Immigrazione e protezione umanitaria: l’applicazione retroattiva del d.l. 113/2018 causa disparità di trattamento?

Immigrazione e protezione umanitaria: l’applicazione retroattiva del d.l. 113/2018 causa disparità di trattamento?

Commento a Cass. civ. Ord. 3 maggio 2019, n. 11749

L’emanazione del d.l. 113/2018 (c.d. decreto Salvini), convertito in legge n. 132/2018, ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5, comma 6, del d. lgs. n. 286/1998 sostituendola con la previsione di casi speciali di permesso di soggiorno.

In particolare, il suddetto decreto ha eliminato la norma contenuta nell’art. 5, comma 6, d. lgs. n. 286/1998, che riconosceva il rilascio di un permesso di soggiorno del contenuto e della durata stabiliti nel regolamento di attuazione (art. 28, lett. d, d.p.R. n. 394/1999), in presenza di “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali od internazionali dello Stato italiano” e, di conseguenza, modificando l’art. 32, comma 3, d. lgs. n. 25/2008, ha escluso dalla cognizione delle Commissioni territoriali la verifica dei “gravi motivi di carattere umanitario”; allo stesso tempo ha previsto nuove forme di protezione inserite nel t.u. del 1998: il permesso di soggiorno in casi “speciali” per la presenza di rischi persecutori (art. 19, comma 1, d. lgs. 298/1998, in relazione all’art. 32, comma 3, d. lgs. n. 25/2008), per “cure mediche” (art. 19, comma 2, lett. d bis, d. lgs. n. 286/1998), per “contingente ed eccezionale calamità che non consente il rientro e la permanenza [nel Paese di provenienza n.d.r.] in condizioni di sicurezza” (art. 20 bis d. lgs. cit.), per il compimento di “atti di particolare valore civile” (art. 42 bis d. lgs. cit.).

A queste forme di protezione si devono aggiungere i permessi di soggiorno riconosciuti per motivi familiari (artt. 28, 29 e 30 d. lgs. n. 286/1998; 28, comma 1, lett. b, d.p.R. n. 394/1999), in favore dei minori (artt. 28, lett. a-b, d.p.R. n. 394/1999; 31 d. lgs. n. 286/1998), delle vittime di violenza domestica (art. 18 bis d. lgs. cit.) e di sfruttamento lavorativo (art. 22, comma 12 quater d. lgs. cit.), per cure mediche (artt. 36 d. lgs. n. 286/1998; 28, comma 1, lett. c, d.p.R. n. 394/1999), ecc.

Ciò premesso, il punto di cui si discorre è il fatto che la novella legislativa ha sollevato dubbi relativi alla sua applicazione, ovvero se possa trovare immediata applicazione e, pertanto, se il decreto a cui si fa riferimento debba applicarsi retroattivamente (efficacia ex tunc) – e, quindi, debba applicarsi anche in relazione alle domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte anteriormente all’entrata in vigore della nuova legge – o, al contrario, se lo stesso disponga soltanto per l’avvenire – e, quindi, debba applicarsi soltanto con riferimento alle domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari presentate successivamente all’entrata in vigore della nuova legge (efficacia ex nunc).

Sul punto è intervenuta la Suprema Corte la quale ha sancito che “La normativa introdotta con il d.l. n. 113 del 2018, convertito nella l. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5, comma 6, del d. lgs. n. 286 del 1998 e delle altre disposizioni consequenziali, sostituendola con la previsione di casi speciali di permessi di soggiorno, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5/10/2018) della nuova legge. Tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione[1], ma, in tale ipotesi, all’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, convertito nella legge n. 132 del 2018, farà seguito il rilascio da parte del Questore di un permesso di soggiorno contrassegnato con la dicitura “casi speciali”, soggetto alla disciplina e all’efficacia temporale prevista dall’art. 1, comma 9, di detto decreto legge” (Cass. civ. Sez. I Sent., 19/02/2019, n. 4890).

Tuttavia, a distanza di pochi mesi, la stessa Suprema Corte è intervenuta nuovamente sul punto, stavolta invertendo il senso di marcia.

Infatti, ha sottolineato che, non può condividersi la conclusione della sentenza n. 4890/2019 in quanto “da un lato, si nega l’applicabilità immediata della nuova normativa e si afferma la necessità di continuare ad applicare la previgente normativa (abrogata) dell’art. 5, comma 5, d. lgs. n. 286 del 1998, quanto alle condizioni sostanziali richieste per il riconoscimento della protezione umanitaria; ma dall’altro si applica la nuova normativa, implicitamente riconoscendone l’applicabilità immediata limitatamente al nomen e alla durata del permesso da rilasciare, con un effetto sostanzialmente creativo di una norma transitoria «nuova», risultante da una commistione tra norme diverse” (Cass. civ. Ord., 3 maggio 2019, n. 11749).

La Suprema Corte ha ritenuto insussistente l’ipotizzata esigenza di evitare disparità di trattamento[2] (tra chi aveva già presentato la richiesta di protezione e chi non l’aveva presentata ancora) e, ai fini dell’individuazione della portata retroattiva o meno della norma, ha posto attenzione non sul momento in cui si richiede la tutela della situazione giuridica, ma sulla qualificazione della situazione stessa (situazione su cui incide la norma), al fine di discernere il fatto generatore del diritto dai suoi effetti[3].

Nella fattispecie della protezione umanitaria non esiste né un “fatto” né un fatto “compiuto” qualificabile come “generatore”: il conseguimento della suddetta protezione costituisce una fattispecie complessa e a formazione progressiva (la protezione umanitaria consiste in un permesso che viene rilasciato a seguito di una valutazione dei presupposti mediante un apposito procedimento) che non si forma fintantoché il procedimento non si è concluso.

Il riconoscimento della protezione umanitaria, quindi, non si configura come un diritto fondamentale della persona[4] che sorge al momento del suo ingresso in Italia o al momento della presentazione della richiesta di protezione, bensì come il risultato di un accertamento volto alla verifica dei presupposti (o condizioni) richiesti dalla legge[5], sicché la presentazione della domanda non fa sorgere in capo al richiedente una posizione giuridica acquisita (in altri termini, la protezione umanitaria non costituisce un diritto soggettivo preesistente alla verifica delle condizioni previste ex lege per il suo riconoscimento).

La domanda del richiedente assolve solo la funzione di atto di avvio del procedimento amministrativo e non anche quella di determinare la legge applicabile, come se avesse una sorta di effetto prenotativo[6].

Ad avviso dello scrivente, applicare una legge precedente sol perché si è presentata la domanda di protezione nel momento in cui era ancora in vigore sarebbe, per assurdo, come punire un fatto non più previsto come reato con una legge precedente che, al contrario, lo considera tale.


[1] In particolare, la sentenza in questione fa riferimento all’art. 11 delle preleggi (la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo) che, dalla costante giurisprudenza, è inteso nel senso che “la norma sopravvenuta è inapplicabile, oltre che ai rapporti giuridici esauriti, anche a quelli ancora in vita alla data della sua entrata in vigore, ove tale applicazione si traduca nel disconoscimento di effetti già verificatisi ad opera del pregresso fatto generatore del rapporto, ovvero in una modifica della disciplina giuridica del fatto stesso” (da Cass. 4 maggio 1966, n. 1115 a Cass. 14 febbraio 2017, n. 3845). Di contro, Cass. civ. Ord., 3 maggio 2019, n. 11749 secondo cui “L’applicazione immediata di una nuova norma, non solo, «non è astrattamente vietata» (come si legge nella sentenza n. 4890, p. 15), ma è la regola vincolante per gli interpreti (salvo quanto si dirà più avanti per le norme effettivamente retroattive), ai quali non è consentito di incidere sulla vigenza della legge, la cui conformazione inerisce alle attribuzioni proprie del (e riservate al) legislatore. […] La constatazione, presente nella sentenza n. 4890, secondo cui la nuova legge non contiene una espressa disciplina di «carattere intertemporale» riguardante i procedimenti amministrativi e i giudizi in corso, da un lato, non è quindi sufficiente per desumerne l’inapplicabilità ai rapporti in corso (alle domande di protezione umanitaria non ancora definite in sede amministrativa e a quelle pendenti in sede giurisdizionale) e, dall’altro, non appare corretta. Il rilievo che si tratterebbe, altrimenti, di una applicazione o efficacia retroattiva della legge, in violazione del canone dell’irretroattività, non è condivisibile, confondendosi in tal modo la nozione di «retroattività» con quella di «applicazione immediata», la quale è connaturata al principio di imperatività della legge, che finirebbe altrimenti per applicarsi solo ai rapporti «nuovi», cioè interamente «sorti» dopo l’entrata in vigore della nuova legge, mai a quelli «in corso» al momento della decisione, conclusione questa che non trova riscontri nell’ordinamento. […] lo strumento utilizzato del decreto legge, convertito con legge che esclude la vacatio (ex lege n. 400 del 1988), è segno dell’intenzione del legislatore di intervenire immediatamente nelle fattispecie in corso (l’art. 15 della legge n. 400 del 1988 dispone che i decreti leggi «devono contenere misure di immediata applicazione»): escludendo l’applicazione della nuova legge a tutti coloro che abbiano solo avviato un procedimento per il riconoscimento della protezione umanitaria, sarebbe impedito alla legge di raggiungere i suoi effetti, esonerando tra l’altro indebitamente la stessa autorità amministrativa dall’applicarla. […] Inoltre, pur ipotizzando in astratto che di applicazione retroattiva si tratti, la giurisprudenza da tempo insegna che «il principio di irretroattività della legge in generale può essere derogato in modo espresso ovvero tacito e desumibile in modo non equivoco da obiettivi elementi del contenuto normativo» (Cass. 18 dicembre 1979, n. 6572; 28 maggio 1979, n. 3111; 19 giugno 1972, n. 1917)”. La Suprema Corte evidenzia il fatto che l’art. 1, comma 9, d.l. 113/2018 “indica chiaramente che alle situazioni pendenti, ove positivamente valutate in sede amministrativa, si applichi il meccanismo di conversione del permesso di soggiorno «in casi speciali»: è quindi ovvio dedurne che il legislatore ha inteso escludere che alle situazioni pendenti siano da applicare le norme ormai abrogate”.
[2] Sul punto, la Suprema Corte ha sottolineato che “in presenza di una legge sopravvenuta di diritto sostanziale, che regola la fattispecie contenziosa, entrata in vigore in pendenza di un procedimento amministrativo e giurisdizionale, il giudice per poterla applicare non è chiamato a verificare l’esistenza nella nuova legge di una disposizione speciale che ne preveda (o ne consenta) l’immediata applicazione; il giudice infatti è tenuto ad applicarla, poiché «le leggi e i regolamenti divengono obbligatori» quando entrano in vigore (il quindicesimo giorno successivo alla loro pubblicazione), «salvo che le leggi stesse stabiliscano un termine diverso» (artt. 73, comma 3, Cost. e 10 preleggi). E’ questo un corollario del principio di uguaglianza di fronte alla legge che – si intende – deve applicarsi nei confronti di tutti i cittadini, non tollerandosi, di regola, l’applicazione contemporanea di leggi diverse regolanti la medesima situazione sostanziale, fermo il principio secondo cui il trattamento differenziato tra i cittadini è possibile per effetto del mutamento della disciplina nel tempo, senza che ciò dia luogo ad un contrasto col principio di eguaglianza, poiché il trascorrere del tempo ed il connesso fenomeno della successione delle leggi costituisce di per sé un ragionevole motivo di differenziazione normativa (tra le tante, Corte cost. n. 401 del 2008, n. 18 del 1994, n. 456 del 1990, n. 1019 del 1988). […] L’ipotizzata esigenza di evitare disparità di trattamento e di trattare ugualmente le «situazioni soggettive omogenee» non sussiste: infatti se una disparità di trattamento vi fosse nella legge questa sarebbe rimediabile solo all’esito di un giudizio di legittimità costituzionale della legge; inoltre, la situazione dei richiedenti che abbiano ottenuto dalle Commissioni territoriali il parere positivo sui gravi motivi di carattere umanitario (comma 9) è diversa da quella dei richiedenti che abbiano ottenuto il rigetto della loro domanda; se una differenza è ravvisabile questa è dovuta allo scorrere del tempo e alla diversa collocazione in esso dei fatti giuridici, ma questa situazione ben può legittimare una diversa modulazione dei rapporti che ne scaturiscono e giustificare una differenziazione normativa, trattandosi di situazioni solo apparentemente omogenee (Corte cost. n. 401 del 2008 e le altre già citate), Cass. civ. Ord., 3 maggio 2019, n. 11749.
[3] “Al di fuori della materia penale (o, più in generale, punitiva), non ha rilevanza il fatto che, in base all’applicazione retroattiva della legge sopravvenuta, derivi al titolare della situazione soggettiva un vantaggio o invece uno svantaggio; cosicché non deve indurre (magari inavvertitamente) ad una più liberale applicazione retroattiva della legge sopravvenuta la circostanza che una posizione tutelata ne risulti accresciuta o migliorata. E ciò sia perché nei rapporti intersoggettivi al vantaggio di uno dei soggetti si correla lo svantaggio dell’altro (solitamente dovuto a ragioni di interesse generale, quando si tratti di soggetto pubblico), sia perché nel sistema costituzionale non è, in linea di principio, interdetto al legislatore di emanare disposizioni, anche retroattive, che modifichino sfavorevolmente la disciplina dei rapporti di durata, salvo il limite costituzionale della ragionevolezza e della razionalità di simili disposizioni (Corte Cost. 17 dicembre 1985 n. 349)”, Cass. civ. Sez. Unite 25/05/1991, n. 5939.
[4] Con la sentenza 4890/2019, la Suprema Corte offriva una qualificazione giuridica del diritto alla protezione umanitaria inteso come diritto fondamentale o diritto soggettivo perfetto appartenente al catalogo dei diritti umani, connesso con il diritto di asilo garantito ex art. 10 Cost.
[5] Contrariamente a Cass. civ. Sent., 19/02/2019, n. 4890, il diritto alla protezione umanitaria non è “[…] un diritto preesistente alla verifica delle condizioni cui la legge lo sottopone”, Cass. civ. Ord., 3 maggio 2019, n. 11749.
[6] “L’amministrazione è tenuta ad applicare la normativa vigente al momento del provvedimento, «a nulla rilevando che, in ipotesi, la domanda sia stata presentata sotto la vigenza di una legislazione più favorevole al richiedente; infatti non si può riconoscere alla semplice presentazione della domanda l’effetto di costituire una posizione giuridica acquisita, prevalente sullo jus superveniens, Cons. di Stato, sez. IV, 4 maggio 1982, n. 267; è un orientamento costante nella giurisprudenza amministrativa: Cons. di Stato, sez. V, 10 aprile 2018, n. 2171; sez. IV, 14 dicembre 2017, n. 5894; sez. IV, 13 dicembre 2017, n. 5885; 13 aprile 2016, n. 1450. “[…] Analogamente, il giudice ordinario è tenuto ad applicare la legge vigente al momento della decisione giurisdizionale, all’esito di un giudizio che non ha natura meramente impugnatoria del provvedimento amministrativo di diniego, ma ha ad oggetto la verifica della sussistenza del diritto soggettivo alla protezione invocata, sulla quale il giudice deve statuire nel merito (Cass. 22 marzo 2017, n. 7385). […] Il tipico effetto retroattivo delle sentenze di accertamento non interferisce in alcun modo con la questione della legge applicabile che stabilisce le condizioni sostanziali richieste in concreto per il riconoscimento del beneficio”, Cass. civ. Ord., 3 maggio 2019, n. 11749.

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Avv. Andrea Persichetti

Dopo aver conseguito a pieni voti la Laurea magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Camerino con tesi in Diritto Amministrativo ("Il principio di precauzione e la valutazione del rischio: il caso dei vaccini obbligatori"), ha svolto la pratica forense presso l'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Torino. Svolge la professione di Avvocato occupandosi di diritto civile e di diritto del lavoro, con particolare riguardo alla materia previdenziale, alle questioni di infortunistica sul lavoro e controversie INAIL. È abilitato a presentare istanze e ricorsi all'INPS ed è Intermediario abilitato a svolgere attività in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale, ai sensi della Legge n. 12/1979. Collabora con l’Ufficio del Massimario dell’Associazione dei Giovani Avvocati di Torino – AGAT ed è autore di articoli di interesse giuridico. È iscritto all'Ordine degli Avvocati di Torino (Studio legale in Torino, Via Giannone n. 1 - Tel.: 011 51 11 005 - Mail: andreapersichetti91@gmail.com).

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