periodo di trent’anni.

Dalle relazioni borboniche raccolte da Giuseppe Fiorelli, colui che per primo organizzò gli scavi suddividendoli in regiones (quartieri) ed insulae (isolati), sappiamo che durante le operazioni di sterro attuate tra il 27 settembre e il 18 ottobre 1766, furono rinvenuti il pronao e la cella, all’interno della quale si rinvennero tre statue di terracotta.

Tra il 15 maggio e il 14 giugno 1798, invece, furono scoperti il cortile dell’area sacra e la scala di accesso al podio su cui sono poste la cella e la stanza dell’addetto.

Nella prima metà dell’Ottocento il tempio era noto come tempio di Esculapio e tale appare anche in una copiosa serie di dipinti, disegni, incisioni di artisti inglesi, francesi, tedeschi e italiani della prima metà del XIX secolo.

Il ritrovamento di un cippo viario osco, avvenuto a Porta di Stabia il 12 agosto 1851, consentì al Nissen di proporre per primo l’identificazione dell’edificio con la <<caila iuveiis meeilikiesis>> citato dall’iscrizione osca, databile forse intorno alla prima metà del II secolo a.C., iscrizione che menziona l’intervento di sistemazione ad opera di due edili osci di alcune strade, tra le quali anche la via pompeiana soggetta a “terminatio” fino alla suddetta “caila”.

L’epigrafe osca

Rinvenuta in situ all’interno di Porta Stabia e attualmente conservata nel museo archeologico di Napoli (inventario n. 117466), il cippo di travertino alto cm.127, largo cm.70,5 e spesso cm.29, presenta abrasioni importanti nella zona centrale e una frattura allo spigolo superiore destro.

Il testo originale da noi trascritto è:

siuttiis m. n. puntiis. m.

Aidilis ekak viam terremna

ttens and huntram stafii

Anam viu pumpaiiana ter

Emnattens perek III ant kai

la iuveis meelikiieis ekass vi

ass ini via iuviia ini dekkvia

Rim medikeis pumpaiianeis

Serevkid imaden uupsens IU

su aidilis pruffatens

Il testo epigrafico da noi presentato, al fine di rendere più immediata la lettura, manca di parentesi laddove le parole sono state ricostruite, né presenta alcun segno grafico per indicare le parti dubbie; non abbiamo ritenuto opportuno, inoltre, avvalerci della classica lineetta orizzontale per indicare una parola incompleta, ma di facile interpretazione.

Tanto premesso, la traduzione in lingua latina è la seguente: <<M. Suttius M. filius N. Pontius M. filius aediles bene viam terminaverunt usque ad inferiorem stabianam. Via terminata est perticis X Iidem viam pumpeianam terminaverunt perticis III usque ad cellam Iovis Meilichii. Has vias et viam ioviam et dekkvia rim meddicis pompeiani auspicio ab imo fecerunt. Iidem aediles probaverunt>>.

Dopo aver fornito i nomi dei due edili responsabili dell’intervento di sistemazione viaria, nel cippo viene descritto il tipo di intervento del quale i due magistrati si sono resi artefici e vengono, di conseguenza, elencate quattro strade (ekak viam, via pumpaiiana, via iuviia e dekkvia rim).

Ai fini del nostro discorso, interessa l’identificazione della via pumpaiiana con l’attuale via stabiana, che fu oggetto di terminatio ante kaila iuveis meelikiieis=usque ad cellam Iovis Meilichii, espressione quest’ultima che certifica la denominazione del tempio, escludendo ogni possibilità di equivoco o di fraintendimento.

Ubicato nel pieno di un tessuto urbano, con il quale ha in comune la maggior parte dei muri del peribolo, cioè, del recinto sacro posto attorno all’area di culto, il tempio di Giove Meilichio rappresenta, nell’antica architettura greca e romana, un rarissimo esempio di “templum infra moenia domorum” che deve essere approfondito non soltanto  ai fini artistici, ma anche e soprattutto per una più ampia, completa e dettagliata raffigurazione del rapporto tra l’uomo e il sacro nella sua più vasta accezione, perché conoscere questo rapporto significa, in ultima analisi, conoscere il cammino stesso della storia, cammino che l’esasperato individualismo  ha portato a negare o , nella migliore delle ipotesi, a mettere da parte, come si mette in soffitta una vecchia pantofola, conservata solo perché ci ricorda a tratti il volto del nonno.

E taccio dell’importanza enorme del recupero della lingua osca, ai fini di una più organica conoscenza della lingua latina.

Riepilogo

Iniziato probabilmente nel III a.C., il tempio di Giove Meilichio conobbe la sua ultima fase edilizia nel periodo immediatamente successivo al terremoto che nel 62 d.C. devastò l’antica Pompei.

L’attributo di “Meilichio”, destinato a rimanere nel vasto paniere delle ipotesi, per quanto ci riguarda è da collegare all’albero di fico, emblema della vita, della luce e della forza vitale, collegabile all’idea di immortalità e di abbondanza, quest’ultima intimamente connessa, nel mondo greco romano, alla fecondità e al potere maschile, che era associato a Giove.

Dopo il terremoto del ’62, nel cortile fu aggiunto il vestibolo di ingresso, sostenuto da due colonne in laterizio, sormontate da capitelli tuscanici di basalto trachitico.

Le statue della triade capitolina, tutte in terracotta, risalgono a periodi diversi (IV a.C. quella di Giove, inizio del III a.C. quella di Giunone e prima metà del I a.C. quella di Minerva) e sono il prodotto di un’arte locale.

Subito dopo l’evento sismico, per riprendere la pratica di un culto particolarmente caro ai romani, le statue, raccolte da luoghi diversi, furono incanalate nel tempio di Giove Meilichio.

Il tempio romano, a differenza di quello greco, sorge per lo più in contesti urbani e non in posizione dominante, perché per i nostri progenitori il rito religioso non poteva essere disgiunto dalla funzione pubblica, alla quale partecipavano popolazione ed autorità dello Stato; il tempio di Giove Meilichio a Pompei, tuttavia, è forse l’unico esempio di “templum infra moenia domorum

Per moltissimo tempo, gli studiosi italiani e stranieri, credettero che il tempio era stato dedicato ad Esculapio; l’iscrizione osca, rinvenuta all’interno di Porta Stabia, non lascia alcun dubbio sull’attribuzione del tempio e fornisce, nel contempo, elementi utilissimi alla conoscenza del sistema viario della città e di una lingua ancora in gran parte sconosciuta.

Quasi un’appendice

L’iscrizione osca fornisce i nomi dei due edili responsabili dell’intervento di sistemazione viaria: M. Suttius e N. Pontius.

Ci pare indispensabile dare qualche informazione, seppure sommaria, sulle rispettive famiglie e sul loro ruolo all’interno della società romana.

Suttius è il nome di una importante famiglia appartenente all’aristocrazia terriera di Nuceria, attestata a Pompei almeno dal II a.C., come attestato dal cippo viario già più volte menzionato.

Durante la guerra sociale, mentre quasi tutte le città della Campania si allearono alla confederazione italica, Nocera, sostenuta dalla famiglia Suttius, rimase fedele a Roma e ciò accrebbe di molto il prestigio di questa gens.

Il gentilizio, in seguito, si diffuse anche in Africa settentrionale, quando P. Suttius, dopo la tragica congiura di Catilina, fuggì in Africa, dove, grazie all’appoggio di Giulio Cesare, fondò una colonia a Cirta.

I Suttii a Pompei erano dediti al commercio dei vini e dell’industria marittima; negli ultimi anni di vita dell’infelice città tentarono di inserirsi con successo nelle cariche pubbliche.

I Pontii, invece, erano originari di Telesia e la gens Pontia era attestata a Pozzuoli già dall’età tardo-repubblicana, ma anche a Cuma e a Capua.

Durante l’età augustea la famiglia Pontia sarà attiva anche a Preneste e in Numidia.

A Pompei, all’epoca della sistemazione viaria che portò all’iscrizione osca, i Pontii erano legati da solidi vincoli alla famiglia puteolana degli Avianii, una delle più autorevoli della città sin dalla tarda repubblica.

L’errore ottocentesco di ritenere il tempio dedicato ad Esculapio è dovuto a Chabat, che nella tavola XLIV della sua opera, riprendendo i disegni di Pierre Joseph Garrez, rappresenta una veduta laterale del grande altare, sul quale ritenne a torto che fossero state ritrovate le statue di Esculapio, Igea e Priapo.

Allontaniamoci dai soliti parametri

L’eternità di Roma è particolarmente identificata con quella del Colosseo.

<<Fino a quando esisterà il Colosseo, esisterà anche Roma

Quando cadrà il Colosseo cadrà anche Roma

Quando cadrà Roma cadrà anche il mondo>>.

Tutto il mondo civile si augura che l’anfiteatro Flavio vivrà fino a quando risplenderà il sole sul nostro bel pianeta, ma, in realtà, Roma è eterna non solo per la sua cultura, per le sue leggi o per il più grande sistema viario della storia dell’uomo, ma soprattutto per il sincretismo evidente in ogni campo della conoscenza e del progresso.

In campo religioso, tutti gli autori del passato e del presente hanno evidenziato nel cristianesimo un forte sincretismo mutuato dal mondo greco-romano, ma quasi nessuno, stando alle nostre conoscenze, ha invertito, se non molto raramente, i termini di questo complesso ed affascinante rapporto.

Il Cristianesimo, è innegabile, riprese, mutandone profondamente il significato, istanze, preoccupazioni, dubbi ed aspirazioni di una religione tesa essenzialmente a formare il buon cittadino, pio ed obbediente alle leggi dello Stato, ma anche il mondo romano non fu estraneo alle nuove idee e alla vasta simbologia del cristianesimo.

Giove, padre degli uomini e degli dei, ebbe nei secoli moltissimi appellativi, tra i quali anche quello di “Meilichio”, appellativo raro ma estremamente significativo di una mentalità in trasformazione ed aperto a nuove istanze.

Abbiamo più volte ripetuto che l’attributo “Meilichio” sta a significare benevolenza e abbondanza e che è intimamente legato all’albero di fico.

Nessun critico, a quanto ci è dato di sapere, ha mai evidenziato che il significato dell’aggettivo entra nel mondo romano in un particolare momento storico, che è quello della più ampia diffusione dell’ebraismo nel vasto e poliedrico impero di Roma.

Non a caso nel testo biblico l’albero di fico, al pari dell’olivo e della vite, è il simbolo più significativo dell’abbondanza e non è senza motivo che la prosperità di Salomone viene descritto dall’agiografo con il simbolo del fico.

Il testo veterotestamentario, a conferma per antitesi, mette in strettissima relazione i tempi bui di Israele con la sparizione dell’albero di fico.

Diversi autori pensano che il culto di Giove Meilichio sia arrivato a Pompei attraverso Napoli o Pozzuoli.

Ci domandiamo: non erano queste città ricche di comunità cristiane?

<<Ma il tempio>>, qualcuno potrebbe obiettare, <<non fu costruito nel secondo secolo a.C.?>>.

Tutto combacia alla perfezione. Come ben ipotizzò il Maiuri, inizialmente il tempio era dedicato a qualche dio marino; in seguito, con l’espansione del cristianesimo a Pozzuoli e lungo tutta l’area flegrea, oltre che a Napoli, esempio quasi unico, suggestivo, ma non illogico o avventato, i Romani collegarono la simbologia ebraico-cristiana al culto di Giove.

Visto in questa prospettiva, il tempio di Giove Meilichio a Pompei diventa esempio emblematico di una evoluzione storica e culturale raramente ravvisata e ravvisabile, ma soprattutto inverte i termini di una metodologia troppo basata sul già detto, indice certo della pigrizia mentale di quello che un tempo fu il “genio” italiano.

Conclusione

Il sincretismo religioso ebraico-cristiano ravvisabile nel tempio di Giove Meilichio a Pompei, ci induce a datare l’iscrizione osca non al secondo secolo a. C., come si ritiene a torto dai più, ma al primo quarantennio del primo d.C., ipotesi già avanzata da pochi e valenti studiosi.

Non sarà inutile, prima di confermare definitivamente quanto stiamo asserendo, soffermare la nostra attenzione su alcune realtà storiche poche conosciute dalla storiografia ufficiale o, se conosciute, tralasciate perché poco appetibili.

Sul piano religioso, dunque, è lecito ricordare che diverse norme speciali garantivano la protezione del culto ebraico nell’Urbe, quali la dispensa dal dovere di festeggiare le cerimonie pagane e la possibilità di aderire al culto dell’imperatore con una forma di omaggio indiretta attraverso la formula <<Deo aeterno pro salute>> a cui seguiva in genitivo il nome dell’imperatore.

Non è affatto improbabile, poi, che prima del 64 d.C., prima di quella tragica notte che tra il 18 e il 19 luglio diede l’avvio all’incendio che devastò Roma per otto giorni, i Pompeiani abbiano cercato di inglobare nel loro vissuto religioso parte di quel mondo ebraico-cristiano ad essi certamente ben noto, attraverso il recupero di una simbologia che poteva in quel momento storico essere pacificamente accettata a dispetto dell’unicità di ambedue le religioni.

Infatti, se tra il 30 e il 62 d.C. il cristianesimo trovò una felice diffusione a Pompei, Ercolano e Stabia, la religione ebraica a Pompei era già nota da diverso tempo, come ben evidenziato dall’affresco biblico raffigurante il “giudizio di Salomone”, affresco reso noto dal De Rossi nel 1882.

Rinvenuto nella casa della Regio VIII, insula 6, il vasto dipinto murale non lascia spazio a dubbi sul peso della comunità ebraica a Pompei e sulla concreta possibilità di un interscambio culturale a largo raggio.

L’antigiudaismo, è bene non dimenticarlo, avrà inizio soltanto a partire dal 380 d.C., con l’editto di Teodosio: prima di tale data, gli Ebrei nell’Urbe e nell’impero occupavano incarichi pubblici di rilievo e certamente la valenza culturale da essi espressa non poteva passare inosservata, se non nei termini di una indiscussa adesione, certamente nei termini di un tributo culturale non evasivo e generico.


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Andrea Romano

Laureato in Lettere classiche, fondatore del disciolto gruppo archeologico di Afragola, Andrea Romano è autore di numerose pubblicazioni a carattere storico, artistico e letterario. Le sue competenze in campo archeologico l’hanno portato a scoprire numerose necropoli e ad individuare l’ubicazione dell’acquedotto augusteo in Afragola, suo paese d’origine. Prossimo alla pensione, attualmente è docente di religione presso la Scuola Secondaria di primo grado “Angelo Mozzillo”, pittore del quale ha scritto l’unica biografia esistente, dopo aver raccolto e analizzato quasi tutte le tele dell’artista afragolese, prima quasi del tutto ignorato. Ricercatore instancabile, ha portato alla luce un manoscritto inedito di Johannes Jørgensen, di prossima pubblicazione.

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