Il “virus” della democrazia. Gli effetti collaterali del potere necessitato d’urgenza
Sommario: 1. Lo stato di emergenza – 2. (In)certezza del diritto – 3. Le ordinanze extra ordinem ed il principio di legalità – 4. Il “sacrificio” della democrazia.
1. Lo stato di emergenza
Per la prima volta dalla fine del secondo conflitto mondiale, il nostro Paese si è trovato costretto a limitare alcune libertà fondamentali garantite dalla Costituzione, in particolare la libertà di circolazione e soggiorno, la libertà di riunione nelle sue varie forme, la libertà finanche di coltivare pratiche religiose. Abbiamo sperimentato, primi in Europa, un percorso normativo volto a contemperare, da una parte, l’esigenza prioritaria di tutelare in massimo grado il bene primario della salute pubblica e, dall’altra, la necessità di assicurare adeguati presidi democratici.
Il diritto emergenziale rappresenta, in via di principio, la più generale “valvola di sicurezza” di ogni ordinamento moderno a disposizione dell’Amministrazione per sfuggire alle rigidità ed alle lungaggini della legge e per fornire, di tal guisa, risposte immediate, concrete ed indifferibili. Il risultato è quello di ostacolare una pericolosa sclerotizzazione del sistema che, in difetto, resterebbe, invero, privo degli indispensabili strumenti di flessibilità che consentono alla P.A. di esercitare i propri poteri in coerenza con le realtà fattuali in cui si trovi ad operare. Ciò tanto più in caso di sistemi complessi e in costante divenire come quello attuale.
Proprio lo stato di emergenza impone, allora, di prescindere dall’applicazione degli ordinari strumenti di amministrazione a favore di regimi giuridici speciali e semplificati con normative (spesso) meno stringenti dei pubblici poteri e proporzionalmente meno garantiste nei confronti dei cittadini.
L’improvvisa emergenza sanitaria che ci troviamo ad affrontare a causa della oramai dichiarata pandemia di Covid-19 (comunemente chiamato Coronavirus) deve, per questi motivi, essere affrontata solo per mezzo di poteri eccezionali di reazione, di iniziative provvedimentali al di là di ogni condivisione. Trattasi di poteri che si dipanano sia a livello centrale dal Governo, per assicurare la gestione coordinata, unitaria ed omogenea del problema, sia a livello locale dai Presidenti delle Regioni e dai Sindaci comunali, in virtù dell’ attribuzione del potere di emettere ordinanze per affrontare le specifiche esigenze locali.
In particolare, Sindaci e Presidenti di Regione hanno il potere di intervenire per integrare le misure del governo, se del caso inasprendo quanto stabilito a livello statale, per mezzo di ordinanze di necessità ed urgenza.
E mentre il nostro beneamato Paese rallenta e schiera in campo le sue migliori risorse per vincere il “mostro invisibile”, due sono gli effetti “collaterali” che intanto si innescano, congiuntamente all’azione curativa messa in atto dalle Autorità preposte al controllo: una grave condizione di incertezza del diritto, sul versante amministrativo, ed un regime (transitorio) fortemente compressivo delle libertà fondamentali ed inviolabili dell’individuo che mette a dura prova lo stato di diritto, sul piano costituzionale.
2. (In)certezza del diritto
Per poter disquisire sull’identità dell’ordinamento, bisogna partire dall’organizzazione della P.A. Ragionare sull’organizzazione precede logicamente il ragionare sull’azione.
Quindi, ragionare sull’organizzazione ha, paradossalmente, ricadute extra-organizzative.
L’anzidetta frammentazione di competenze multilivello si deve, innanzitutto al modello di Stato decentrato accolto dalla nostra Costituzione. Essa consacra all’art. 5 il principio del pluralismo autonomistico, dove “autonomia locale” e “decentramento amministrativo” convivono con unità e indivisibilità nello Stato Repubblicano.
Tuttavia, a destare sospetti è proprio questa dislocazione di funzioni su più poli.
Il nostro assetto ordinamentale chiaramente non prevedeva una specifica emergenza di questo tipo: si combatte, ai giorni nostri, un nemico invisibile ed insidioso, sistematico nella esecuzione e dall’ineluttabile fine, che entra nelle nostre case, che divide le nostre famiglie, ci ha imposto di ridefinire persino le relazioni interpersonali ed alla fine ci ha condotto ad una limitazione significativa degli spostamenti pur di mitigare il rischio di una sua diffusione incontrollata.
Questa emergenza è così coinvolgente che sfida il nostro Paese in tutte le sue componenti, in tutti i suoi gangli vitali. È una sfida, ad un tempo, sanitaria, economica e sociale. È un’emergenza che riguarda il settore pubblico, ma riguarda anche il settore privato. Da ogni decisione assunta discendono conseguenze di immane portata per la vita, innanzitutto quella fisica, dei singoli cittadini. Scelte che condizioneranno anche il futuro della nostra comunità e verrà il tempo dei bilanci.
È d’uopo ricordare che l’organizzazione della sanità è di completa competenza delle Regioni, mentre allo Stato spetta dettare i principi fondamentali in materia di tutela della salute e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni. Il Governo ha, dunque, anticipato la reazione, ponendo in essere le azioni di sua competenza necessarie ed utili a presidiare i beni della vita e della salute dei cittadini.
La limitazione del contagio è stata, sin da subito, la scelta necessaria a consentire al sistema di adeguarsi con un piano emergenziale specifico e nuovo, pur sempre basato sulla legislazione vigente, attraverso un metodo d’azione e di intervento che è mai stato sperimentato prima, in assenza nel nostro ordinamento di una esplicita disciplina per lo stato di emergenza, a differenza di altre esperienze giuridiche straniere.
È stato, in prima battuta, ritenuto necessario ricorrere al decreto legge n. 6 [1] recante misure immediate di contenimento del contagio, definendo al contempo un percorso normativo del tutto nuovo, affidato allo strumento del DPCM, uno strumento flessibile che consente di “dosare” le misure di contenimento, mitigazione e prevenzione del rischio. Nel DPCM, il Governo del Paese ha ravvisato lo strumento giuridico più idoneo perché in grado di adattarsi alla rapida e imprevedibile evoluzione del contagio e alle sue conseguenze, rinvenendo il suo fondamento giuridico nel su citato decreto-legge (n.6).
Un aspetto significativo di tali atti governativi riguarda le modalità di regolamentazione dei rapporti (ordinati con l’ultimo DPCM del 22 marzo in modo più puntuale e trasparente) tra questa speciale attività del Governo ed il Parlamento e quelli tra Governo e Regioni. Sul primo versante, viene significativamente previsto che ogni iniziativa governativa dovrà essere trasmessa ai Presidenti delle Camere, in modo da consentire che anche il Parlamento, dove siedono i rappresentanti del popolo, possa essere edotto periodicamente (ogni 15 giorni) su quelle che sono le misure adottate e gli strumenti di reazione posti in essere dal governo per contrastare la diffusione del virus.
Quanto alla regolamentazione dei rapporti tra l’autorità centrale dello Stato e le Regioni, viene concesso ai Presidenti delle Regioni e delle Province autonome di adottare, nell’ambito esclusivo delle proprie competenze, anche misure, se del caso, più restrittive e severe di quelle nazionali.
E veniamo al focus della questione.
Certo è che l’allocazione di funzioni politiche e amministrative tra enti rappresentativi di diversi livelli territoriali consente una maggiore e più scrupolosa gestione della res pubblica che, in omaggio al principio di sussidiarietà cd. verticale, viene perseguita preferendo all’azione degli enti centrali (se non è necessario diversamente) quella delle articolazioni periferiche, ossia il livello di governo più vicino ai bisogni dei cittadini. Non è altrettanto certo, tuttavia, come la stessa possa garantire pari efficacia in quadri diversi, non ordinari e mai affrontati prima d’ora, come quello attuale.
Assommando il descritto policentrismo istituzionale al contesto emergenziale in atto, permeato da un profondo sentimento di paura rispetto ad un “virus killer senza confini” e del quale si conosce ancora solo il nome, da un tale connubio non può derivare ordine.
Diventa difficile fidarsi dello Stato, se lo Stato non sa parlare chiaro. Tanto più in un clima emergenziale ormai di scala mondiale ove la correttezza, l’accessibilità e la responsabilità delle informazioni fornite influenzano l’agire e la sicurezza di tutti, un sistema che abdica al canone della chiarezza è un sistema che ingenera nella popolazione incertezza, smarrimento e sfiducia rispetto ad un modus operandi poco trasparente. Ne deriva il collaterale effetto di incrementare confusione e paure e, nei casi più gravi, il rischio di agevolare la dinamica del contagio anziché contrastarla, allungandone i tempi.
Si pensi, ad esempio, alla “fuga dal Nord” volta ad eludere un divieto ad hoc preannunciato ma non ancora in atto (la circoscrizione delle aree rosse, bloccando entrate ed uscite), mirato a contenere il contagio, che ha reso così impossibile la sua integrale attuazione in termini di effettività, efficienza ed efficacia, vanificandone in larga parte gli effetti.
Da tale sommaria descrizione, può facilmente desumersi come una siffatta situazione drammaticamente complessa minacci di tradursi in una sorta di “autogestione” che genera attriti tra Stato e Regioni e crea incertezza sulle regole cui occorre conformarsi, senza dimenticare che, nei casi più gravi, per i trasgressori è prevista la pena della reclusione. Occorrono, dunque, regole certe, chiare, ma soprattutto univoche.
Lo stato di confusione che aleggia è dovuto non solo a leggi prima annunciate e poi scritte o ad autocertificazioni che non smettono di cambiare, ma altresì a prescrizioni dai confini applicativi evanescenti (ad es., in sede di compilazione della predetta autocertificazione necessaria per gli spostamenti, cosa si intende per “stato di necessità”? Cosa rimane fuori e cosa invece rientra nel suo perimetro applicativo?).
Tale condizione di incertezza generale è, del resto, alimentata da chi, sostituendosi agli organi di stato, a sua volta abbia autonomamente adottato (in quanto di sua competenza, come sopra illustrato) provvedimenti integrativi, non già interpretativi, delle disposizioni governative varate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri[2] . Emblematico è il riferimento all’attività sportiva (considerata una “necessità” dalla circolare[3] del Ministero dell’Interno e una “raccomandazione virtuosa” dall’OMS): in alcune regioni è possibile fare sport all’aperto, purchè a carattere individuale, in altre è assolutamente vietato (Campania, Sicilia, Friuli e Val d’Aosta), in altre ancora è limitato “in prossimità” del domicilio (100/200 m).
In altri termini, si procede, in questa direzione, verso un’applicazione delle regole disomogenea, anche detta “a macchia di leopardo” , foriera di tensioni nelle relazioni tra pubblico potere e cittadini. Se la norma non è chiara, il cittadino non sa cosa fare. Logica conseguenza dell’obiettiva difficoltà di garantire un trattamento uniforme di contenimento e contrasto del diffondersi del Covid-19 sull’intero territorio nazionale è un inevitabile vulnus ai principi di effettività e di certezza del diritto medesimo. Da qui, la necessità di promuovere e favorire una più stringente ed incisiva attività di coordinazione e cooperazione tra istituzioni centrali e locali, in funzione di controllo e responsabilizzazione.
A fronte di simili criticità, peraltro, va ricordato che la Corte Costituzionale ammette la possibilità che la regola espressa dal nuovo art. 118 Cost. possa essere sempre ribaltata, qualora, per la migliore allocazione delle funzioni, appaia preferibile un livello di governo superiore. La Consulta, infatti, facendo leva sul canone della sussidiarietà, quale criterio di distribuzione non solo delle competenze amministrative, ma dell’intera azione di governo (che si sostanzia in leggi, atti normativi e provvedimenti amministrativi), ha osservato che la tendenziale rigidità dell’art. 117 Cost. trova dinamicità nell’art. 118, 1 co. Cost., proprio grazie al summenzionato principio di sussidiarietà che permette di rendere flessibile anche la distribuzione delle competenze legislative.
In tali casi, in omaggio ai principi di certezza giuridica e di leale collaborazione tra Stato ed Regioni, laddove non sarà possibile il principio di sussidiarietà e quindi lo Stato decida di avocare a sé interventi che riguardano i singoli territori in forza del preminente interesse nazionale, prima di adottare i provvedimenti finali deve trovare una soluzione consensuale o comunque avviare un’istruttoria tesa ad acquisire le posizioni e gli interessi delle amministrazioni territorialmente competenti.
3. Le ordinanze extra ordinem ed il principio di legalità
Ancor più delicato appare, in questo particolare momento storico, il problema legato all’aura di autoritarietà di cui appaiono intrise le sopra citate ordinanze di necessità e di urgenza, ossia degli speciali strumenti utilizzati dagli organi preposti al controllo per il contrasto dell’emergenza in atto.
Nel tentativo di appiattire la curva del contagio, alcune di queste misure si sono, in effetti, rivelate pesantemente impattanti su molti diritti e libertà costituzionali.
Ciò è, senz’altro, connaturato all’ontologica struttura dei provvedimenti in analisi, considerata l’amplissima discrezionalità riconosciuta all’organo competente ad emanarli, siccome avulsi dalla predeterminazione contenutistica del relativo potere.
Prima di esaminare la vexata quaestio dei rapporti tra il principio di legalità e le ordinanze in parola, al fine di ottenere un quadro chiaro della presente trattazione, sembra opportuna una breve ricostruzione dell’istituto.
In questa sede si dedicherà maggior spazio espositivo ai poteri d’ordinanza “forti” previsti attualmente nel nostro ordinamento, ritenuti maggiormente significativi in quanto capaci di incidere concretamente sull’assetto normativo ed istituzionale dello stesso e, quindi, tali da destare un serio sospetto di illegittimità costituzionale. Si intende far riferimento a quel potere d’ordinanza denominato in dottrina “libero”, vale a dire il cui presupposto legittimante è definito in termini generici (portata generale), le cui misure da adottare non sono tipizzate nella norma (contenuto libero) e avente la vis derogatoria della legge.
In ambito amministrativo, sono ordinanze tutti quegli atti che creano obblighi o divieti e che, in senso lato, impongono ordini. Esse si sostanziano in statuizioni straordinarie a contenuto atipico, espressione di un potere amministrativo extra ordinem finalizzate a combattere situazioni di urgente necessità nei casi previsti dalla legge (in materia di ordine e sicurezza pubblica ovvero di sanità ed igiene pubblica).
Paradigmatico è il potere (residuale) del Sindaco, ai sensi degli artt. 50 e 54, co.4 TUEL (T.U. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), in veste di ufficiale di governo, di emanare ordinanze contingibili ed urgenti per prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza pubblica.
Le citate misure si fondano sul requisito comune dell’urgenza, il che consente di qualificare questi atti amministrativi in termini di extrema ratio.
I poteri legittimanti (necessità ed urgenza) sono gli stessi di quelli posti a base del potere governativo di emettere decreti-legge, con il quale condividono la modalità di autoattivazione caratterizzata dalla coincidenza nello stesso organo del giudizio sul verificarsi dei presupposti legittimanti e della dichiarazione dello stato di emergenza [4].
Infine, ultima caratteristica dell’ordinanza extra ordinem è la sua atipicità contenutistica, vale a dire l’idoneità della stessa ad intervenire su un numero indefinito e non predeterminato di situazioni, in deroga al principio di tipicità degli atti amministrativi.
Viene da sé che una struttura siffatta consente di valutare in concreto il contenuto del provvedimento. Ulteriore corollario di tale impostazione è che lo spazio valutativo e decisionale riservato alla P.A è talmente ampio da consentire alla stessa, ove ciò si renda assolutamente necessario per fronteggiare la situazione di necessità ed urgenza, di spingersi, seppure in via transitoria, finanche a derogare alle fonti di rango primario, fermo sempre il rispetto della Costituzione, dei principi generali dell’ordinamento e delle norme dell’Unione Europea.
La particolare vis derogatoria di cui godono gli atti in parola va tuttavia temperata da un adeguato obbligo motivazionale che tenga conto dell’interesse generale posto a presidio del provvedimento, della fattispecie concreta e degli elementi costitutivi del provvedimento.
Proprio l’attitudine delle ordinanze di cui trattasi a derogare alle leggi ordinarie vigenti rappresenta uno dei fattori più evidenti della crisi della legalità tradizionalmente intesa, troppo rigida per poter circoscrivere, in un diritto amministrativo caratterizzato da una crescente “incertezza”, un fenomeno quale quello emergenziale, che per la sua stessa natura tende a sfuggire a qualsiasi inquadramento giuridico.
Il principio di legalità è un principio cardine del nostro sistema ordinamentale concernente i rapporti tra legge ed attività amministrativa, in specie, tra potere politico che stabilisce i fini e potere amministrativo che li esegue. Nella sua accezione formale, esso è fattore di legittimazione del potere amministrativo che, ai fini del suo esercizio, deve strettamente corrispondere dalle prescrizioni di legge.
Il principio di legalità accolto dalla Consulta, dalla Cassazione e dal Consiglio di Stato è tuttavia un principio di legalità sostanziale, o forte, che, oltre a legittimarlo sul piano dell’an, vincola in modo rigoroso il potere, il quale, perciò, potrà essere discrezionale, ma mai libero dal punto di vista dei fini, dei modi e delle regole di carattere procedimentale che lo attualizzano. Una visione, questa più evoluta e maggiormente rispondente al dettato costituzionale ed ad una visione moderna dello Stato di diritto.
Ne deriva che l’Amministrazione (il sindaco, nel caso di specie) può e deve, in particolare dinanzi ad un fatto emergenziale, osservare la legge “nella sua lettera e nel suo spirito”, traendo la legittimazione del proprio agire in un principio di legalità che non si risolve nella descrizione di un potere legislativamente positivizzato, ma contempla anche una legittimità sostanziale fondata su norme di principio dal contenuto flessibile che – in quanto proiezione logica ed assiologia del diritto legislativamente posto – risultano comunque sistematicamente connesse alle linee di fondo dell’ordinamento e che, contemporaneamente, garantiscano l’ampia flessibilità che la fattispecie richiede [5].
In altri termini, il carattere straordinario e la funzione che le ordinanze assolvono giustificano la mancanza di predeterminazione legislativa del contenuto; mancanza che consente all’attività amministrativa un certo margine d’azione indispensabile per far fronte ai diversi e spesso imprevedibili fatti emergenziali.
Al riguardo, la Corte Costituzione è più volte intervenuta sulla legittimità costituzionale delle ordinanze de quibus, enucleando una serie di principi che le stesse devono rispettare per essere riconosciute conformi a Costituzione.
Il Giudice delle Leggi ha, infatti, precisato che la capacità delle stesse di derogare a norme legislative vigenti è consentita solo se temporalmente delimitata e comunque nei limiti della concreta situazione di fatto che si tratta di fronteggiare [6].
Oltre alla provvisorietà degli effetti, il Consiglio di Stato precisa che devono tradursi in misure proporzionate rispetto al pericolo cui ovviare. Il provvedimento per essere legittimo e, quindi, superare il vaglio di proporzionalità deve rispettare tre criteri cumulativi: l’idoneità (capacità di perseguire il fine pubblico), la necessarietà (obbligo di scegliere, tra tutte le soluzioni possibili, il mezzo più mite, ossia quello che meno sacrifichi i diritti e le posizioni del privato), e la proporzionalità in senso stretto o adeguatezza (il sacrificio inferto deve essere giusto e tollerabile).
Ci si deve chiedere, quindi, se il fine pubblico (rectius, la salute pubblica) per essere perseguito giustifichi la compressione dei diritti del privato. Naturalmente questo criterio assume pregnante rilevanza quando ad entrare in gioco siano interessi sensibili, diritti inviolabili come appunto proprio quello alla salute, all’ambiente e quindi proiezioni significative dell’interesse del privato. Ne deriva che un provvedimento idoneo e necessario potrebbe comunque non essere proporzionato, quante volte determini un sacrificio intollerabile, ingiusto e dunque inappropriato. In queste ipotesi, il fine non può essere perseguito.
L’Unione Europea, muovendo da questa impostazione trifasica, non parte dal presupposto che prevalga l’interesse pubblico, ma occorre sempre ed in ogni caso un bilanciamento in concreto che tenga conto di tutti gli elementi della proporzionalità finora analizzati.
In sintesi, i poteri di ordinanza sono tollerabili dall’ordinamento giuridico, a condizione che sussista un interesse costituzionalmente rilevante tale da giustificare una deroga al principio di legalità in senso sostanziale e sussistano in concreto le condizioni di necessità e di urgenza [7]. Dal generale al particolare, i principi ai quali il nostro Governo si è attenuto nella predisposizione delle misure contenitive del contagio sono stati quelli della massima precauzione, ma contestualmente anche della adeguatezza e della proporzionalità. È questa la ragione della gradualità delle misure adottate che sono diventate restrittive via via che la gravità dell’epidemia si manifestava con maggiore severità, sempre sulla base delle indicazioni provenienti dal comitato tecnico-scientifico.
4. Il “sacrificio” della democrazia
L’analisi dei poteri sulla decretazione d’urgenza e sulle ordinanze contingibili ed urgenti come sopra delineata, induce a ritenere che non ci si trovi solamente in presenza di episodiche eccezioni al principio di legalità, ma – cosa ancor più grave – di deroghe ripetute e massicce, tanto da portare alla configurazione di un “sistema parallelo” o “alternativo”, ma diverso da quello legalmente precostituito.
Sistema nel quale si nota una preferenza da parte dell’Esecutivo per le ordinanze di necessità e urgenza rispetto ai decreti legge, stante la maggiore duttilità delle prime non soggette al controllo né preventivo né successivo del Parlamento né tanto meno della Corte dei Conti[8].
D’altra parte, la mancanza di ogni forma partecipativa all’esercizio del potere d’ordinanza è la conferma di una amministrazione autoreferenziale che individua, senza bisogno di altri, l’interesse pubblico e le modalità del suo perseguimento, appellandosi peraltro ai criteri propri dell’azione amministrativa (efficienza- efficacia -economicità) anche in considerazione dell’incisione della stessa nell’altrui sfera giuridica. Il momento procedimentale è inesistente: al cittadino è negata ogni possibilità di far emergere i propri interessi per una migliore decisione possibile e, dequotato il diritto di informazione, si nega qualsiasi accesso agli atti amministrativi.
E’ evidente che, in tale contesto normativo dai confini non adeguatamente precisati dal Legislatore, potrebbe trovare terreno fertile l’arbitrio e il sopruso nell’esercizio del potere di urgenza, dove il potere politico cerca di conquistare sempre maggiore spazio di libertà.
Opera, in un certo senso, una sorta di inversione di rotta rispetto a quel lungo e faticoso cammino che è stato intrapreso oltre due lustri fa, nell’intento di trasformare la pubblica amministrazione da luogo oscuro in “casa di vetro” ed il potere esecutivo da meccanismo segreto in funzione conoscibile, controllabile e trasparente. È dunque possibile sostenere che, in casi eccezionalità come quello attuale, il potere pubblico riacquista l’antico dogma dell’imperatività e dell’unilateralità rispecchiando l’idea secondo la quale l’attività dell’organo esecutivo si manifesterebbe unicamente attraverso l’esercizio unilaterale del potere autoritativo.
La constatazione non è di poca rilevanza, ove si pensi che una simile situazione emergenziale conduce il potere d’ordinanza (contingibile ed urgente) a sacrificare o limitare molti diritti fondamentali dell’individuo, dati per acquisiti all’interno dello Stato democratico. Ci si chiede allora, quanta democrazia ancora residui in una siffatta impostazione.
Ci si riferisce alle misure limitative della: libertà personale (art. 13 Cost.); libertà di circolazione, soggiorno ed espatrio (art. 16 Cost.); di riunione (art. 17 Cost.), di esercizio dei culti religiosi (art. 19 Cost.); di insegnamento (art. 33 Cost.); di garanzia e di obbligo di istruzione (art. 34 Cost.); di iniziativa economica (art. 41 Cost.). Altri diritti, ancora, sono minacciati d’essere incisi, quali il diritto alla riservatezza, il diritto alla protezione dei dati personali (laddove si ipotizza un geotracking per controllare i “furbetti” dell’autocertificazione).
A tal fine, si rende opportuno precisare che la “persona”, nel suo patrimonio identificativo ed irretrattabile, costituisce nella nostra Costituzione il soggetto attorno al quale ruotano tutti i diritti e i doveri.
Questi appartengono a quel nucleo intangibile di principi supremi dell’ordinamento costituzionale, un argine invalicabile ed impenetrabile in cui si condensa l’identità nazionale dello Stato italiano e, come tali, non possono essere modificati né sovvertiti nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali.
Essi sono contenuti negli artt. 1-12 Cost. e nella Parte prima relativa ai “Diritti e doveri dei cittadini” ed il riconoscimento della valenza giuridica degli stessi in termini di somma essenzialità rappresenta uno degli elementi caratterizzanti lo Stato di diritto, strutturandolo in profondità. La stessa struttura democratica dello Stato verrebbe stravolta qualora questi venissero diminuiti, decurtati o violati. In altri termini, il nostro ordinamento costituzionale verrebbe letteralmente meno, trasformandosi in un ordinamento diverso. Per questo motivo, detti valori individuano le loro guarentigie nella Costituzione “rigida” e nel sindacato di costituzionalità delle leggi affidato alla Corte Costituzionale.
È di fondamentale importanza, per quel che qui ci interessa, tenere presente che il summenzionato principio personalistico, il quale informa tutti i diritti inviolabili (siano essi espressamente previsti o anche implicitamente desunti in forza della clausola aperta di cui all’art. 2 Cost.), invita ad una considerazione del soggetto non quale monade isolata e avulsa dal “mondo”, bensì appunto come “persona”, tale proprio nei rapporti sociali e nelle relazioni tra più individui in cui sviluppa la sua personalità.
Ed è in questo che si sostanzia la realtà della moderna società pluralistica, con i suoi interessi, bisogni e valori spesso in conflitto tra di loro[9]. È proprio in quest’ambito che si inserisce uno tra i più delicati compiti che la Corte Cost. è chiamata a svolgere: il complesso bilanciamento di tutti i valori costituzionali irrinunciabili, affinchè l’esercizio di uno non entri in conflitto con un altro di pari rango.
Questo perché il contenuto dei diritti primari e fondamentali, benché connotati dal carattere della inviolabilità, non è illimitato. Il concetto di “limite” è, per vero, insito nel concetto stesso di “diritto”; è cioè in re ipsa. La Corte ha chiarito, al riguardo, come l’armonica coesistenza civile possa essere garantita solo entro la reciproca limitazione dell’aurea giuridica di ognuno di essi. In buona sostanza, si tratta di restrizioni necessarie poiché “ i diritti fondamentali dell’uomo diverrebbero illusori per tutti, se ciascuno potesse esercitarli fuori dell’ambito della legge, della civile regolamentazione, del costume sociale, per cui tali diritti devono venir contemperati con le esigenze di una tollerabile convivenza” (Corte Cost., sent. n. 168 del 1971).
Ed oggi più che mai, lungo il solco tracciato dalle misure attuate per arginare la diffusione del contagio, stridono fin troppo le interferenze tra, ad es. il diritto alla privacy e la libertà di circolazione, tra il diritto al lavoro ed il diritto alla salute, ed ancora tra la libertà personale e la sicurezza pubblica.
Ma, fino a che punto è possibile il sacrificio dei diritti costituzionali in nome della pretesa tutela della salute pubblica?
Sulla base di queste premesse, potremo a questo punto dare una risposta.
La eccezionale compromissione della pletora di libertà fondamentali qui in dissertazione, attuata a colpi di decreto, rintraccia il proprio fondamento giustificativo in una complessa e delicata operazione di bilanciamento che ha guidato il Governo in queste lunghe settimane di emergenza sanitaria nella scelta degli interventi effettuati, volta a contemperare l’esigenza di incidere in maniera bilanciata tra benefici e sacrifici imposti alla vita dei cittadini.
La Costituzione, inserendo il diritto alla salute nella parte relativa ai diritti e doveri dei cittadini e, in particolare, nei rapporti etico-sociali, non considera la salute un bene personale, bensì collettivo, un diritto di cui ognuno è titolare non solo per il proprio ma anche per l’altrui benessere, così da configurare un vero e proprio dovere sociale. In questo senso, il diritto di un soggetto a stare in salute comporta anche un dovere del medesimo soggetto a compiere quegli atti che aiuteranno a mantenere in salute anche gli altri individui. Questi atti possono essere intesi sia in un fare qualche cosa, sia in un “non facere”, ossia accettare che un diritto dell’uno sia limitato a favore di un altro.
Rebus sic stantibus, la tensione tra libertà individuale e divieti imposti a tutela della salute collettiva va compresa e risolta alla luce del principio solidaristico, in forza del quale la salute non è solo un diritto fondamentale del singolo, ma è anche un interesse di cui è responsabile l’intera collettività. Sicchè, la soluzione non sta nell’individualismo, nell’egoismo, ma nella solidarietà.
In diverse occasioni, d’altra parte, la Consulta ha affermato che, anche quando i diritti inviolabili siano costituzionalmente condizionati dalle esigenze di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, resta ferma la “garanzia di un nucleo irrinunciabile del diritto” protetto dalla Costituzione “come ambito inviolabile della dignità umana” che impone di impedire il verificarsi di vuoti di tutela[10].
In quest’ottica, individuando nell’emergenza la sua legittimazione, appare giusto e tollerabile il sacrificio dei diritti e delle libertà fondamentali eccezionalmente imposto ai cittadini dal potere necessitato d’ordinanza, nella misura in cui tali libertà e tali diritti, ancorchè irrinunciabili, vengano solo temporalmente ristretti e giammai abrogati, senza pretese di assolutezza da parte di nessuno di essi.
La responsabilità massima non è del solo Governo, ma spetta a tutti i cittadini perchè mai come in questa condizione di assoluta emergenza siamo chiamati a conformare tutte le nostre azioni verso il bene comune, al quale siamo chiamati a contribuire attraverso il rispetto delle regole, con pazienza, fiducia e responsabilità. Occorre riscoprirsi il valore della comunità e l’amore verso il rispetto delle regole per allentare la morsa delle misure restrittive che ci vede protagonisti tutti, se del caso superarle per ripristinare nuovamente il romantico equilibro dei diritti che abbiamo ereditato dai nostri padri costituenti.
[1] D.l. 23 febbraio 2020, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19.
[2]DPCM 1 marzo 2020, in attuazione del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, su proposta del Ministro della Salute, Roberto Speranza, sentiti i Ministri competenti e i Presidenti delle Regioni , tenuto conto delle indicazioni formulate dal Comitato tecnico- scientifico appositamente costituito; 9 marzo 2020 “io resto a casa” recante ulteriori misure per il contenimento ed il contrasto del diffondersi del virus Covid-19 sull’intero territorio nazionale, con efficacia fino al 3 aprile 2020; da ultimo, il DPCM 22 marzo 2020 decreto Chiudi Italia, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19.
Circolare n. 15350/ 117 (2) / Uff III – Prot. Civ.
[3]Circolare n. 15350/ 117 (2) / Uff III – Prot. Civ.
[4]Contingibilità ed urgenza costituiscono, dunque, i presupposti legittimanti del potere de quo. In particolare, la contingibilità indica un fatto imprevedibile, eccezionale o straordinario che mette a repentaglio la sicurezza e l’incolumità pubblica ed attiene alla impossibilità di provvedere con gli ordinari mezzi offerti dalla legislazione, giacché insufficienti e inadeguati ad eliminare il pericolo. L’urgenza indica la sussistenza di un imminente ed attuale pericolo che impone, in vista della ragionevole previsione di un danno incombente, la necessità di un intervento immediato, che non può essere per nessuna ragione differito.
[5]GARDINI S., Le ordinanze sindacali contingibili ed urgenti. Nuovi scenari e nuovi poteri, in Federalismi.it
[6]Corte Cost., 7 aprile 2011 n.115.
[7]Cons. Stato, Sez. II., n. 19048/2001; cfr. MEDICI A., Ordinanze contingibili ed urgenti e principio di legalità, in salvisjuribus.it
[8] VALENTINI F., Necessità ed urgenza. I poteri dell’Amministrazione per fronteggiare le emergenze, in Altalex.it
[9]Corte Cost., sent. n. 467/1991
[10]Corte Cost.Sent. n. 252 del 2001.
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Alessandra Mastrolia
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