Il “tempus commissi delicti” nei reati ad evento differito
Premessa. Il principio di irretroattività della norma penale più sfavorevole al reo, corollario del principio di legalità, sancito dall’art. 25, comma II, della Costituzione, nonché dall’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dall’art. 15 del Patto di New York, costituisce, all’interno dell’ordinamento nazionale, un postulato assoluto, non suscettibile di bilanciamento con altri valori di rilevanza costituzionale.
L’essenza del brocardo latino “Nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali” si pone come importante garanzia per il soggetto attivo del reato, evitando che lo stesso possa vedersi punito – o assoggettato a pene più severe – in relazione a fatti che, al momento della loro commissione, non costituivano reato o erano sottoposti ad una disciplina giuridica meno gravosa.
Come da insegnamento della Corte Costituzionale, a partire dalla storica Sentenza n. 364 del 1988, la ratio, sottesa al principio di irretroattività della norma penale più sfavorevole, si sostanzia nell’esigenza di tutelare la libera autodeterminazione dei consociati, rendendo chiaramente prevedibili le conseguenze giuridiche delle proprie scelte e permettendo loro di poter orientare le proprie azioni[1].
Univoche in tal senso sono le indicazioni offerte dalla giurisprudenza costituzionale, con Sentenza n. 394 del 2006, secondo cui il principio di irretroattività della norma sfavorevole «si pone come essenziale strumento di garanzia del cittadino contro gli arbitri del legislatore, espressivo dell’esigenza di calcolabilità delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta, quale condizione necessaria per la libera autodeterminazione individuale»; esigenza questa «con la quale contrasta un successivo mutamento peggiorativo a sorpresa del trattamento penale della fattispecie»[2].
Il corollario in oggetto si estrinseca, pertanto, come garanzia fondamentale contro gli eventuali arbitri ed abusi del potere legislativo e giudiziario, in ossequio al principio di riserva di legge e di certezza del diritto.
La funzione rieducativa della pena, poi, così come garantita ed affermata ai sensi dell’art. 27 della Costituzione, presuppone che, affinché una condotta possa essere penalmente rimproverabile ed il soggetto possa essere sottoposto a trattamento sanzionatorio, questi debba essere messo nelle condizioni di poter apprezzare ex ante le conseguenze penali delle proprie condotte. Se, infatti non esistesse il precetto, così come la conseguente minaccia della sanzione, il cittadino non potrebbe orientare il proprio agire, derivandone, così, una frustrazione alla funzione social – preventiva della pena, nonché una lesione al principio di colpevolezza.
La corretta individuazione del “tempus commissi delicti” è di importanza fondamentale ai fini dell’applicazione delle norme penali – ai sensi dell’art. 2 del codice penale – soprattutto laddove il fatto di reato si sia verificato in un arco temporale comprendente due diverse discipline giuridiche poste in successione temporale tra loro.
Un particolare problema che ha comportato annosi contrasti giurisprudenziali, è stato, infatti, quello di individuare il “tempus commissi delicti” in relazione ai reati c.d. “ad evento differito” o “lungo – latente”, cioè quelle fattispecie in cui tra la condotta incriminatrice e l’evento tipizzato intercorra un lasso di tempo durante il quale entri in vigore una norma che prevede un regime sanzionatorio più severo rispetto a quello previsto al momento della commissione del fatto.
A fronte di un primo orientamento che, in tali peculiari circostanze, riteneva applicabile la legge penale sfavorevole in vigore al momento dell’evento, fissando in corrispondenza di quest’ultimo il “tempus commissi delicti”, è emerso, nel corso del tempo, un orientamento di segno contrario, secondo cui l’interpretazione dell’art. 2 del codice penale, in conformità al principio di irretroattività sfavorevole, impone di fissare il “tempus commissi delicti” al momento della condotta, ancorché precedente a quello della consumazione.
Al fine di sciogliere tale nodo gordiano, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono pronunciate con sentenza n. 40986 del 2018, c.d. Pittallà, individuando il tempo di consumazione, con riferimento ai reati d’evento, in relazione alle ipotesi in cui quest’ultimo si realizzi ad un’apprezzabile distanza temporale rispetto alla condotta posta in essere dal reo[3].
Le Sezioni Unite, abbracciando il c.d. “criterio della condotta”, promosso dal secondo orientamento, hanno pronunciato il seguente principio di diritto: «a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta».
Il caso di specie e la disciplina dell’omicidio stradale. Il caso, oggetto di giudizio, traeva origine dalla vicenda che vedeva coinvolto Tizio, soggetto che mentre era alla guida della propria automobile investiva tale Caio, mentre questi era intento ad attraversare le strisce pedonali, cagionandogli gravi lesioni che, dopo circa sei mesi dal sinistro, ne determinavano il decesso.
Il Tribunale di prime cure, ritenuta provata la penale responsabilità dell’imputato, lo condannava per il reato di omicidio stradale, ai sensi dell’art. 589 bis c.p., applicando la nuova disposizione, entrata in vigore con la Legge n. 41 del 2016, introdotta prima del momento dell’evento morte di Caio, ma in epoca successiva rispetto al tempo del sinistro.
La novella legislativa, introducendo l’art. 589 bis c.p., ha previsto un’autonoma fattispecie di reato, oltre all’applicazione automatica ed obbligatoria della sanzione amministrativa della revoca della patente di guida, differentemente dalla previgente disciplina – in vigore al momento del sinistro – che inquadrava, invece, il medesimo fatto in termini di circostanza aggravante, applicabile a chi avesse commesso il delitto di omicidio colposo con violazione delle norme sulla circolazione stradale.
La previgente formulazione prevedeva, ai sensi dell’art. 589, comma II, c.p. per il fatto di omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale, la pena della reclusione da 2 a 7 anni. Tale disciplina rappresentava una mera circostanza aggravante dell’omicidio stradale, assoggettabile al giudizio di bilanciamento, comportando la possibilità che, con l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, la pena potesse essere ridotta sino a un minimo di sei mesi di reclusione, in caso di giudizio di equivalenza, e di quattro mesi di reclusione in caso di prevalenza delle attenuanti.
Con l’entrata in vigore dell’art 589 bis c.p. è stata, invece, introdotta un’autonoma fattispecie di reato, la cui cornice edittale della pena è restata sostanzialmente invariata rispetto alla normativa previgente, ma con la rilevante differenza, sul piano sanzionatorio, che – stante la sua natura giuridica “autonoma” (e non più di circostanza aggravante) – non sia più assoggettabile ad alcun giudizio di bilanciamento.
La novella ha previsto, altresì, un aggravamento delle sanzioni amministrative accessorie in materia di omicidio stradale. Il nuovo comma 2 dell’art. 222 C.d.S, quarto periodo, recita che “alla condanna, ovvero all’applicazione della pena su richiesta delle part a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, per i reati di cui agli articoli 589-bis e 590-bis del codice penale consegue la revoca della patente di guida”.
Avverso la sentenza di condanna, la difesa dell’imputato proponeva ricorso per Cassazione, lamentando l’applicazione retroattiva della normativa più sfavorevole al reo, in contrasto con le citate garanzie costituzionali e sovranazionali di irretroattività in malam partem delle norme penali sopravvenute.
La Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, ravvisando un contrasto nella giurisprudenza di legittimità sulla questione relativa al trattamento sanzionatorio da applicare nel caso di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, con ordinanza n. 21286 del 2018 ha rimesso la questione alle Sezioni Unite, affinché individuassero la disciplina applicabile ai cd. reati ad evento differito[4].
Il “tempus commissi delicti” alla luce della Sentenza n. 40986 del 2018 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Le Sezioni Unite della Suprema Corte sono state incaricate di operare una controversa scelta tra l’applicazione del cd. “criterio della condotta”, che si sostanzia nell’individuazione del “tempus commissi delicti” nel momento in cui si verifica l’ultimo atto dominabile da parte del soggetto agente prima del verificarsi dell’evento ed il c.d. “criterio dell’evento”, il quale, viceversa, individua il momento consumativo del reato con il verificarsi dell’evento stesso.
Quest’ultimo criterio era stato avallato, in passato, dalla Quarta Sezione della Corte di Cassazione con sentenza n. 22379 del 2015[5], la quale ha affermato che il trattamento sanzionatorio doveva, in ogni caso, essere quello vigente al momento dell’evento, anche laddove lo stesso si verificasse a distanza di un lasso di tempo apprezzabile dalla condotta. Nel medesimo senso si poneva anche la Quinta Sezione della Suprema Corte, con sentenza n. 19008 del 2014[6], affermando che il concorrente, che avesse realizzato un contributo causale interamente esauritosi prima dell’introduzione di una nuova norma incriminatrice, dovesse essere soggetto alla disciplina sopravvenuta, anche se più sfavorevole, quando il reato fosse pervenuto a consumazione dopo la sua entrata in vigore.
Di diverso avviso, invece, si sono poste le Sezioni Unite con la sentenza in esame, enunciando il principio di diritto secondo cui in tema di successione di leggi penali, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, debba trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta.
Gli ermellini, fornendo un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, sono giunti alla conclusione che, al fine di individuare il”tempus commissi delicti” nei reati ad evento differito, si debba fare riferimento al c.d. criterio della condotta, scartando l’antitetica teoria dell’evento.
Nell’individuazione delle ragioni dell’adesione a tale criterio, all’interno della motivazione della sentenza, vengono in rilievo, in primo luogo, gli strumenti dell’interpretazione sistematica e la valorizzazione delle indicazioni offerte dai principi – innanzitutto costituzionali – che governano la successione delle leggi penali nel tempo.
Le Sezioni Unite affermano che, a fondamento del principio di irretroattività della norma più sfavorevole – il quale attiene non solo alle norme incriminatrici, ma anche a quelle che incidono sulla qualità e quantità della pena – si pone, essenzialmente, un’istanza di garanzia della persona contro i possibili arbìtri del legislatore.
In merito a tale corollario, le Sezioni Unite pongono in rilievo un’istanza di preventiva valutabilità da parte dell’individuo delle conseguenze penali della propria condotta, funzionale a preservare la libera autodeterminazione della persona.
È dunque la condotta, secondo i giudici di legittimità, il punto di riferimento temporale essenziale a garantire la “calcolabilità” delle conseguenze penali e, con essa, l’autodeterminazione della persona. È in tale frangente temporale che deve essere riconnessa l’operatività del principio di irretroattività, posto che correlare la sua operatività all’evento del reato determinerebbe, qualora alla condotta interamente posta in essere nella vigenza di una legge penale sia sopravvenuta una normativa penale più sfavorevole, “la sostanziale retroattività di quest’ultima rispetto al momento in cui è effettivamente possibile per la persona prevedere ed orientare le conseguenze penali del proprio agire; con l’inevitabile svuotamento dell’effettività della garanzia di autodeterminazione della persona e della ratio di tutela del principio costituzionale di irretroattività”.
L’essenza di garanzia del principio di irretroattività della norma più sfavorevole e il suo necessario riferimento alla valutabilità delle conseguenze penali della condotta dei consociati rappresentano un fondamento invalicabile nell’indirizzare la soluzione della questione rimessa alle Sezioni Unite verso l’adesione al criterio della condotta.
Le Sezioni Unite proseguono nella motivazione affermando che l’identificazione, ai fini della successione di leggi penali, del momento consumativo del reato con quello della condotta tipica trova decisive conferme in virtù, altresì, delle funzioni costituzionali della pena, “in quanto è nel momento in cui agisce ovvero omette di compiere l’azione doverosa che l’agente si pone in contrasto con la funzione di orientamento della norma penale: ciò conferma che, ai fini della successione di leggi penali, il tempo del commesso reato va individuato nella condotta, ossia nel momento rispetto al quale la funzione di prevenzione generale della norma penale può in concreto esplicarsi”.
La Suprema Corte, muovendo dalla lettura congiunta del primo e del terzo comma dell’art. 27 Cost., nel quadro delle fondamentali direttive del sistema costituzionale desunte, tra l’altro, dall’art. 25 Cost. e, citando la già richiamata sentenza n. 364 del 1988 della Corte costituzionale, ha messo in luce come alla possibilità di conoscere la norma penale vada «attribuito un autonomo ruolo nella determinazione dei requisiti subiettivi d’imputazione costituzionalmente richiesti», in quanto tale possibilità è «presupposto della rimproverabilità del fatto, inteso quest’ultimo come comprensivo anche degli elementi subiettivi attinenti al fatto di reato»; in questa prospettiva, con specifico riferimento al principio di irretroattività della norma penale sfavorevole, la Corte ha sottolineato che: «avuto riguardo anche al fondamentale principio di colpevolezza ed alla funzione preventiva della pena, desumibili dall’art. 27 Cost., ognuno dei consociati deve essere posto in grado di adeguarsi liberamente o meno alla legge penale, conoscendo in anticipo – sulla base dell’affidamento nell’ordinamento legale in vigore al momento del fatto – quali conseguenze afflittive potranno scaturire dalla propria decisione […]: aspettativa che sarebbe, per contro, manifestamente frustrata qualora il legislatore potesse sottoporre a sanzione criminale un fatto che all’epoca della sua commissione non costituiva reato, o era punito meno severamente».
Alla luce delle considerazioni svolte e delle sentenze costituzionali richiamate, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con Sentenza n. 40986 del 2018, annullavano senza rinvio la sentenza impugnata, ritenendo che la pena fosse stata applicata sulla base della legge più sfavorevole al reo, sopravvenuta rispetto alla condotta e vigente al momento dell’evento.
[1] Corte Costituzionale, sentenza 24/03/1988 n. 364
[2] Corte Costituzionale, sentenza 23/11/2006 n. 394
[3] Cass., Sez. Un., 19 luglio 2018 (dep. 24 settembre 2018), n. 40986, Pres. Carcano, Est. Caputo
[4] Cassazione penale, sez. IV, ordinanza 14/05/2018 n° 21286
[5] Cassazione Penale, Sez. IV, 27 maggio 2015, n. 22379
[6] Cassazione penale, Sez. V, 13 marzo 2014, n. 19008.
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Marica Alosi
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