Il traffico di influenze illecite: dubbi di compatibilità tra principio di offensività e la punibilità della c.d. ipotesi di mediazione onerosa
L’art. 346-bis c.p., rubricato traffico di influenze illecite, punisce l’accordo illecito tra privato-committente e mediatore volto ad influenzare la volontà e l’operato di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio. Trattandosi di un delitto del privato contro la pubblica amministrazione, non punisce, a differenza dei delitti contemplati dall’art. 316 c.p. e seguenti, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, posto che questi rimangono estranei al pactum sceleris, non ne partecipano e intervengono in un momento solo successivo, allorquando l’accordo produce gli effetti per i quali è sorto.
La formulazione dell’art. 346-bis c.p. rappresenta il frutto di un intervento legislativo ad opera della L. n. 190/2012 mediante il quale il legislatore ha introdotto il reato di traffico di influenze illecite con lo scopo di sopperire alle inefficienze dell’allora vigente art. 346 c.p. In tal senso, l’ipotesi delittuosa ivi prevista, rubricata “millantato credito” ed abrogata con la L. n. 3/2019, puniva il privato che, millantando un credito nei confronti di un pubblico ufficiale, “si faceva dare o promettere denaro od altra utilità come prezzo della propria mediazione”. Guardando all’etimologia del termine millantare, è evidente che il legislatore, con l’art. 346 c.p., intendeva punire relazioni solo putative, ovverosia punire quelle ipotesi in cui un privato vantava rapporti con il pubblico ufficiale inesistenti e dunque, non sempre idonei a comportare una effettiva influenza sull’operato pubblico.
Tuttavia, la formulazione del 346 c.p. conduceva ad un paradosso: il legislatore aveva reso penalmente rilevanti le relazioni millantate, ma aveva escluso le ipotesi in cui il privato avesse sfruttato relazioni esistenti con il pubblico ufficiale e, dunque, ipotesi in cui il privato fosse stato in grado di influenzare l’operato della pubblica amministrazione. Era, pertanto, intervenuta la giurisprudenza che, al fine di rendere punibile anche lo sfruttamento di relazioni esistenti, aveva interpretato estensivamente il millantato credito. Tale interpretazione marcava la differenza tra interpretazione estensiva ed analogia e portava con sé il rischio di collidere con il divieto di analogia in malam partem.
L’introduzione dell’art. 346-bis c.p. aveva soddisfatto l’esigenza punitiva manifestatasi nella casistica ma, allo stesso modo, aveva fatto nascere difficoltà interpretative perché, sebbene le due fattispecie si presentassero simili, il traffico di influenze illecite lasciava fuori dall’area del penalmente rilevante le ipotesi in cui il mediatore si faceva dare o promettere utilità di tipo non patrimoniale, posto che il legislatore non replicava parte dell’art. 346, ove invece compariva il riferimento ad “altre utilità”.
La fattispecie, dunque, di traffico di influenze illecite veniva nuovamente modificata nel 2019, ad opera della L.n.3 la quale abrogava l’art. 346 c.p., e faceva confluire le condotte ivi punite all’interno della fattispecie di cui all’art. 346-bis c.p.
Non può non evidenziarsi che i molteplici interventi sono rappresentativi di una forte insicurezza del legislatore. Questi, infatti, ha inteso punire condotte evidentemente propedeutiche che rischiano di anticipare eccessivamente la tutela penale anche a fatti che non possono considerarsi penalmente rilevanti in virtù dei principi che governano il diritto penale, in tema di materialità, sufficiente determinatezza ed offensività. Per altro, sebbene il legislatore appaia cosciente del rischio di eccessiva anticipazione, va sottolineato che la fattispecie di traffico di influenze illecite veniva introdotta a seguito del propagarsi del fenomeno del lobbismo, grazie al quale soggetti particolarmente influenti erano in grado di esercitare una potere sull’operato della Pubblica Amministrazione. Il rischio della non introduzione dell’art. 346-bis c.p. era, dunque, la corrispondente impunità di fenomeni di questo tipo, sicuramente in grado di ledere all’imparzialità della Pubblica Amministrazione.
Orbene, l’odierna formulazione dell’art. 346 bis c.p. rappresenta a pieno la volontà del legislatore di punire condotte propedeutiche ai reati corruttivi. Invero, la stessa clausola di riserva di apertura della norma esclude il concorso con le fattispecie di corruzione per l’esercizio della funzione e per atto contrario ai doveri d’ufficio, corruzione in atti giudiziari e corruzione c.d. internazionale, di talché quando il pactum produce l’effetto per il quale è intervenuto, l’influenza prodotta nei confronti del pubblico ufficiale e dell’incaricato di pubblico servizio viene assorbita dalla fattispecie corruttiva integrata, divenendo il traffico di influenze illecite un post factum non punibile. Di conseguenza, integrata la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 318, 319, 319-ter o 322-bis c.p. il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, esclusi dalla punibilità nel traffico di influenze illecite, divengono soggetti attivi del reato e destinatari della sanzione punitiva.
Il legislatore, all’art. 346-bis c.p. punisce le condotte di seguito suddivise: 1) chiunque sfrutta relazioni esistenti con il pubblico ufficiale; 2) chiunque vanta relazioni esistenti con il pubblico ufficiale; 3) chiunque sfrutta relazioni asserite con il pubblico ufficiale; 4) chiunque vanta relazioni asserite con il pubblico ufficiale.
Analizzandole autonomamente, è possibile delineare le peculiarità della fattispecie incriminatrice che, per scelta legislativa, equipara la c.d. influenza effettiva, alle ipotesi di influenza potenziale o impossibile. Più nel dettaglio, difatti, la fattispecie pluristrutturata, punisce 1) chiunque è in grado, in forza di una relazione esistente con il pubblico ufficiale, di esercitare una influenza effettiva sulla pubblica funzione; 2) chiunque, in forza di una relazione esistente con il pubblico ufficiale, non è in grado di influenzare il suo operato, ma ne vanta la possibilità; 3) chiunque, in assenza di una relazione preesistente con il pubblico ufficiale, è in grado, anche in relazione alla sua posizione ed alle sue conoscenze, di influenzare il pubblico ufficiale; 4) chiunque, in assenza di un preesistente rapporto con il pubblico ufficiale, non può e non è in grado di influenzarne l’operato.
Dalla analisi della prima parte del primo comma della fattispecie sono immediatamente delineabili i profili di criticità connessi al principio di offensività.
Il principio di offensività è un principio che, sebbene non espressamente richiamato dalla Carta Costituzionale, è ricavabile dagli articoli della Costituzione. Esso, infatti, discende dagli artt. 3, 25 e 27 ed impone al legislatore di rendere penalmente rilevanti e, dunque, astrattamente punibili, le condotte concretamente in grado di ledere o porre in pericolo beni costituzionalmente tutelati, in modo che il cittadino, destinatario della pena, è in grado di comprendere il disvalore della propria condotta. Se, difatti, la condotta posta in essere dal soggetto attivo del reato, inidonea a ledere o a porre almeno in pericolo il bene giuridico tutelato dalla fattispecie, venisse punita, egli non potrebbe avere contezza del disvalore della condotta e non potrebbe, allo stesso modo, essere rieducato mediante lo strumento della pena.
Il principio di offensività in astratto pone problemi con riguardo ai reati di pericolo: invero, i reati di pericolo costituiscono anticipazione della tutela penale, posto che essi si fondano su un giudizio di pericolosità e di probabilità che dalla condotta dell’agente, il bene tutelato dalla fattispecie venga messo in pericolo.
Tale categoria di reati può essere a sua volta distinta in reati di pericolo astratto (o presunto), ove il giudizio di pericolosità viene effettuato a monte dal legislatore sicché è sufficiente che il fatto corrisponda alla fattispecie astratta, e reati di pericolo concreto, ove il giudizio di pericolosità non viene effettuato a monte dal legislatore, ma a valle dal giudice che, analizzando il caso concreto, è chiamato a verificare che la condotta dell’agente sia concretamente idonea a porre in pericolo il bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice.
La distinzione messa in evidenza, merita apposita riconsiderazione alla luce del principio di offensività in concreto. In forza di tale principio non basta che la fattispecie in astratto sia offensiva, ma è necessario che, in concreto, il fatto tipico corrispondente alla fattispecie astratta abbia concretamente posto in pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma. Tale principio trova come destinatario il giudice che è chiamato a verificare la corrispondenza in concreto del fatto tipico posto in essere dal soggetto attivo del reato con la fattispecie astratta,
Di conseguenza, i reati di pericolo astratto non sfuggono al giudizio di offensività in concreto al punto che la giurisprudenza tende sempre più ad avvicinarli ai reati di pericolo concreto.
Emblematico è quanto accaduto in tema reati in materia di stupefacenti, ove la giurisprudenza più recente ha interpretato nuovamente l’art. 73 d.P.R. 309/1990, escludendo dall’alveo del penalmente rilevante, la condotta di chi coltiva sostanza stupefacente con modalità rudimentali o domestiche, tali per cui la coltivazione non può ritenersi idonea ai fini di spaccio e dunque, non può ritenersi in grado di offendere il bene giuridico della salute pubblica tutelato dalla fattispecie astratta.
Medesime conclusioni sono state tratte in relazione al reato di associazione per delinquere ove, la condotta associativa non può ritenersi integrata per il sol fatto di corrispondere alla fattispecie astratta. Ciò che rileva è che l’associazione sia in concreto idonea a mettere il pericolo l’ordine pubblico.
Di conseguenza, trattandosi di reato di pericolo astratto, anche la fattispecie di traffico di influenze illecite non può sfuggire al giudizio di pericolosità in concreto.
Da come formulata, invero, il legislatore ha equiparato ipotesi di influenza possibile ad ipotesi di influenza solo potenziale o impossibile. Difatti, le condotte maggiormente critiche sono date dalle ipotesi di “sfruttare relazioni inesistenti” e “vantare relazioni inesistenti”. In questi casi, infatti, come un climax ascendente, la probabilità di influenzare l’operato pubblico si riduce, sino a diventare nulla.
E la questione si complica maggiormente quando si guarda alla seconda parte del primo comma dell’art. 346-bis ove vengono identificate le ipotesi di mediazione gratuita e mediazione onerosa.
In tal senso, la mediazione gratuita si verifica quando il mediatore non riceve alcun profitto dalla attività di mediazione, ma destina il denaro o l’altra utilità alla remunerazione del pubblico ufficiale. Si parla, invece, di mediazione onerosa quando il mediatore mette a disposizione la propria influenza e ne ottiene un profitto dato da una somma di denaro o da altra utilità. Ciò che distingue, dunque, la mediazione gratuita dalla mediazione onerosa è il destinatario del profitto: nel primo caso, destinatario è il pubblico agente, nel secondo caso il destinatario è lo stesso mediatore.
Guardando alla mediazione gratuita, il rapporto tra mediatore e pubblico agente può esistere e può non esistere, e l’influenza può essere effettiva come impossibile. Tutte le ipotesi ricadono ugualmente nella fattispecie incriminatrice, senza alcuna distinzione, sicché è immediatamente percepibile la natura di reato con finalità prospettivamente corruttiva, poiché il fatto trova punizione anche quando la corruzione non può realizzarsi.
È da tale caratteristica che si percepisce l’anticipazione della tutela penale poiché il legislatore intende punire le condotte che sono in grado di porre in pericolo l’imparzialità della pubblica amministrazione e non solo quando tale imparzialità viene lesa dalla commissione di un reato corruttivo.
L’anticipazione della tutela penale si percepisce, ancora di più, nell’ipotesi di mediazione onerosa e in particolare, nell’ipotesi in cui la relazione è inesistente e la capacità di influenza è nulla. È opportuno sottolineare che non ogni mediazione può considerarsi illecita: se così fosse, infatti, verrebbe a determinarsi un problema di compatibilità con il principio di materialità e di offensività.
La mediazione onerosa, guardando ai profili civilistici, è un contratto attraverso il quale il mediatore è chiamato ad esperire un incarico di mediazione dietro il pagamento di un corrispettivo. Nel diritto civile, guardando alla fattispecie che interessa, quando il mediatore è legato ad una delle parti da un rapporto, la mediazione viene qualificata atipica, e distinta dalla diversa ipotesi di mediazione tipica, ove il mediatore è soggetto terzo rispetto alle parti che gli affidano l’incarico.
Conseguentemente, quando la mediazione è atipica è sottoposta al giudizio di meritevolezza dell’interesse ai sensi dell’art. 1322 c.c. in tema di autonomia contrattuale: le parti possono stipulare contratti anche non previsti e disciplinati dal legislatore; tuttavia, il contratto atipico è valido solo quando meritevole di interesse da parte dell’ordinamento giuridico.
Ed è proprio sotto quest’ultimo profilo che può desumersi la illiceità della mediazione onerosa ai sensi dell’art. 346-bis c.p.: ciò che rileva, infatti, è l’interesse perseguito dalle parti anche quando la mediazione onerosa è impossibile per inesistenza del rapporto vantato: ciò che rende quel contratto illecito è il risultato perseguito dalle parti, la direzione della volontà dei correi alla commissione del reato corruttivo, anche se impossibile per inidoneità.
La tecnica adoperata dal legislatore nella redazione e formulazione dell’art. 346-bis c.p. è, tirando le somme, anticipatoria della tutela penale e rappresentativa di quella politica, avviata con la Legge n.190/2012, di contrasto ai fenomeni di c.d. maladministration: il legislatore si disinteressa della idoneità dell’influenza sull’operato del pubblico agente, punendo la direzione dell’accordo illecito: ciò che interessa, ai fini della punibilità, e che le parti abbiano inteso minare la imparzialità della pubblica amministrazione.
Tale anticipazione emerge a chiare lettere grazie alla già menzionata clausola di riserva, mediante la quale il legislatore fa assorbire il traffico di influenze illecite quando l’accordo tra mediatore e committente determina l’influenza del pubblico agente ed integra altre fattispecie incriminatrici.
Interessanti, infine, anche i profili processuali: la prova della colpevolezza degli imputati è data dalla direzione dell’accordo, prova senz’altro complessa, posto che merita puntuale accertamento la natura dell’accordo, punibile se “diretto” anche se non “idoneo”.
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