(In)certezza del diritto: la confisca per equivalente tra pena e misura di sicurezza
Lo studio del diritto penale, in ogni suo aspetto, non può prescindere dalla collocazione del reato nell’ambito del principio di legalità.
Riassumibile nel brocardo “nullum crimen, nulla poena sine lege” esso è consacrato sia a livello costituzionale che di legislazione ordinaria, rispettivamente agli artt. 25 c. 2 Cost. e 1 c.p.
La norma costituzionale pare, invero, riferirsi al principio di irretroattività delle norme incriminatrici, proclamando che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”; ma, a ben vedere, l’irretroattività implica necessariamente la legalità, o meglio nasce da quella poichè se la norma deve preesistere al fatto è giocoforza ritenere che la fonte dell’effetto (la penale responsabilità) sia nella norma medesima, la quale non può mancare.
Nella sua formulazione letterale l’art. 25 c. 2 Cost. premette la legge al fatto ma incentra su quest’ultimo l’attenzione, riferendosi al “fatto commesso”; invece l’art. 1 c.p. presenta una differente formulazione: anch’esso si riferisce al fatto, ma non inteso in senso storico (cioè coe “fatto commesso”) bensì in quanto qualificato dalla norma (è il fatto “espressamente preveduto come reato dalla legge”). Il legislatore ordinario mette, dunque, in primo piano la qualificazione normativa piuttosto che la dimensione fattuale. Nondimeno, la conclusione non cambia: sussumendo il fatto storico (premessa minore) nell’ambito della norma incriminatrice -preesistente- che espressamente lo prevede (premessa maggiore) il risultato sarà l’ascrizione di responsabilità al suo autore (chè, altrimenti, non potrebbe essere “punito”).
La ratio del principio di legalità è di immediata evidenza: esso è previsto a tutela del cittadino contro gli abusi provenienti sia dalla sfera del politico che del mondo giudiziario, poichè se le premesse sono fisse e specificamente delineate gli ambiti di discrezionalità (e arbitrio) risultano essere fortemente ridotti.
Il principio presenta, in coerenza con la sua ratio, una duplice dimensione: la prima è quella formale, desumibile direttamente dalle norme poc’anzi citate e si declina, a sua volta, nei principi di irretroattività e riserva di legge parlamentare; la seconda dimensione è quella sostanziale e si coniuga nei principi di determinatezza (sub specie di precisione letterale e determinatezza in senso empirico), tassatività, tipicità. Così, mentre la legalità formale consente al cittadino di determinarsi alla commissione di un fatto che già costituisce reato sulla base di una previsione normativa (colorando di sè, per questa via, anche il connesso principio di colpevolezza), la legalità sostanziale consente di prevedere le conseguenze delle proprie azioni, così come collocate nella realtà fenomenica, attraverso la sussunzione del fatto storico a quello tipico e tassativo descritto dal legislatore.
A ben vedere lo sviluppo del versante sostanziale della legalità si deve soprattutto all’influsso delle norme sovranazionali: invero dall’art. 25 c. 2 Cost si desume in modo immediato la sola dimensione formale della legalità, laddove quella sostanziale viene fatta entrare di traverso solo nell’ambito dell’art. 1 c.p., nell’uso dell’avverbio “espressamente”. Nondimeno, i due aspetti della legalità oggi interagiscono in maniera sincronica, sotto l’egida dell’art. 7 CEDU che proclama il principio di legalità dei reati e delle pene, in una visione prettamente sostanzialistica.
Orbene, preliminare alla valutazione dell’impatto che la disposizione convenzionale ha nell’ordinamento interno è la collocazione della CEDU nel sistema delle fonti. L’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea, come risultante dal Trattato di Lisbona, rappresenta un tentativo di “comunitarizzare” la CEDU ma, finché non interverrà la definitiva adesione dell’UE alla Convenzione, essa non può avere l’efficacia diretta propria delle norme dei trattati e dei regolamenti; conseguentemente non sussiste un obbligo del giudice nazionale di disapplicare una normativa interna contrastante. Sussiste, nondimeno, un obbligo di interpretazione convenzionalmente conforme: la CEDU si colloca, infatti, nel sistema delle fonti al rango di norma interposta (sovraordinata alla legge, sottordinata alla Costituzione) e parametro del giudizio di legittimità costituzionale ex art. 117 c. 1 Cost., relativamente al rispetto degli obblighi internazionali. Sicché la norma interna contrastante può essere sottoposta al vaglio di costituzionalità per violazione dell’art. 117 Cost.
Sul versante della legalità la Convenzione e la Corte EDU offrono una visione sostanzialistica. I piani da esaminare sono due: quello delle fonti e quello dell’individuazione dei reati e delle pene.
Dal punto di vista delle fonti la Corte EDU si distanzia dal dato formale dell’espressa previsione di legge e sposa una visione pragmatica in cui anche il diritto giurisprudenziale (id est diritto vivente) è considerato fonte del diritto penale. I limiti a tutela del cittadino sono due: l’accessibilità, intesa come facilità di accesso alle norme scritte o non scritte in materia penale e la prevedibilità, per tale intendendosi la possibilità per l’agente concreto di comprendere in modo sufficientemente dettagliato le conseguenze delle proprie azioni, in modo da orientare la propria condotta in maniera consapevole.
Proprio tale ultimo aspetto è stato approfondito dalla giurisprudenza della Corte EDU nel noto caso Contrada: in quella sede i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che la disciplina nazionale sul concorso esterno in associazione mafiosa violasse il principio di legalità, sub specie di prevedibilità, per tutto il periodo precedente al 1994; anno questo in cui, con la sentenza Demitry, la Corte di Cassazione è giunta -dopo notevoli incertezze interpretative- a fissare in maniera esaustiva i presupposti della fattispecie concorsuale. Sicché all’epoca in cui erano stati commessi “i fatti ascritti al ricorrente (1978/1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest’ultimo”. Conseguentemente le sentenze di condanna precedenti al 1994 (come quella del ricorrente Contrada) dovrebbero essere riviste perché convenzionalmente illegittime, in virtù dell’obbligo di conformazione previsto dall’art. 46 CEDU; lo strumento processuale è da rinvenire negli artt. 666-670 c.p.p. poiché il giudice dell’esecuzione “non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull’efficacia dal titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso”. Per tale via, si consente l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza di condanna che violi la Convenzione, posto che nella fase esecutiva il garante della legalità è proprio il giudice dell’esecuzione cui compete di ricondurre la sentenza nei margini della legalità (Cass. Sez. I n. 43112/17).
Il nostro ordinamento non si è spinto sino a riconoscere alla giurisprudenza il ruolo di fonte del diritto penale ma si è comunque mostrato incline a dare rilievo ai mutamenti giurisprudenziali, purché in bonam partem (in applicazione del principio del favor rei). Ad oggi nel diritto nazionale il principio di prevedibilità e quello di determinatezza in senso empirico si trovano sullo stesso piano, sicché il primo riempie di contenuti il secondo.
Dal punto di vista dei reati e delle pene, l’art. 7 CEDU ne colora le relative nozioni avallando una visione schiettamente sostanzialistica. Sicché non sarà più sufficiente la qualificazione formale di una data fattispecie o di una sanzione come “non penale” da parte del diritto interno per escludere le garanzie della legalità, in quanto sarà necessario indagarne la reale natura con l’ausilio dei noti “criteri di Engel”: occorrerà, cioè, guardare alla qualifica formale, al grado di afflittività della sanzione e alla natura sostanziale (desumibile da una serie di indici, quali la disciplina, le modalità di accertamento delle infrazioni o di applicazione della misura etc). Se da tali indici risulti che la misura dissimuli una natura sostanzialmente penale, troverà applicazione l’art. 7 CEDU con le relative garanzie, nonostante l’asserita natura “apenale”.
La necessaria indagine sostanziale della natura degli istituti, anche non formalmente penali, ci consente di accedere all’annosa questione della natura giuridica della confisca, in specie per equivalente, e al connesso problema della confiscabilità o meno del prezzo o profitto del reato nel caso in cui il giudice ne abbia dichiarato l’intervenuta prescrizione. Giova evidenziare come entrambi i piani siano intimamente connessi: invero dal riconoscimento della natura di “pena” o meno della confisca derivano conseguenze opposte in tema di ammissibilità anche a fronte di un reato prescritto, e dunque in assenza di una sentenza di formale condanna.
Il codice penale disciplina la confisca nel titolo VIII del Libro I, dedicato alle misure amministrative di sicurezza, personali e patrimoniali. Trattasi di misure volte a far fronte a fattispecie di più o meno intensa pericolosità, del soggetto che ne viene attinto o della res sottoposta a sequestro.
Per queste gli artt. 199/200 c.p. disegnano un sistema di legalità, per così dire, “attenuata”, poiché se è vero che possono essere disposte solo nei casi previsti dalla legge (arg. ex art. 25 c. 3 Cost.) nondimeno esse sono parzialmente retroattive atteso che si darà luogo alla misura vigente al momento dell’applicazione e non a quello del fatto commesso; fermo restando che la comminatoria di una misura (anche se diversa da quella applicata) deve essere palesata prima della commissione del fatto, in omaggio al principio di prevedibilità.
L’art. 240 si occupa della confisca come misura di sicurezza patrimoniale: essa non si basa sulla pericolosità sociale del reo ma piuttosto sul pericolo derivante dalla permanenza di una res, pertinenziale al reato, presso lo stesso, ove tale permanenza potrebbe mantenere viva l’attrattiva per il reato. E infatti la confisca colpisce “le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato”, e quelle che ne sono il prodotto (è il bene materiale frutto dell’attività criminosa), il prezzo (è il quantum che funge da corrispettivo richiesto per l’esecuzione del reato, ad esempio il prezzo della corruzione sarà la somma pagata per ottenere l’atto), il profitto (è la somma risultante dalla commissione del reato).
La confisca è facoltativa se ha ad oggetto gli “strumenti” del reato, il prodotto o il profitto; mentre il giudice è obbligato a disporla quando abbia ad oggetto il prezzo, ovvero anche il profitto e il prodotto ma limitatamente a taluni reati posti in essere con lo strumento informatico, ovvero cose la cui detenzione costituisca già di per sè reato.
Ciò che, in soldoni, caratterizza la confisca-misura di sicurezza è proprio il vincolo di pertinenzialità che lega la res sequestrata al reato commesso. Ma cosa accade se i beni che sono il prodotto, il prezzo o il profitto, seppur individuati nel quantum, non siano materialmente rintracciabili? In tal caso la misura verrà comunque applicata, ma avrà ad oggetto una somma di denaro equipollente al valore dei beni non reperibili, di cui il soggetto abbia la disponibilità materiale pur se indiretta o per interposta persona. Si tratta della cd. confisca per equivalente. Va da sé la considerazione che, in tal caso, difetta quel vincolo di pertinenzialità con il reato che rappresenta il proprium della misura di sicurezza, attingendo beni che per definizione sono diversi da quelli pertinenziali e che ne costituiscono il tantundem. Proprio questo aspetto ha dato adito all’annoso dibattito circa la natura giuridica della confisca per equivalente: se, cioè, essa possa comunque essere considerata misura di sicurezza ovvero debba essere diversamente qualificata.
Può essere utile, ai nostri fini, individuare le tipologie di confisca che il nostro ordinamento conosce al di fuori del codice penale, onde valutare la ricorrenza (o meno) di talune note caratterizzanti la misura in un senso o nell’altro.
Il D.L. 306/92, convertito in L. 356/92, contempla all’art. 12 sexies un’ipotesi peculiare di confisca, c.d. “allargata” o “per sproporzione”, irrogata in caso di condanna per taluni reati specificamente individuati: essa non ha come presupposto la derivazione dei beni dall’episodio criminoso per cui la condanna è intervenuta, ma la sola condanna del soggetto che di quei beni dispone, senza che necessitino ulteriori accertamenti sull’attitudine criminale. Da alcuni è stato rilevato come la natura sia quella di pena accessoria, per due ordini di ragioni: innanzitutto consegue “sempre” alla sentenza di condanna per quei reati, inoltre prescinde dal vincolo di pertinenzialità con il fatto in quanto attinge beni, denaro o utilità di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e di valore sproporzionato rispetto al proprio reddito. La Consulta ha bocciato questa ricostruzione, così come quella che la riconduce all’alveo dell’art. 240 c.p.: si tratterebbe cioè di una misura di sicurezza atipica con funzione anche dissuasiva, parallela all’affine misura di prevenzione introdotta dalla legge n. 575/1965, sicché “la confisca ivi disciplinata ha struttura e presupposti diversi dall’istituto generale previsto dall’art. 240 c. p.”.
La sproporzione ricorre anche nella confisca ex art. 24, 25 Dlgs. 159/2011 (che ha abrogato la L. 575/1965); essa non presuppone però la condanna ed avrà la natura della misura di prevenzione antimafia.
Il Dlgs. 231/01 in tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche, società e associazioni non riconosciute contempla diverse ipotesi di confisca: all’art. 9 la confisca assume le vesti di sanzione principale; all’art. 19 è ricostruita come pena accessoria che consegue sempre alla condanna dell’ente per i reati di cui al dlgs; all’art. 23 è prevista un’altra forma di confisca sanzionatoria, applicabile all’ente che abbia tratto vantaggio dal reato di trasgressione agli obblighi e divieti inerenti una misura interdittiva, posto in essere da una persona fisica.
Da tale rapida disamina emerge un dato: la confisca che prescinde dal vincolo di pertinenzialità con il reato e che, al contempo, viene irrogata in sede di condanna ha l’aspetto di una sanzione, sebbene su tale qualificazione non ci siano voci concordi in dottrina e giurisprudenza; anzi, il più delle volte ne viene avallata la riconduzione all’art. 240 c.p. ad onta del carattere propriamente afflittivo che tali misure palesano. Occorre valutare la compatibilità di simile approccio con il principio sostanzialistico propugnato dalla CEDU, che estende le garanzie dell’art. 7 anche a ciò che non è qualificato come “pena” dal legislatore ma che, nella sostanza, ne dissimuli la natura.
Ed infatti costituisce applicazione del dettato convenzionale la giurisprudenza costituzionale sull’art. 186 del Codice della Strada, che prevede un’ipotesi di confisca obbligatoria del veicolo con il quale è stato commesso il reato. La declaratoria di incostituzionalità dell’articolo de quo è stata limitata alle parole “ai sensi dell’art. 240 c. 2 c.p.”, il che sta a significare una presa di posizione della Consulta sulla natura di pena di tale forma di confisca, espungendo dal testo della norma ogni riferimento alle misure di sicurezza.
Ad onta di ciò non può dirsi che le indicazioni giurisprudenziali sulla natura giuridica della confisca per equivalente siano univoche. Ancor più problematica è l’esatta ricostruzione della confisca quando essa abbia ad oggetto il prezzo o il profitto del reato. Infatti, posto che sia il prezzo che il profitto sono costituiti da somme di denaro (il problema non si pone per il prodotto che è un bene specificamente individuato), occorre tracciare il discrimen tra confisca diretta e confisca per equivalente, le quali finiscono per avere il medesimo oggetto (la moneta). Il problema si è posto, in particolare, per la confisca del prezzo o profitto mediante prelievo di denaro da conto corrente, ove le somme specifiche siano state ricostruite nel loro ammontare ma non materialmente individuate. Posto che il denaro è un bene fungibile, l’attribuzione del tantundem, anche mediante prelievo diretto dal conto corrente, non esclude che la confisca sia diretta e, quindi, misura di sicurezza agli effetti dell’art. 240 c.p.
Le oscillazioni interpretative di cui abbiamo dato atto rendono, altresì, arduo risolvere il connesso problema dell’applicabilità della confisca ai casi di declaratoria di prescrizione del reato. In particolare, se si ricostruisce la confisca per equivalente del prezzo o del profitto come misura di sicurezza, si applicheranno gli artt. 25 c. 3 Cost. e 199 ss. C.p. in luogo degli artt. 25 c. 2 Cost. e 1 c.p., nonché art. 7 CEDU; quindi un sistema di garanzie deteriore per il reo, con possibilità di applicazione retroattiva della misura e depotenziamento dei requisiti di prevedibilità e accessibilità. In tal caso sarà lecito prescindere da una sentenza di condanna in senso tecnico, essendo sufficiente che la permanenza della res presso il reo renda “viva” l’attrattiva per il reato: conseguentemente la confisca troverà applicazione anche ove il procedimento si concluda con una declaratoria di prescrizione del reato.
Se, viceversa, si ricostruisse la confisca alla stregua di pena, principale o accessoria (rectius: sanzione penale), l’art. 7 CEDU tornerebbe ad avere pieno vigore e ad assistere all’irrogazione della misura. Conseguentemente, la relativa applicazione potrebbe conseguire esclusivamente all’accertamento della penale responsabilità per un fatto che, al tempo in cui fu commesso, già costituiva reato e in virtù di una norma che già la prevedesse (riespansione del principio di irretroattività sfavorevole).
Quest’ultima soluzione pare essere quella più conforme alla CEDU e alla giurisprudenza di Strasburgo; nondimeno occorre stabilire il significato giuridico da attribuire alla locuzione “accertamento della penale responsabilità”. Vale a dire: è sufficiente una sentenza che accerti la commissione del fatto oppure è richiesta un’autentica sentenza di condanna agli affetti dell’art. 533 c.p.p.?
Anche questo è stato terreno di contrasto tra la Corte EDU e le giurisdizioni nazionali, a partire dall’ipotesi di confisca obbligatoria per il reato di lottizzazione abusiva prevista dall’art. 44 c. 2 D.P.R. 380/01 (Testo Unico sull’Edilizia), applicata in presenza di una sentenza definitiva del giudice penale che, appunto, “accerti” il reato. Id est: l’accertamento del reato può essere contenuto anche in una sentenza diversa da quella di condanna?
La Corte EDU nella nota sentenza Varvara del 2013 ha sostenuto la natura sostanzialmente penale della confisca, conseguentemente richiedendo che l’accertamento della penale responsabilità, ai fini della relativa applicazione, sia contenuto in una sentenza di formale condanna. Nel nostro ordinamento questo si traduce nell’applicazione dell’art. 533 c. 1 c.p.p., non essendo una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione.
Siffatta conclusione è in linea con l’art. 7 CEDU, oltre che con le esigenze di tutela della proprietà privata ex art. 1 Prot. 4 CEDU. Da tanto consegue che l’applicazione della confisca in presenza di una causa di estinzione del reato, quale la prescrizione, è convenzionalmente illegittima in quanto violativa dell’art. 7 CEDU.
La giurisprudenza di Strasburgo in subiecta materia si è però scontrata con la riluttanza dei giudici nazionali, che per bloccare l’applicazione in Italia di tali precipitati hanno invocato i controlimiti: la tutela della proprietà privata sarebbe eccessiva e palesemente sproporzionata. D’altra parte la Consulta, pur escludendo l’operatività dei controlimiti, ha escluso che i principi espressi dalla sentenza Varvara potessero trovare cittadinanza nel nostro ordinamento, e ciò sulla base di due ordini di ragioni. In primis si fa riferimento alla natura neutra della declaratoria di prescrizione del reato, da cui discende la possibilità che essa contenga l’accertamento del fatto storico a carico dell’imputato nella motivazione, anche senza formale condanna. Ergo con la locuzione “sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva” non deve necessariamente intendersi sentenza di condanna ex art. 533 c.p.p.; chè, altrimenti, il legislatore lo avrebbe esplicitato (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit). Secondariamente la Corte Costituzionale ha opposto un limite alla forza vincolante delle sentenze della Corte EDU (ex art. 46 della Convenzione), individuandolo nella circostanza che si tratti di diritto consolidato; e tale non sarebbe quello palesato in un’isolata sentenza delle Camere.
Dalla presa di posizione della Consulta traspare come il dibattito sulla natura giuridica della confisca per equivalente e sulla relativa disciplina sia ancora aperto e vivace.
In questo contesto si colloca l’intervento del legislatore che, insensibile ai moniti di Strasburgo, con D.Lgs 202/2016 ha disciplinato la confisca per equivalente nell’ambito dell’art. 240 c.p. ( “somme di denaro, beni o altre utilità di cui il colpevole ha la disponibilità per valore corrispondente a tale profitto o prodotto, se non è possibile eseguire la confisca del profitto o del prodotto diretti”), seppur limitatamente ai reati posti in essere con l’ausilio di beni o strumenti informatici.
Non è ancora chiaro se il legislatore abbia così inteso prendere posizione sulla natura della confisca per equivalente alla stregua di misura di sicurezza, ovvero si sia limitato a specificare le conseguenze derivanti dalla commissione di specifiche e nominate figure di reato.
In conclusione non si può non rilevare come la carenza del rapporto di pertinenzialità tra la res ed il reato (che caratterizza la misura di cui all’art. 240 c.p.) spinga verso la qualificazione della confisca per equivalente in termini di “pena”. Questo dovrebbe portare all’applicazione di una serie di garanzie: tra queste, quella di stretta legalità nonché la necessità di una sentenza di condanna, che sancisca la penale responsabilità nel dispositivo e non solo in motivazione. Probabilmente, nell’opinare diversamente, la giurisprudenza interna ha dovuto fare i conti con ragioni di opportunità che non sempre appaiono coerenti coi principi fondanti il sistema penale. D’altra parte è altrettanto vero che non può rimettersi totalmente alla discrezionalità dell’interprete l’individuazione di ciò che è pena e di ciò che non lo è. Ne risentirebbe il concetto stesso di diritto, inteso come regole basate sulla certezza e sulla non opinabilità.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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