Indagine sul recesso al termine del periodo formativo dell’apprendistato
Il presente contributo intende effettuare un’analisi in ordine alla fattispecie del recesso dal contratto di apprendistato al termine del periodo formativo del lavoratore inquadrato come apprendista.
Appare dunque necessaria una seppur sintetica disamina preliminare dell’istituto del contratto di apprendistato: come noto, trattasi di ipotesi di contratto di lavoro subordinato c.d. “a causa mista”[1], intendendo con ciò che la funzione economico – sociale in concreto[2] esplicata da tale fattispecie contrattuale non si esaurisce nel mero sinallagma tra la prestazione dell’attività lavorativa da parte dell’apprendista e la corresponsione della retribuzione da parte del datore di lavoro, ma si sostanzia, altresì, nell’erogazione di una formazione (quella c.d. “on the job” e quella di carattere trasversale), cui corrisponde una deminutio nella retribuzione dell’apprendista, il quale, non essendo ancora interamente formato, non porta (almeno in linea teorica) all’impresa un’utilità paragonabile a quella del lavoratore completamente formato.
La ratio legis che evidentemente sussume a tale fattispecie, come del resto avvalorato dai requisiti anagrafici essenziali per la stipulazione di detta tipologia contrattuale, consiste nell’assunzione di un soggetto di giovane età, attraverso l’approntamento di un variegato sistemi di incentivi prevalentemente di natura contributiva (che rendono appetibile tale strumento contrattuale sia per l’imprenditore, sia, seppur in misura minore, per il lavoratore), che, in considerazione del minor apporto lavorativo (quantomeno da un punto di vista qualitativo[3]) che porta, percepisce un corrispettivo inferiore[4], sino a raggiungere il medesimo grado di preparazione degli altri lavoratori e, corrispondentemente, pareggiarne la retribuzione.
L’eventuale abuso dello strumento – da intendersi quale mezzo per un fine: id est, la possibilità, per il datore di lavoro, di utilizzare manodopera a un costo inferiore, senza che vi sia un disegno ex ante teleologicamente indirizzato allo stabile inserimento del giovane nell’organizzazione aziendale successivamente alla conclusione del periodo formativo – viene teoricamente scongiurato mediante un sistema misto di incentivazioni e divieti, che consistono da un lato nella prosecuzione della riduzione contributiva (come è stato osservato, parlare di “sgravio” è giuridicamente improprio[5]) per un anno oltre la fine del periodo formativo da un lato, e dall’altro nell’inserimento della c.d. clausola di stabilizzazione, in osservanza della quale i datori di lavoro con almeno cinquanta dipendenti sottostanno all’obbligo di far sussumere l’assunzione di nuovi soggetti con contratto di apprendistato professionalizzante (ossia la fattispecie di gran lunga più ricorrente nella prassi) alla stabilizzazione di almeno il venti per cento degli apprendisti dipendenti dal medesimo datore di lavoro[6], a pena di conversione ex tunc del rapporto in contratto di lavoro a tempo indeterminato (con tutte le conseguenze in tema di costo del lavoro ben note agli imprenditori).
Come è noto, la legge afferma che il contratto di apprendistato debba essere inteso come un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sebbene poi appaia evidente un certo scollamento tra la lettera della legge e la prassi: sarebbe sufficiente, del resto, domandare all’apprendista che abbia chiesto a un istituto di credito l’erogazione di un mutuo per capire che la nozione di ‘tempo indeterminato’ del suo rapporto di lavoro è più teorica che pratica.
Il principale motivo per cui esiste questa discrasia risiede nell’odierno oggetto di studio, ossia la possibilità – astrattamente posta a vantaggio di entrambe le parti, ma che de facto, per motivi sia pratici, sia eminentemente giuridici, si configura chiaramente quale strumento di favor datoris -, al termine del periodo formativo, la cui durata è fissata (così come le modalità attuative ed il trattamento economico e normativo) dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro entro la cornice fissata ex lege, di recedere ad nutum, derogando alla disciplina comune del corpus normativo giuslavoristico secondo cui, sin dalla celeberrima legge n. 604/1966, vi è necessità di allegare un giustificato motivo quando il datore manifesta la sua intenzione di recedere dal contratto di lavoro.
La previsione in esame risulta doppiamente anomala considerando che, per tutta la vigenza del cosiddetto “periodo formativo”, l’apprendista è tutelato dal medesimo regime relativo alla totalità dei lavori subordinati ‘tipici’, non potendo trovare applicazione, come la giurisprudenza ha coerentemente evidenziato[7], né la disciplina del c.d. recesso ante tempus tipica del contratto a tempo determinato, né tantomeno alcuna tipologia di recesso non sorretta da un giustificato motivo o una giusta causa.
Quanto ci si propone di analizzare nel presente contributo consiste proprio nell’estensione dei confini di tale “finestra”, con riguardo alla discrezionalità e alle caratteristiche che possono connotare il recesso e la sua area di operatività.
Naturalmente ci si focalizzerà principalmente sul recesso esercitato da parte datoriale, sia perché, come detto, questa è la fattispecie che trova maggiore riscontro nella prassi, sia soprattutto perché è in tale previsione che risiede la reale anomalia ordinamentale, atteso che per definizione il recesso esercitato dal lavoratore non richiede, in linea generale, di essere retto da un giustificato motivo (salvo il caso, gravido di conseguenze giuridiche, di dimissioni per giusta causa).
Ci si domanda dove possa risiedere il fondamento della previsione del recesso ad nutum una volta concluso il periodo formativo, atteso che tale previsione si pone come una deroga estremamente significativa alla necessità del giustificato motivo che si pone alla base del recesso da parte datoriale; tale eccezione alla regola è sì riscontrabile anche in altri settori dell’ordinamento giuslavoristico, ma in ipotesi la cui ratio legis appare sempre in modo evidente: in caso di licenziamento del lavoratore che ha già maturato i requisiti pensionistici, la possibilità di recesso del datore di lavoro ha evidentemente conseguenze sociali ridotte, atteso che comunque lo stesso potrà percepire da subito un importo costituente reddito anche in senso tecnico – fiscale); va tuttavia sottolineato che recente giurisprudenza di legittimità[8] ha affermato che detta previsione è unicamente applicabile ai lavoratori che abbiano maturato i requisiti per la sola pensione di vecchiaia, dovendosi ritenere invece escluso il novero dei soggetti che abbiano raggiunto la pensione per ragioni di anzianità di servizio.
Proseguendo la disamina, si rileva come, in ipotesi di licenziamento del lavoratore inquadrato come dirigente, la nozione di “giustificato motivo” alla base del recesso datoriale viene temperata, e non completamente espunta, venendo, semmai, convertita in quella, di matrice giurisprudenziale, di “giustificatezza”[9] (senza dimenticare che il trattamento economico e normativo del dirigente, disciplinato da accordi collettivi a sé stanti, lo pone in una posizione di sicura maggior tutela quantomeno economica, rispetto alla generalità dei lavoratori subordinati, il che giustifica la grande quantità di deroghe previste ad ogni livello normativo per siffatta categoria[10]); il lavoro domestico ed il lavoro sportivo professionistico costituiscono fattispecie a sé stanti, disciplinate da leggi speciali, che presentano particolarità ictu oculi evidenti nell’oggetto della prestazione dedotta nel contratto di lavoro; infine, il lavoratore in prova – che costituisce la fattispecie, come si vedrà, probabilmente più sovrapponibile per eadem ratio a quella oggetto del presente ragionamento giuridico – può sì subire il recesso da parte datoriale (così come, chiaramente, può esercitarlo a sua volta), ma nel contesto di un rapporto che, secondo i prevalenti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, è sospensivamente condizionato al superamento della prova stessa[11] (e pertanto alla dimostrazione dell’idoneità lavorativa del prestatore di lavoro), di talché si parla di recesso da un contratto che non ha ancora completamente estrinsecato i suoi effetti.
Concettualmente differente si presenta, invece, l’ipotesi in esame, sottolineandosi in proposito come le esigenze per così dire “sociali” del diritto del lavoro, che nelle casistiche precedentemente analizzate potevano trovare (vuoi per la posizione economica del soggetto che subisce il recesso, vuoi per la diversa ricollocabilità dello stesso nel mercato del lavoro, o in generale per la minore necessit di tutele da parte dello ‘stato sociale’) una fondata deroga, appaiono nel caso de quo totalmente assenti: e anzi, se la funzione assolta dalla normativa giuslavoristica consiste, come avviene, ad esempio, anche nella legislazione in materia consumeristica o bancaria[12], nel riportare in una condizione di equilibrio un rapporto contrattuale che presenta una fisiologica alterazione nei diritti, doveri e poteri delle parti – equilibrio che indubbiamente una compiuta disciplina del diritto di recesso concorre in modo significativo a fornire – non si vede in quale modo tale funzione si estrinsechi nella previsione di un recesso ad nutum, conseguente ad un periodo minimo di tre anni[13] all’interno del quale, sia pure nella cornice di un contratto a causa mista in cui ha beneficiato della formazione e dell’apprendimento di un mestiere, l’apprendista ha regolarmente prestato la sua attività lavorativa in favore del datore di lavoro.
Se da un lato è vero che il medesimo discorso è applicabile anche al recesso durante il periodo di prova, non si può non rilevare come l’impatto “sociale” (e, senza alcuna pretesa di travalicare la cornice tecnico – giuridica del presente contributo, e demandandone studi più approfonditi[14] alla disciplina della psicologia del lavoro, si potrebbe anche affermare che la ablazione coattiva – e in un certo senso immotivata – da un luogo di lavoro frequentato per anni possa avere dei riverberi negativi anche sulla sfera interiore / psicologica dell’individuo: sfera di cui il legislatore, nel campo che ci occupa, non può dirsi del tutto disinteressato) di quest’ultima ipotesi appaia completamente diverso, atteso che la durata di detto periodo non può valicare la durata massima di sei mesi, e che nella prassi, per la maggior parte delle mansioni, la sua estensione temporale si attesta attorno a un terzo o un quarto di tale periodo massimo: si tratta, dunque, di lavoratori che (riprendendo la sempre attuale immagine evocata da Francesco Santoro Passarelli, secondo cui il contratto di lavoro riguarda “l’avere per il datore di lavoro, ma l’essere per il lavoratore”[15]) non si sono ancora ‘esistenzialmente’ definitivamente installati nell’organizzazione aziendale, nei suoi riti e nella sua routine, e pertanto appare ragionevole, nel fisiologico bilanciamento degli interessi proprio del sinallagma contrattuale, far prevalere, al termine del relativamente breve orizzonte temporale di cui si è detto, la valutazione negativa in ordine all’idoneità lavorativa del prestatore sul suo diritto alla conservazione del posto; tale discorso non appare tuttavia applicabile alla fattispecie dell’apprendistato, la cui durata (anche solo del periodo formativo) evidentemente esorbita la mera valutazione in ordine all’idoneità lavorativa del prestatore.
La questione, forse sottovalutata dalla dottrina maggioritaria, che non le ha dedicato uno spazio di rilievo[16] (così come il tema non è stato problematizzato più di tanto nemmeno a livello politico / sindacale), appare invece come un nodo cruciale nel magmatico contesto della normativa giuslavoristica, disciplina che si distingue, tra i vari rami che costituiscono il diritto, per la sua giovane età, sia in senso assoluto, atteso che, laddove il diritto civile affonda, come è noto, le sue origini nell’epoca romanistica, il diritto del lavoro trae origine dai sommovimenti sindacali conseguenti alla prima rivoluzione industriale[17]; ma anche, in un’accezione più relativa, si osserva come la disciplina generale dei contratti (quella riassunta negli artt. 1321 – 1469 cod. civ.), cui il diritto del lavoro rimanda in modo indiretto, risulti in larga parte intoccata dal momento di redazione del Codice Civile nel 1942, laddove le norme di diritto del lavoro – ivi compresa la disciplina precipua del contratto di apprendistato – subiscono modifiche praticamente a cadenza annuale), e i cui profili eminentemente giuridici vengono, nella prassi degli operatori posti dinanzi a conflitti inter partes da appianare, frequentemente sottoposti ad esigenze più terra-terra legate a un “do ut des” tra rispettive attribuzioni patrimoniali e rinunce; ma la sottovalutazione di siffatto profilo non deve indurre lo studioso a trascurarne l’impatto sistematico, certamente tutt’altro che irrilevante.
Qual è, ci si chiede, la ratio legis che consente al datore di lavoro di recedere, senza che sia previsto a suo carico l’obbligo di allegazione di alcun giustificato motivo, dal contratto di lavoro stipulato con un soggetto che ha prestato attività in suo favore per un periodo di tre anni (periodo, per intendersi, più lungo di quello massimo previsto per la stipulazione di un contratto a tempo determinato, dopo la riforma introdotta con il cosiddetto “Decreto Dignità”)? La necessità di una “prova lunga”?
A parere di chi scrive, è più probabile che detta previsione trovi surrettiziamente la sua giustificazione in una mano tesa dal legislatore alla classe imprenditoriale, che vede nell’apprendistato la tipologia contrattuale meno costosa e pertanto più appetibile, consentendogli transversis itineribus di poter aumentare le possibilità di ottenere manodopera più economica senza utilizzare mezzi elusivi quando non proprio fraudolenti, che possono spaziare, come noto agli operatori della prassi, dalla delocalizzazione all’estero fino al lavoro nero.
Ciò su cui appare opportuno appuntare l’attenzione risiede nel fatto che il problema sta a monte: perché introdurre una deroga a tutti i principi generali dell’ordinamento, posti, in ultima istanza, a tutela della persona, mettendo a repentaglio l’occupazione della fascia più giovane della popolazione idonea al lavoro, motivando seppur implicitamente tale previsione (almeno nella ricostruzione che, sulla base dell’esperienza e di un’analisi consuntiva della normativa del lavoro) con un favor datoris teleologicamente indirizzato alla riduzione dei costi, quando sarebbe più corretto, a livello sistem(at)ico, effettuare interventi organici e capillari tutti destinati alla riduzione dell’elevatissimo cuneo fiscale da cui è connotato il nostro paese?
Va certamente evidenziato che l’ultima legge di bilancio ha introdotto una significativa estensione del regime forfettario (c.d. flat tax) per gli imprenditori che conseguano redditi sino alla soglia di €. 65.000, il che, considerando le basse aliquote fiscali previste per tale regime (15%, che può abbassarsi al 5% alla ricorrenza di determinati requisiti[18]), costituisce un interessante strumento di riduzione del costo del lavoro; anche in questo caso, però, è presente un importante rovescio della medaglia, atteso che tale favorevole regime si attaglia esclusivamente a micro o piccole imprese, prive o quasi di lavoratori dipendenti, e pertanto sembra – anche sulla scia di incentivi quali l’esenzione dagli studi di settore – configurarsi quasi come un incentivo a “rimanere piccoli”[19], potendo condurre a due ipotesi, entrambe negative per l’economia nel suo quadro generale: nel primo caso, incluso nel perimetro della liceità, l’imprenditore aderente al nuovo regime forfettario sarà incentivato a non emettere più fattura una volta arrivato in prossimità della soglia massima; nel secondo caso, sarà portato a porre in essere comportamenti elusivi quando non direttamente fraudolenti (tipicamente, la non fatturazione della parte eccedente, oppure l’apertura di una nuova e diversa partita IVA a nome di un altro soggetto – prestanome, anch’essa rientrante nel nuovo regime forfettario).
A parere di chi scrive, sarebbe più opportuno ripensare l’intero sistema, diminuendo tout court la pressione fiscale e il costo del lavoro; vice versa, le misure assunte nel mondo del lavoro (il quale, come è noto, non può esaurirsi nell’analisi della normativa squisitamente giuslavoristica, intersecandosi la stessa – o meglio, i suoi riverberi – con la legislazione sociale, previdenziale e fiscale) risultano, nella loro disorganicità e nell’eterogeneità dei formanti che la compongono, tendenzialmente ancora improntate a un significativo sfavore nei confronti delle imprese, come emerge dalle previsioni del c.d. “Decreto Dignità”, che riduce praticamente a residuale la possibilità di fare ricorso a un contratto a tempo determinato, e, traslando il discorso al formante giurisprudenziale, dalla sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale, che, questionando la legittimità del D.Lgs. n. 23/2015 in tema di tutele crescenti, ha reintrodotto la discrezionalità giudiziale nella quantificazione del risarcimento per illegittimo licenziamento, di fatto rimuovendo una delle rare previsioni pro – datore contenute nel nostro ordinamento (almeno nella misura in cui ciò consentiva di conoscere preventivamente, in funzione dell’anzianità di servizio del lavoratore espulso dall’organizzazione aziendale[20], le conseguenze dell’eventuale accertamento giudiziale dell’illegittimità del recesso; ma anche, oltre al profilo della previa quantificabilità della somma erogabile, non si può non rilevare empiricamente come la stragrande maggioranza delle pronunce di merito conseguenti alla sentenza della Consulta che si pongano in deroga alla predeterminazione dell’indennità per ingiustificato licenziamento tenderanno ad aumentare l’importo che il datore di lavoro dovrà corrispondere).
In definitiva, sembrerebbe che nel contesto attuale la disciplina giuridica del recesso al termine del periodo formativo dell’apprendistato si configuri come uno degli ultimi baluardi favorevoli all’impresa, ponendosi però a detrimento della fascia più giovane della popolazione; sarebbe auspicabile, pertanto, un ripensamento globale e non occasionale del sistema, senza “chiudere un occhio” sull’adozione di eventuali escamotage posti in essere dal datore di lavoro al fine di difendersi da una situazione sistemica sfavorevole: un altro esempio di questo approccio un po’ ipocrita, sempre inerente all’argomento che ci occupa, consiste nella possibilità, discussa nella teoria ma non infrequentemente adottata nella pratica[21], di corrispondere al lavoratore assunto come apprendista un superminimo: dal punto di vista della teoria contrattuale del diritto si tratta di un ossimoro, di una contraddizione in termini, atteso che, come sottolineato al principio del presente contributo, la causa (mista) in concreto del contratto di apprendistato consiste nel sinallagma tra la corresponsione di una minorata retribuzione e l’erogazione di una formazione verso una prestazione lavorativa che porta un’utilità minore in capo all’impresa.
Con una simile premessa teorica, appare chiara la contraddittorietà della pattuizione che preveda l’erogazione in favore dell’apprendista di un elemento di paga aggiuntivo rispetto a quelli previsti dalla contrattazione collettiva (possibilmente per ragioni negoziali connesse all’esigenza di garantire un determinato stipendio netto all’apprendista stesso), ed è verosimile ipotizzare che la generale tolleranza istituzionale a siffatto fenomeno risieda, nuovamente, nella consapevolezza che, in considerazione dell’elevato costo del lavoro presente in Italia, nell’intenzione di tutelare, almeno per la lunghezza del periodo formativo, le esigenze dell’imprenditore.
Si tratta di una pluralità di scappatoie, che il teorico puro per formazione personale tenderà a rifuggire, laddove l’operatore pratico tenderà a perseguirle; entrambe le figure, però, dovrebbero prendere consapevolezza della necessità di un’azione congiunta di stimolo e sollecito verso le istituzioni al fine di evidenziare l’urgenza di intervenire a livello sistematico per diminuire il costo del lavoro in un’ottica parimenti vantaggiosa sia per il datore di lavoro sia per il lavoratore.
[1] Ex multis, appare esauriente la massima espressa da Trib. Roma, 22/06/2017, n. 6176, in DeJure, che così argomenta: “Il contratto di apprendistato professionalizzante è finalizzato al conseguimento di una qualificazione professionale attraverso la formazione sul lavoro, in termini di acquisizione di competenze di base, trasversali e tecnico-professionali ed il datore di lavoro è obbligato ad impartire un addestramento necessario a far conseguire all’apprendista la relativa qualifica professionale; tale contratto è a causa mista, di formazione e lavoro che assume rilievo solo se l’aspetto formativo si sia effettivamente realizzato.”
[2] Questa è l’accezione moderna che la giurisprudenza attribuisce alla nozione di causa del contratto, sulla cui definizione, come è noto, il Codice Civile (art. 1343) tace. Si veda Cass. Civ., 17/01/2017, n. 921, in DeJure, che dirime come segue la questione: “La causa, quale elemento essenziale del contratto ex art. 1325 c.c., identifica lo scopo pratico del negozio, la sintesi – cioè – degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare (causa concreta) quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato. L’indagine, circa la causa quale obiettiva funzione economico sociale del contratto, quindi, va svolta non in astratto, ma in concreto al fine di verificare – secondo il disposto degli art. 1343 e 1344 c.c. – la conformità alla legge dell’attività negoziale posta in essere dalle parti e quindi la riconoscibilità della tutela apprestata dall’ordinamento giuridico. Una siffatta indagine non può prescindere dall’apprezzamento degli interessi che il contratto è destinato a realizzare, quali emergono dalle circostanze obiettive (pregresse, coeve e successive alla sua conclusione) secondo la valutazione, riservata al giudice del merito, del materiale probatorio acquisito. Solo laddove da tale indagine risulti che le parti abbiano utilizzato un determinato modello negoziale per realizzare una funzione obiettiva che sia non soltanto diversa da quella per la quale tale modello negoziale è previsto dalla legge, ma anche in contrasto con norme imperative, con l’ordine pubblico o con il buon costume (ciò che caratterizza la illiceità della causa), il giudice deve negare al negozio posto in essere dalle parti la tutela apprestata dall’ordinamento.”
[3] Dal punto di vista eminentemente quantitativo, e dunque per quanto riguarda la possibilità di stipulare un contratto di apprendistato a tempo parziale, è necessario esaminare le previsioni dei singoli Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, tenendo conto che in linea generale è possibile effettuare detta stipulazione, purché il rapporto preveda almeno il cinquanta / sessanta per cento delle ore di lavoro previste rispetto al contratto a tempo pieno.
[4] Sulla compatibilità tra contratto di apprendistato e presenza di un superminimo quale elemento della retribuzione – ritenuta possibile, ma con dei limiti – si veda diffusamente P. Rausei, Apprendistato, Milano, 2012
[5] AA.VV., Commentario del Codice Civile, a cura di O. Cagnasso e A. Vallebona, secondo cui: “L’utilizzazione da parte del legislatore della espressione <<sgravio contributivo>> riconduce al problema se il regime contributivo ridotto previsto per gli apprendisti costituisca o meno un incentivo alle imprese. Il Ministero del lavoro ha escluso che la ridotta aliquota contributiva prevista in relazione agli apprendisti configuri un beneficio. Si ricordi che ragionando dell’obbligo del Durc per godere di agevolazioni pubbliche, il Ministero ha predisposto un elenco di tipologie di benefici, escludendo la ridotta aliquota contributiva degli apprendisti in quanto configurante non una riduzione dell’aliquota obbligatoria, e quindi un beneficio, bensì il regime contributivo ordinario per gli apprendisti. Tale posizione ministeriale, tutto sommato condivisibile, non ha impedito al legislatore, disciplinando il regime contributivo degli apprendisti, di reiterare l’utilizzo dell’espressione beneficio contributivo.”
[6] Vengono, ad ogni modo, esclusi da tale calcolo i rapporti di lavoro cessati per recesso durante il periodo di prova (atteso che, in questa ipotesi, l’apprendista si era mostrato manifestamente inidoneo alle mansioni lavorative offertegli), dimissioni e licenziamento per giusta causa (in queste ultime due ipotesi, evidentemente, lo scioglimento dal vincolo contrattuale avviene per effetto di un atto di volontà unilaterale da parte dell’apprendista, che in un caso esercita il diritto potestativo di recesso, e nell’altro pone in essere, in fatto, un comportamento così grave da ledere irreparabilmente il legame fiduciario intercorrente con il datore di lavoro)
[7] Così Cass. 13/07/2017, n. 17373, secondo cui “Il contratto di apprendistato, anche nel regime di cui alla l. 19 gennaio 1955 n. 25 (applicabile “ratione temporis”), deve essere considerato un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, caratterizzato da una prima fase contraddistinta da una causa mista (con il normale scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione cui si aggiunge quello tra attività lavorativa e formazione professionale) ed una seconda fase eventuale, condizionata al mancato recesso ex art. 2118 c.c., che rientra nel novero del rapporto di lavoro subordinato. Pertanto, in caso di licenziamento intervenuto nel corso del periodo di formazione, al contratto di apprendistato non può essere applicata la disciplina relativa al licenziamento “ante tempus” nel rapporto di lavoro a tempo determinato”
[8] Cass. Civ., 10/01/2019, n. 435, in DeJure, ove la Suprema Corte afferma: “Nei confronti della lavoratrice in età pensionabile ed in possesso dei requisiti per la pensione di anzianità non è consentito, da parte del datore di lavoro, il recesso “ad nutum”, posto che solamente la maturazione del diritto al pensionamento di vecchiaia incide sul regime del rapporto di lavoro, come desumibile dall’art. 4, comma 2, della l. n. 109 del 1990, norma insuscettibile di applicazione analogica, che, nell’escludere la tutela reale per i licenziamenti illegittimi nei confronti dei prestatori di lavoro ultrasessantenni aventi i requisiti pensionistici, fa riferimento ai presupposti per l’accesso alla pensione di vecchiaia (e non di anzianità), solo al verificarsi dei quali il lavoratore ha l’onere di impedire la cessazione del regime di stabilità, entro un certo termine decadenziale, esercitando l’opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro”. Tale pronuncia va letta congiuntamente con Cass. Civ., 20/03/2014, n. 6537, in cui si legge: “L’art. 4, comma 2, della legge 11 maggio 1990, n. 108, che esclude la tutela reale per i licenziamenti illegittimi nei confronti dei prestatori di lavoro ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici, fa riferimento ai presupposti per l’accesso alla pensione di vecchiaia, solo al verificarsi dei quali il prestatore di lavoro ha l’onere di impedire la cessazione del regime di stabilità, entro un certo termine di decadenza, esercitando l’opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro. Ne consegue la nullità dell’art. 33 del c.c.n.l. per il settore giornalistico, nella parte in cui consente all’azienda di recedere liberamente dal rapporto, nei confronti di lavoratore che abbia raggiunto i 60 anni di età e sia titolare di un’anzianità contributiva previdenziale di 33 anni, non potendosi limitare il diritto del giornalista di avvalersi della pensione di vecchiaia e del consequenziale diritto, di fonte legale, alla continuazione del rapporto lavorativo sino al compimento del 65° anno di età”. Naturalmente, dette sentenze devono essere lette anche alla luce dell’ultima Legge di Bilancio, che ha introdotto il meccanismo denominato “Quota 100”: ma, ad ogni modo, i principi affermati nelle sopra richiamate pronunce devono ritenersi sempre validi nell’ottica della funzione nomofilattica esercitata dalla Corte di Cassazione, il cui principio di diritto si può sintetizzare nel non veder leso il diritto alla conservazione del posto ad opera di un lavoratore che anagraficamente è ancora in grado di fornire un apporto e un’utilità al proprio datore di lavoro.
[9] Così Cass. Civ., 17/03/2014, n. 6110, in cui si afferma che il motivo debba essere coerente e fondato su ragioni giuridicamente apprezzabili, idonee a sostenere la natura arbitraria del recesso. Tale pronuncia consolida un orientamento già da tempo affermatosi, come si evince analizzando anche la sentenza Cass. 06/10/1998, n. 9896, in cui il giudice di legittimità ha statuito che la c.d. giustificatezza si concretizza in “ragionevolezza e serietà del motivo, da accertarsi secondo un equo contemperamento degli interessi contrapposti”. Sul punto si veda altresì Trib. Milano, 21/08/2014, n.1603, che esprime la seguente massima di diritto: “Posto che le garanzie procedimentali dettate dall’art. 7 legge 20 maggio 1970 n. 300 devono trovare applicazione anche nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente, se è pur vero che il direttore generale (nella specie, bancario), in ragione del ruolo di vertice rivestito e dei rilevanti poteri gestori esercitati, è responsabile non solo delle azioni compiute direttamente ma anche, indirettamente, dell’operato dei propri collaboratori, per culpa in eligendo e in vigilando, è anche vero, tuttavia, che ciò non può condurre a configurare una sorta di responsabilità oggettiva in capo al medesimo, così da attribuire a quest’ultimo ogni disfunzione ed ogni carenza riscontrate nell’organizzazione aziendale. Nè può ritenersi che il direttore generale, in quanto dirigente apicale, assuma nei confronti del datore di lavoro un’obbligazione di risultato.”
[10] Si pensi, a titolo esemplificativo, all’estensione temporale massima di cinque anni che può avere il patto di non concorrenza ex art. 2125 cod. civ., in deroga a quella massima di tre anni prevista per la totalità degli altri lavoratori
[11] La sussumibilità del periodo di prova al regime giuridico della condizione è storicamente sostenuta dalla giurisprudenza, come si desume, ex aliis, dalla risalente sentenza della Cassazione del 25/06/1987, n. 5608, in DeJure, in cui, nell’effettuare una disamina in ordine alla natura giuridica del periodo di prova, si afferma: “A norma dell’art. 2096 c.c. e dell’art. 10 della l. 15 luglio 1966 n. 604, il rapporto di lavoro subordinato, costituito con patto di prova, è sottratto, per il periodo massimo di sei mesi alla disciplina sui licenziamenti individuali ed è caratterizzato da un potere di recesso del datore di lavoro, la cui discrezionalità – avverandosi la condizione sospensiva potestativa cui è sottoposto il negozio di assunzione – si esplica senza obbligo di fornire al lavoratore alcuna motivazione, neppure in caso di contestazione, sulla valutazione della capacità e del comportamento professionale del medesimo. Peraltro, l’esercizio del detto potere di recesso, consentito in ogni momento, e cioè non solo al termine, ma anche nel corso del periodo di prova – salvo che questa sia stata stabilita per un tempo minimo necessario – non è caratterizzato da una discrezionalità assoluta, ma deve essere coerente con la causa del patto, sicché il lavoratore, che non dimostri e neppure chieda di dimostrare il positivo superamento dell’esperimento, nonché l’imputabilità del recesso ad un motivo estraneo, e quindi illecito, non può eccepire e dedurre la nullità di tale recesso in sede giurisdizionale.”
[12] Dà alcuni utili rimandi il contributo di F. Camilletti presso la rivista Lavoro Diritti Europa, n. II/2018, reperibile al seguente link: https://www.lavorodirittieuropa.it/dottrina/principi-e-fonti/151-invalidita-civilistica-invalidita-giuslavoristica-e-nullita-di-protezione
[13] Si allude, naturalmente, all’ipotesi di contratto di apprendistato professionalizzante o di mestiere, cioè quella maggiormente diffusa nella prassi
[14] Si veda, ex aliis, P. Gabassi, Psicologia del Lavoro nelle Organizzazioni, Milano 2007
[15] F. Santoro Passarelli, Spirito del Diritto del Lavoro, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Catania, 1947, p. 3. Questa la citazione integrale: “Se tutti gli altri contratti riguardano l’avere delle parti, il contratto di lavoro riguarda ancora l’avere per l’imprenditore, ma per il lavoratore riguarda e garantisce l’essere, il bene che è condizione dell’avere e di ogni altro bene”
[16] Si pensi al richiamo quasi “apodittico” presente in un’opera di carattere tecnico e monografico vertente intorno alla fattispecie dell’apprendistato, e cioè J. Tscholll, A. Bosco, Il Contratto di Apprendistato, Milano 2017, pp. 94-95, che sul tema del recesso allo scadere del periodo formativo si limita a esporre quanto segue: “Quest’ipotesi è quella che maggiormente consente di cogliere la disciplina speciale del contratto in oggetto. Infatti, si prevede che al termine del periodo di apprendistato le parti possono recedere dal contratto, ai sensi dell’articolo 2118 del codice civile, con preavviso decorrente dal medesimo termine. In buona sostanza si è voluta prevedere una sorta di uscita di sicurezza che consente, in particolar modo al datore di lavoro, di porre fine al contratto – anche se esso è sorto sin ab origine come rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – semplicemente dando il preavviso. Non occorre quindi che sussistano la giusta causa o il giustificato motivo di licenziamento, al contrario è sufficiente consegnare brevi manu al lavoratore (ovvero inviare a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento) una lettera con la quale si comunica la cessazione del rapporto proprio in ragione dell’avvenuto compimento del periodo formativo”
[17] In particolare, la prima legislazione giuslavoristica, già connotata dalle sue finalità per così dire “protezionistiche” (che sarebbero sfociate nelle moderne teorie sul riequilibrio del sinallagma contrattuale e alle analogie ipotizzate con la disciplina consumeristica) è riscontrabile nella prima metà del XIX secolo: secondo M. Roccella, Manuale di Diritto del Lavoro, Milano 2014, p. 2, “Il prototipo di questa originaria legislazione sociale, limitativa delle forme più estreme d’impiego del lavoro di bambini e adolescenti, è agevolmente riconoscibile nel Factory Act britannico del 1833, la genesi ed il contesto di riferimento del quale risultano così vividamente descritti da Marx nelle pagine del primo libro del Capitale. Un provvedimento legislativo analogo si segnala in Francia nel 1841, mentre è del 1886 la prima legge italiana sul lavoro dei fanciulli”
[18] Art. 1, comma 65, L. 190/2014 e successive modifiche
[19] https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-12-27/la-flat-tax-allarga-divario-autonomi-e-dipendenti-tutto-vantaggio-primi-092522.shtml?uuid=AEEPLK5G
[20] Così afferma la Consulta nella sopra richiamata sentenza: “Ricostruite le caratteristiche della tutela prevista dal denunciato art. 3, comma 1, tale disposizione, nella parte in cui determina l’indennità in un “importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, contrasta, anzitutto, con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse (terzo dei profili di violazione dell’art. 3 Cost. prospettati dal rimettente). Come si è visto, nel prestabilirne interamente il quantum in relazione all’unico parametro dell’anzianità di servizio, la citata previsione connota l’indennità, oltre che come rigida, come uniforme per tutti i lavoratori con la stessa anzianità. È un dato di comune esperienza, ampiamente comprovato dalla casistica giurisprudenziale, che il pregiudizio prodotto, nei vari casi, dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori. L’anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è dunque solo uno dei tanti. (…) In una vicenda che coinvolge la persona del lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio. Non possono che essere molteplici i criteri da offrire alla prudente discrezionale valutazione del giudice chiamato a dirimere la controversia. Tale discrezionalità si esercita, comunque, entro confini tracciati dal legislatore per garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e una massima. All’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza. La previsione di una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse.”
[21] http://quotidianolavoro.ilsole24ore.com/art/contratti-lavoro/2015-12-17/superminimo-anche-apprendisti-ma-le-dovute-cautele-102936.php?uuid=AChBeGvB
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Luigi Antonio Beccaria è nato a Melzo nel 1990. Laureato in Scienze Politiche e Giurisprudenza, è avvocato e consulente del lavoro.
La sua principale area di attività è quella giuslavoristica, che esercita presso lo Studio Elit S.a.s. di Melzo, ove esercita l'attività di consulente del lavoro (iscritto all'albo di Milano al n. 2659) e presso lo Studio Legale Camilletti a Milano, ove ha svolto la pratica forense.
Collabora da anni con la cattedra di Diritto Privato e con la cattedra di Diritto del Lavoro rispettivamente nelle facoltà di Scienze Politiche e di Economia e Giurisprudenza presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.