Il velo delle donne nell’Islam… obbligo o scelta?
Lo scorso 17 febbraio, Kazempour una ingegnera iraniana che si oppone all’obbligo del velo in Iran, ha lanciato il proprio hijab sul palco durante l’Assemblea nazionale degli ingegneri, davanti a centinaia di persone, in segno di protesta per l’esclusione della sua candidatura alla presidenza dell’organizzazione di categoria.
Ebbene, a seguito di tale gesto la magistratura iraniana ha avviato un procedimento giudiziario a suo carico per “mancanza di rispetto” verso l’hijab (il velo) e la stessa è stata dunque processata per aver “insultato” il velo musulmano obbligatorio per tutte le donne nella Repubblica islamica a guida sciita. Lo ha reso noto l’agenzia di stampa Tasnim.
L’obbligo di indossare il velo in pubblico ha dato luogo nell’ultimo anno a numerose proteste a livello nazionale, in particolare dopo la morte della 22enne Mahsa Amini in seguito al suo arresto per una “presunta” violazione del codice di abbigliamento. La donna è morta mentre si trovava in custodia cautelare.
Dall’inizio delle proteste infatti molte donne hanno deciso di togliere il velo per sfidare le autorità iraniane.
Tuttavia, in Europa invece sussiste la scelta da parte di alcune donne di portare il velo e tale scelta è orientata a contestare proprio il mancato riconoscimento della dignità all’Islam da parte dell’Europa stessa.
In particolare in Francia, nel Regno Unito e in Germania dove c’è la più alta percentuale di musulmani, la pratica del velo è diventata oggetto di discussioni giuridiche in quanto tale indumento viene considerato come l’emblema dell’estremismo islamico contrario ai valori democratici e liberali.
In Francia, ad esempio un’altra donna ingegnere progettista della societa’ di consulenza informatica Micropole, Asma Bougnaoui, che indossava un velo islamico che le copriva il capo, lasciandole il viso scoperto, è stata licenziata nel 2009 perché secondo la societa’, questa abitudine avrebbe “messo in imbarazzo” un cliente, che ha quindi chiesto di non indossarlo piu’ nei successivi incontri. Al rifiuto della dipendente, la società ha deciso di licenziarla, giustificando la decisione con il fatto che “il suo rifiuto di togliere il velo rendeva impossibile lo svolgimento delle sue mansioni in rappresentanza dell’impresa”.
Ebbene licenziare una lavoratrice perché indossa un velo islamico rappresenta una discriminazione diretta illegittima.
La Corte di cassazione francese, dinanzi alla quale pendeva il ricorso dell’ex dipendente, ha chiesto alla Corte di giustizia se il requisito di non indossare un velo islamico in occasione della prestazione di servizi di consulenza informatica ai clienti possa essere considerato un “requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa” e non vi si applichi pertanto il divieto di discriminazione in base alla religione o alle convinzioni personali di cui alla direttiva 2000/78.
Oggi l’avvocato generale ha in particolare sottolineato che “nulla suggerisce che la sig.ra Bougnaoui non fosse in grado di eseguire i suoi compiti di ingegnere progettista per via del velo islamico. In effetti, la lettera di licenziamento della Micropole faceva espressamente riferimento alla sua competenza professionale” e conclude che il suo licenziamento “costituisce una discriminazione diretta e che nessuna delle deroghe previste dalla direttiva trova applicazione”. (AGI).
Il velo islamico, dunque, simbolo per eccellenza dell’Islam, negli ultimi decenni è stato oggetto di un acceso dibattito che ha attraversato sia i paesi a maggioranza islamica che quelli occidentali. In particolare si è discusso e si discute sul suo essere o meno prescritto dal Corano e se sia segno di oppressione o di libera scelta.
Dal punto di vista storico, è possibile ricercare la genesi di tale dibattito all’interno delle società tribali, laddove l’utilizzo del velo si pone come tentativo di proteggere le donne da aggressioni fisiche, mentre nelle società bizantine trova fondamento in qualità di tratto distintivo delle donne nobili rispetto alle schiave. Da un punto di vista religioso invece non è difficile scorgere influenze coraniche determinanti, anche se non tutti convengono sul fatto che il testo sacro parli espressamente del suo obbligo.
La diversità delle culture del velo, dunque , ha dato luogo ad una questione ideologica che è diventata sempre più aspra anche nelle dinamiche giuridiche, e di conseguenza mentre in alcuni ordinamenti a carattere islamico vige l’obbligo generale di portare il velo, in altri il suo uso è facoltativo, e negli ultimi due secoli le diverse posizioni si sono polarizzate contrapponendo fautori ed avversari. In particolare infatti si sostiene che la cultura musulmana discrimini le donne e in quanto tale è inaccettabile, perché tali estremizzazioni dovrebbero essere evitate da una legge occidentale così fondata sulla salvaguardia del rispetto per i diritti della persona; ragion per cui, nell’ottica di queste società, il velo rappresenta un obbligo imposto alle donne e il relativo uso ne impedisce l’integrazione e ne favorisce l’isolamento, ostacolando il godimento dei diritti fondamentali.
Altra corrente di pensiero ritiene che la non integrazione sia una libera scelta delle donne e l’uso del velo costituirebbe un comportamento di rivendicazione della cittadinanza e delle proprie origini culturali. Tuttavia, per altri il velo espone la donna nell’atto di dichiarare la propria visione del mondo, l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale e contribuisce significativamente a indirizzare il suo comportamento verso gli altri. Ed è per questo motivo che si parla di “diritto al velo”, dato che ogni donna libera e musulmana in quanto tale, ha il pieno diritto di scegliere se indossarlo o meno.
Pertanto, in tale dibattito si nota un’ oscillazione nel presentare la donna velata come una donna oppressa e come portatrice di sfida all’ordine costituito.
La vaghezza delle prescrizioni coraniche dunque ha permesso che all’interno del mondo islamico si sedimentassero tradizioni di segno diverso, così che non solo il velo indossato dalle donne assume spesso dimensioni, scopi e denominazioni nettamente differenti, ma anche che in alcuni Paesi come l’Iran esso viene imposto con sanzioni durissime in quanto è considerato vincolante per tutte le donne credenti, e non vi è spazio per modifiche e indulgenze in merito all’abolizione, mentre in altri paesi come l’Egitto, viene sostanzialmente ritenuto come una pratica tradizionale lecita ma non obbligatoria e comunque priva di qualsiasi fondamento religioso.
Certamente ci sono donne nell’Islam che sono obbligate ad indossare il velo dal padre, dal marito, dalla famiglia o dalla comunità in cui vivono, ma ci sono anche donne che liberamente scelgono di farlo o donne che ritengono conveniente indossarlo perché solo in questo modo possono avere una relazione con il mondo esterno alla famiglia ed è per questo che si parla di ʻdiritto al veloʼ.
Pertanto mi chiedo è giusto affermare che questo tipo di indumento, culturalmente accettato ovunque dalle società musulmane, è realmente contrario allo spirito del femminismo? Perché indossare il velo dovrebbe essere oppressivo e invece indossare una minigonna liberatorio? E’ vero che per la maggioranza il velo costituisce una restrizione della femminilità e una limitazione della libertà, ma per altre portare il velo è una scelta e non costituisce nessun problema perché non vedono in tale indumento alcuna privazione, esso per loro non inficia la loro eleganza o femminilità e la loro identità. Il punto della spiegazione dunque sta nelle diverse supposizioni che vengono fatte dalle parti sulle donne coinvolte e sulla loro capacità di compiere delle scelte. Il Corano infatti non impone l’uso del velo.
Il dibattito tuttavia è ancora in corso e alcuni intellettuali continuano a rivendicare la liberazione delle donne nella vita sociale e professionale come nella vita matrimoniale e familiare.
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Avv. Federica Pisaniello
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