Il Trust, una garanzia od un fallimento?
L’istituto del Trust “interno”, entrato in vigore il 1.1.1992 con la l.16.10.89 n.364 in ratifica della Convenzione dell’Aja del 1.07.85, è stato sin da subito oggetto di svariati studi da parte della dottrina e sopratutto da parte della giurisprudenza, difatti da quest’ultima è stato definito come una “segregazione di beni non dissimile da quella propria di analoghi istituti parimenti esistenti nel nostro ordinamento” si pensi ad esempio ai fondi patrimoniali o ai patrimoni con vincolo di destinazione e destinati ad uno specifico affare.
Ma tale istituto che oggi viene visto come mezzo di garanzia del proprio patrimonio, può vivere una fase critica proprio nelle ipotesi di fallimento del disponente dei beni oggetto di trust.
A tal riguardo si distinguono due ipotesi in cui il trust può entrare in conflitto con la procedura fallimentare, ossia:
se il disponente fallito ha costituito il trust quando ancora non era in stato di insolvenza;
il disponente fallito costituisce il trust in stato di insolvenza.
Esaminando le due ipotesi troviamo che nel primo caso, il fallimento del disponente, potrebbe essere considerato come una causa di sopravvenuto scioglimento del trust, da considerarsi senza alcun margine di dubbio come lecito e pertanto in sede una eventuale azione di revocatoria fallimentare ex art. 67 l.f. sarà il Giudice ad accertare ed a valutare, caso per caso, la validità del trust (Trib Cremona 8.10.13, Trib. Brindisi 28/03/11), e la sua meritevolezza come ampiamente specificato dal Tribunale di Milano del 10 novembre 2011 secondo il quale occorre valutare la “meritevolezza della causa concreta del trust”, ossia la “piena corrispondenza tra quanto emerge dall’atto istitutivo del trust e quanto in concreto perseguito dalle parti”, poichè prassi consolidata vuole che dinnanzi a tali disposizioni del bene, ci potrebbe sempre essere una volontà sottrattiva dello stesso in danno ai creditori.
E’ da considerarsi anche il trust in funzione solutoria o liquidatoria utilizzato per l’ottenimento veloce di liquidità da parte dell’imprenditore, in alternativa ovviamente ai tanti mezzi messi a disposizione oggi dall’ordinamento, quali l’accordo di ristrutturazione dei debiti o la simile ma più gravosa liquidazione patrimoniale ex L. 3/2012
La Giurisprudenza, oramai maggioritaria, considera – nel caso di un trust istituito dall’imprenditore già in stato di insolvenza – consolidato il principio secondo cui “un trust liquidatorio che si ponga come dichiarato scopo quello di tutelare i creditori ricorrendo alla segregazione patrimoniale di tutto il patrimonio aziendale, quando l’impresa era già insolvente (e quindi, avendo perso i mezzi propri, avrebbe dovuto immediatamente accedere agli istituti concorsuali) è incompatibile ab origine con la clausola di salvaguardia di cui all’art. 15 lett. e)”, essendo il predetto trust – “un atto privatistico che mira dissimulatamente a sottrarre agli organi della procedura la liquidazione dei beni in assenza del presupposto sul quale poggia il potere dell’imprenditore di gestire il proprio patrimonio (ossia che l’impresa sia dotata di mezzi propri”(25 marzo 2011 Tribunale di Mantova).
Si è anche detto che, diversamente ragionando, si consentirebbe all’imprenditore insolvente di impedire ai creditori di efficacemente soddisfarsi sui suoi beni.
E’ da riportare inoltre, l’orientamento del Tribunale di Milano (16.6.2009 e 29.10.2010) in merito al trust liquidatorio, ove si ha avuto modo di evidenziare come la legge 364/89 stabilisca che la normativa fallimentare (a tutela di interessi pubblici) deroghi la predetta legge, escludendo pertanto l’operatività del trust ed il contestuale vincolo di destinazione del bene oggetto del contratto, in ambito fallimentare.
Pertanto è da ritenere viziato, per contrarietà a norme imperative italiane, il trust liquidatorio che non prevede, in caso di fallimento, che i beni siano restituiti al curatore e che tale nullità si riversi sull’intero negozio “sebbene il profilo di contrarietà attenga soltanto alla gestione del patrimonio nel caso di fallimento e alla mancata precisione della riconsegna dei beni al curatore, quando questo è stato l’unico e il vero motivo per cui le parti si determinarono a stipulare il trust”.
Ovviamente il Curatore Fallimentare esperto, prima di dichiarare la nullità dell’istituto, potrebbe valutare l’opportunità di subentrare all’interno del trust, beneficiando della posizione di trustee o comunque risultando quale amministratore della massa attiva ed in qualità di garante dei creditori concorsuali, pertanto anche in questa sede, è opportuno per il curatore fallimentare porre l’accento sempre sulla valutazione “ caso per caso” (Tribunale Brindisi 28/03/11).
Inoltre sarà ulteriore premura del Curatore Fallimentare, verificare eventuali condotte penalmente rilevati in caso di costituzione di trust, in quanto la volontà dell’imprenditore potrebbe essere proprio quella di distrarre, sottrarre, occultare o comunque rendere non disponibile dolosamente alla concorsualità creditoria un bene, integrando così l’ipotesi di cui all’art. 216 l.f. che disciplina la bancarotta fraudolenta.
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Riccardo De Simone
Laureato in Giurisprudenza con tesi in Diritto Civile all'Università degli Studi di Napoli "Parthenope", si occupa di tutto ciò che riguarda il diritto fallimentare e le procedure concorsuali nonchè crisi da sovraindebitamento.
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