Inammissibile la creazione di diritti reali ad uso esclusivo su una porzione di cortile condominiale
Il codice civile ci ha consegnato un sistema di diritti reali (in re aliena) fondato sul criterio della rigidità.
In effetti, ogni vincolo che abbia ad oggetto una bene altrui, imponendo una limitazione delle facoltà del proprietario originario, è ammesso entro criteri determinati.
Il crisma della volontà, esaltato nel quadro delle obbligazioni, perde in detto ambito vitalità e diviene recessivo rispetto a ragioni imperative derivanti tanto dalla necessità di favorire una coesistenza fra posizioni giuridiche fra loro contrastanti tanto dall’esigenza di evitare attività creative che nell’ambito della “costituzione materiale” possono verificarsi per il costante adattamento di istituti classici ad una realtà in divenire.
Tuttavia, la tendenza evolutiva della prassi ove finalizzata a demolire principi cristallizzati come il numerus clausus necessita sovente di essere ricondotta nei solchi tradizionali dalla giurisprudenza che spesso plasma concetti istituzionali in ottica moderna.
Verso detto orizzonte si colloca la recente pronuncia resa dalle Sezioni Unite della Cassazione n. 28972 del 17 dicembre del 2020 che nel ribadire dicta ormai consolidati, cerca di cogliere le complessità del fenomeno giuridico poco incline ad essere ingabbiato in rigide formule astratte, ma foriero di esempi dimostrativi, che ne accertino attendibilità scientifica.
La questione è piuttosto nota, ma trattata con lo scopo di imprimere un punto definitivo alla periodica riproposizione di spu9nti preater legem.
Essa verte sulla ammissibilità dei diritti reali ad uso esclusivo, figure atipiche e “nebulose” consistenti nella attribuzione (negoziale) ad un condomino della titolarità totale di una porzione di parti comuni dell’edificio condominiale, destinate, per natura, alla fruizione condivisa. (nella specie una parte di cortile).
La pronuncia conduce l’indagine dalla genesi della categoria che risiederebbe in differenti formanti, tanto quello dottrinale, quanto quello giurisprudenziale sospinta dalla valorizzazione di vari nuclei concettuali.
In particolare, in ambito pretorio una prima sistemazione è compiuta da parte della sentenza n. 24301/2017 che riconosce nella locuzione uso esclusivo non tanto un potere a svantaggio di altri codomini, quanto un differente modalità di riparto delle facoltà di godimento attribuite secondo criteri non paritari. Detta impostazione si fonda sull’art. 1117 c.c il quale nel prospettare una presunzione di condominialità di parti comuni dell’edificio, non sembra escluderne una deroga convenzionale da parte della libertà negoziale delle parti interessate, peraltro consentita in base all’art. 1102, applicabile estensivamente anche alla materia de qua.
Da detta configurazione, poi, deriva la trasmissibilità di detta facoltà anche agli aventi causa in quanto attributo della proprietà o di altro diritto reale esistente sull’unità immobiliare esclusiva.
Sul versante dottorale, sembrano invece propugnarsi differenti tesi favorevoli e contrarie suffragate dai dati codicistici.
In particolare, un primo orientamento rileva il nucleo della comunione ex art. 1102 c.c. nel godimento il quale non sarebbe passibile di modificazioni in senso strutturale peggiorativo.
Dunque, sarebbe di dubbia validità un accordo che assegni l’uso esclusivo di parte del bene ad uno dei comunisti.
Un secondo versante, invece, mostrerebbe un accostamento della figura in esame alla servitù prediale in cui il fondo servente sarebbe dato dal cortile, nella parte asservita, il fondo dominante dall’unità immobiliare, mentre il peso dalla facoltà esclusiva attribuita al condomino.
L’uso esclusivo, secondo detta impostazione, divisata dalle Corti, dovrebbe essere ricondotto nell’art. 1021 c.c. e dunque riferito alla destinazione del bene, più che essere manifestazione di un diritto di cui all’art. 1024 c.c.
Esaurita detta premessa storica, volta ad operare un inquadramento della categoria al fine di far emergere le contraddizioni, la Corte innesta il suo ragionamento partendo dal dato etimologico e poi giungendo ai tratti più intrinseci.
Il discorso è condotto dal termine “uso” che in tema di diritti reali è ricorsivo (nella specie artt. 1102 c.c, 1139 c.c. ) , essendo adoperato anche per descrivere una delle facoltà essenziali del proprietario.
Poi la Cassazione sintetizza il nucleo essenziale della comunione nella possibilità riservata a tutti i comunisti di servirsi della cosa comune, che può subire degli aggiustamenti, ma mai essere del tutto sacrificata.
A tal proposito, è citato l’art. 1102 c.c. dettato in tema di comunione semplice, norma dai contenuti non inderogabili, la quale può essere resa più severa dal regolamento condominiale, ma non al punto da mutare la sua natura “funzionale” in un divieto generalizzato a vantaggio di uno solo dei comproprietari.
In seguito, vengono escluse le disposizioni che secondo talune correnti appresterebbero un appiglio letterale ai diritti ad uso esclusivo.
Non può ritenersi consentito il riferimento all’art. 1126 che stabilisce un obbligo di contribuzione pari ad un terzo a carico del condomino che tragga un uso esclusivo dal lastrico solare. Infatti, la norma in esame fa riferimento ad un caso del tutto peculiare e quindi non suscettibile di interpretazione estensiva.
Parimenti, secondo i Supremi Giudici, appare incongruo il richiamo al decreto legislativo 20 Maggio 2005 n.122, art. 6, comma 2, relativo agli obblighi annotativi del costruttore nei contratti di future costruzioni, in cui si parla di pertinenze e dunque di proprietà.
Una volta fatte dette premesse, l’esito argomentativo si sviluppa tramite l’interpretazione a fortiori che conduce a ritenere come, ai sensi dell’art. 1117 c.c., talune parti comuni non possano essere attribuite ad un solo condomino, a maggior ragione esse non possono essere ad uso esclusivo del singolo.
Analogamente, non sembra convincente l’accostamento pur avvalorato da interessanti dati testuali alle servitù prediali per un aspetto strutturale.
Infatti, quest’ultimo diritto reale non può mai tradursi in un generale diritto di godimento del fondo servente, così da condurre ad uno svuotamento della proprietà e alla sua riduzione a “simulacro”.
Una volta neutralizzate dette opinioni ricostruttive, persuasive, ma apodittiche, si apre il fulcro del ragionamento che indaga il principio di autonomia negoziale, leitmotiv del contratto, ma non dei diritti reali, fondati sulla tipicità, da intendersi come predeterminazione della disciplina da parte della legge e sul numerus clausus.
Sul punto, si segnalano tentativi di equiparare diritti reali e diritti di credito sotto il profilo della autonomia privata, motore dell’economia e veicolo delle esigenze nuove poste dal traffico giuridico, non sempre tempestivamente intercettate da parte del legislatore.
Tuttavia, l’impossibilità di accordare alle parti il potere di creare nuove figure di diritti reali deriva da considerazioni di ordine generale e di tutela della altrui sfera soggettiva.
E’ già il caso di rilevare come il dato costituzionale, nel contesto delle disposizioni definite programmatiche, pone all’art. 42 una riserve di legge in ordine ai modi di acquisto e di godimento della proprietà al fine di assicurarne la funzione sociale così scongiurando la possibilità di creare diritti reali in via convenzionale.
Sotto altro angolo prospettico, ai diritti reali è connaturato il carattere della sequela e cioè della opponibilità ai terzi.
Dunque, una creazione illimitata di vincoli sui beni avrebbe influssi anche sulla sfera soggettiva di altri, costretti a subire un regolamento “eteronomo”.
Del resto anche l’art. 2643 c.c. nell’enumerare gli atti soggetti a trascrizione in modo tassativo, non cita gli atti negoziali (che operino una modificazione negoziale di uno de diritti precedentemente elencati).
Conclusivamente “la proprietà non deve essere asservita per ragioni privatistiche in modo tale da rendersi quasi illusoria e priva di contenuto, inetta quindi a realizzare i propri fini essenziali, convergenti da un lato alla integrazione e allo sviluppo della personalità individuale e dall’altro al benessere e al progresso della comunità attraverso l’attivazione degli scambi. Di qui la necessità di non abbandonare all’autonomia privata la materia dei diritti reali e di mantenere la loro creazione entro schemi inderogabili fissati da esigenze di ordine pubblico” (Cass. 31 maggio 1950, n.1343).
Contrariamente dai diritti personali di godimento (locazione o comodato) suscettibili di essere conformati in modo diverso per il loro carattere obbligatorio, i diritti reali di uso sono avvinti dalla tipicità che si traduce nella regola “secondo cui i privati non possono creare figure di diritti reali al di fuori di quelle previste dalla legge, né possono modificarne il regime. Ciò comporta che i poteri che scaturiscono dal singolo diritto reale in favore del suo titolare sono quelli determinati dalla legge e non possono essere validamente modificati dagli interessati. (ex plurimis Cass. 26 febbraio 2008 n. 5034 richiamata da Cass. 3 settembre 2019, n.21965).
Ove pertanto un diritto di uso derivi da un titolo che restringa il contenuto del diritto oppure consenta di trarre dal bene una utilità difforme dalla sua destinazione d’uso, si tratterà di un rapporto obbligatorio, ma non di un diritto reale di uso, il quale è inammissibile stante proprio la tipicità vigente nell’ordinamento.
In definitiva, viene affermato il principio di diritto secondo cui “la pattuizione avente ad oggetto la creazione del c. d. diritto reale ad uso esclusivo su una porzione condominiale, costituente come tale parte comune dell’edificio, mirando alla creazione di una figura atipica di diritto reale limitato, tale da incidere, privandolo, di un concreto contenuto, sul nucleo essenziale del diritto dei condomini di uso paritario della cosa comune, sancito dall’art. 1102 c.c., è preclusa dal principio insito nel sistema codicistico, del numerus clausus dei diritti reali e della tipicità di essi”.
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