Indagini della P.G.: concorso, agente provocatore e attività sotto copertura
Sommario: 1. Introduzione – 2. Il concorso (esterno) – 3. La figura dell’ agente provocatore e le attività sotto copertura – 4. Confronti, osservazioni e conclusioni.
1. Introduzione
Il contributo causale fornito da un soggetto alla commissione di attività criminose può caratterizzarsi in modo variabile, da condotte meramente passive a forme di istigazione, sino ad arrivare a interventi dotati di necessarietà. Sono forme diversificate dal punto di vista, dunque, non solo dell’elemento oggettivo della riconducibilità o meno alla nozione di condicio sine qua non del reato, ma anche dell’elemento soggettivo della volizione di commettere l’illecito. Questo rende necessario individuare diversi istituti penalistici a cui sussumere tali ipotesi.
Il tema diviene inoltre ancora più problematico in relazione alla figura dell’ agente provocatore, che ha creato incertezze nella sua natura, soprattutto in sede di attività della polizia giudiziaria nel corso di indagini sulla criminalità organizzata e relativi reati. Per facilitare dunque il raffronto tra le diverse nozioni, la trattazione accentuerà le ipotesi dei reati associativi (quali, ad esempio, gli artt. 416 e 416bis c.p.) e dei connessi reati-fine (ad es. il traffico di stupefacenti).
2. Il concorso (esterno)
L’ istituto, previsto nella c.d. parte generale all’ art. 110 del codice penale, è individuato attraverso una locuzione alquanto generica, motivo per cui la relativa giurisprudenza non è pacifica nel delinearne i confini. Con riguardo alla fattispecie ex art. 416bis c.p., è tuttavia concorde nel definire il concorrente esterno come un soggetto non dotato di affectio societatis, e dunque non appartenente all’associazione (al di là della tesi, sostenuta ad esempio dalla sentenza della Sesta Sezione, 21 settembre 2000, n. 3299, secondo cui la condotta di concorso esterno coinciderebbe con quella dell’intraneo dell’associazione, che verrà citata in seguito); peraltro, si sono susseguite varie elaborazioni pretorie.
Un primo orientamento, più risalente, pone rilevanza al contributo causale concretamente fornito, ex post, sulla base di diversi criteri. Il momento del contributo, per esempio, è valorizzato dalla sentenza delle Sezioni Unite, del 5 ottobre 1994, n. 1 (Demitry), secondo cui è nella fase di fibrillazione, emergenziale dell’ esistenza dell’associazione che il soggetto interviene. Altri esempi sono la sentenza, sempre delle Sezioni Unite, del 30 settembre 2002, n. 22327 (Carnevale), e la n. 33748 del 20 settembre 2005 (Mannino), tutte valorizzanti il nesso eziologico sussistente tra contributo del concorrente e reato. L’ultima citata, in particolare, individua tre essenziali elementi del concorso, identificabili anche in casi diversi dall’associazione per delinquere di stampo mafioso:
una condotta collegata, sia oggettivamente che soggettivamente, all’avvenuta realizzazione del fatto tipico, o al suo tentativo; con, al contempo, la non punibilità del mero accordo o della semplice istigazione senza concretizzazione del fatto criminoso, ex art. 115 c.p. ;
una reale efficienza causale della condotta, sulla base del paradigma della condicio sine qua non, per la produzione dell’evento lesivo del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice;
il dolo, negli elementi della rappresentazione e della volizione, che deve investire non solo tutti gli elementi essenziali del fatto tipico, ma anche il contributo causale fornito.
Questa nozione è ancora oggi sostenuta, come dimostra la pronuncia della Prima Sezione, n. 49067, del 10 luglio 2015, che sancisce la rilevanza di una “condotta capace di realizzare un incremento tangibile del macro-evento rappresentato dalla esistenza e permanenza della associazione“.
La sentenza Mannino critica un secondo orientamento, più recente, nei seguenti termini: “L’opposta tesi, che pretende di prescindere dal paradigma eziologico, tende ad anticipare arbitrariamente la soglia di punibilità in contrasto con il principio di tipicità e con l’affermata inammissibilità del mero tentativo di concorso” . Tale seconda tesi, infatti, sostiene la sufficienza di un giudizio ex ante, basato sulla prospettazione dell’agente: degli esempi possono essere tratti dalle pronunce, entrambe della Quinta Sezione della Corte di Cassazione, numeri 16493 (15 maggio 2006) e 21648 (1 giugno 2007). La prima stabilisce che rientri nell’ ipotesi ex art. 110 c.p. anche la condotta del magistrato colluso, riconducendo nell’ambito di applicazione dell’istituto anche la mera aspettativa di deviazione della formazione della volontà dei restanti membri del collegio giudicante, a prescindere dalla sua effettiva concretizzazione; la seconda ritiene che sia sufficiente il sinallagma tra politico ed esponente mafioso per integrare il concorso esterno, senza la necessità che il primo rispetti gli impegni assunti, in quanto, anche in questa sede, è sufficiente che il perseguimento degli scopi illeciti dell’associazione si configuri come mera possibilità, di cui il soggetto agente sia consapevole.
A questa tesi è poi riconducibile la giurisprudenza che dà rilevanza al rafforzamento “psichico”, o del senso di sicurezza degli appartenenti al sodalizio criminoso.
In relazione, per concludere, alla tesi “negazionista”, ad avviso di chi scrive può ritenersi esauriente un passo della già citata sentenza n. 49067/2015, orientata alla sua smentita: “Se, infatti, l’evento (in senso giuridico e materiale) che la norma incriminatrice di cui all’art. 416bis tende a reprimere è l’esistenza ed operatività concreta di un consorzio umano organizzato (l’associazione mafiosa) avente determinate caratteristiche tipiche (sul piano degli scopi e delle modalità utilizzate per conseguirli), è del tutto pacifico che rispetto a tale dato fenomenico debbano assumere rilievo penalistico non soltanto le condotte direttamente espressive di intraneità (in quanto dimostrative della connaturale ripartizione di compiti, attribuiti agli associati in senso stretto) ma altresì tutte quelle condotte che, pur poste in essere da soggetti esterni, contribuiscano in modo oggettivamente rilevante (e soggettivamente consapevole) alla realizzazione o al permanere dell’evento in questione“.
3. La figura dell’agente provocatore e le attività sotto copertura
Queste due figure spesso trovano terreno di scontro in sede pretoria. Essendo tuttavia il nostro sistema giuridico di civil law, e non di common law, è bene analizzare in primis le disposizioni normative vigenti. Non vi è una disciplina unitaria: rilevano diversi atti legislativi di carattere speciale.
Ad esempio, l’art. 97 del D.P.R. 309/1990, ovvero “Testo Unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza“, recita quanto segue: “1. Fermo il disposto dell’articolo 51 del codice penale, non sono punibili gli ufficiali di polizia giudiziaria addetti alle unità specializzate antidroga, i quali, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti (…) anche per interposta persona, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano sostanze stupefacenti o psicotrope o compiono attività prodromiche e strumentali. 2. Per le stesse indagini di cui al comma 1, gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria possono utilizzare documenti, identità o indicazioni di copertura anche per attivare o entrare in contatto con soggetti e siti nelle reti di comunicazione, informandone il pubblico ministero al più presto e comunque entro le quarantotto ore successive all’inizio delle attività.(…) 4. Gli ufficiali di polizia giudiziaria possono avvalersi di ausiliari ed interposte persone, ai quali si estende la causa di non punibilità di cui al presente articolo. Per l’esecuzione delle operazioni può essere autorizzata l’utilizzazione temporanea di beni mobili ed immobili, nonchè di documenti di copertura secondo le modalità stabilite con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della giustizia e con gli altri Ministri interessati.“
Altro esempio è dato dall’art. 9 della legge 146/2006, “Ratifica ed esecuzione della Convenzione e dei Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottati dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 ed il 31 maggio 2001” : “1. Fermo quanto disposto dall’articolo 51 del codice penale, non sono punibili: a) gli ufficiali di polizia giudiziaria della Polizia di Stato, dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, appartenenti alle strutture specializzate o alla Direzione investigativa antimafia, nei limiti delle proprie competenze, i quali, nel corso di specifiche operazioni di polizia e, comunque, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti (…) anche per interposta persona, danno rifugio o comunque prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, stupefacenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego; (…) 2. Negli stessi casi previsti dal comma 1, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria possono utilizzare documenti, identità o indicazioni di copertura anche per attivare o entrare in contatto con soggetti e siti nelle reti di comunicazione, informandone il pubblico ministero al più presto e comunque entro le quarantotto ore dall’inizio delle attività. (…) 5. Per l’esecuzione delle operazioni di cui ai commi 1 e 2, gli ufficiali di polizia giudiziaria possono avvalersi di ausiliari ai quali si estende la causa di non punibilità prevista per i medesimi casi. Per l’esecuzione delle operazioni può essere autorizzata l’utilizzazione temporanea di beni mobili ed immobili, di documenti di copertura, l’attivazione di siti nelle reti, la realizzazione e la gestione di aree di comunicazione o scambio su reti o sistemi informatici, secondo le modalità stabilite con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della giustizia e con gli altri Ministri interessati. (…) “.
(Altre fonti sono elencate nella pronuncia della Cassazione Penale, Seconda Sezione, n. 38488 del 28 maggio 2008, depositata il 9 ottobre 2008, che in modo molto esauriente ricostruisce anche la giurisprudenza, nazionale e sovranazionale, sul tema).
L’attività sotto copertura è dunque ammessa nei limiti di due principali norme: l’art. 51 c.p., vale a dire la scriminante dell’adempimento di un dovere, e l’art. 55 c.p.p. , che vincola la legittimità delle attività della polizia giudiziaria al “prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale” (comma 1).
Le condotte che esulano da questo circoscritto ambito sono riconducibili all’agente provocatore, dunque illegittime in primis per violazione del principio dell’equo processo ex art. 6 CEDU, secondo la Corte di Strasburgo (vedi sent. n. 38488/2008 della Cassazione Penale).
In sede giurisdizionale nazionale, le maggiori problematicità si pongono in relazione a casi in cui il soggetto non si limita a condotte passive, ad esempio di osservazione di un fenomeno criminoso ( “…adesione ai propositi degli imputati e di osservazione dei loro comportamenti, senza mai sconfinare in un’ opera, non consentita, di istigazione” , dalla già citata sentenza n. 38488 del 2008), ma prende parte attivamente all’attività criminosa.
La Corte di Cassazione ha, in queste occasioni, precisato i confini dei due istituti.
La Terza Sezione Penale, con sentenza n. 17199/2011 (ud. 7 aprile 2011 e dep. 3 maggio 2011) precisa che l’agente provocatore opera “anche al di fuori di una indagine ufficialmente autorizzata” (o può consistere in “azioni illecite diverse da quelle dichiarate non punibili e di quelle strettamente e strumentalmente connesse“) e si individua sulla base della “rilevanza causale che la condotta del provocatore assume nel fatto commesso dal provocato nel quale viene suscitato un intento delittuoso prima inesistente“.
La medesima Sezione, con sentenza n. 20238 del 2014, riconosce la scriminante dell’adempimento di un dovere quando l’agente provocatore “non si inserisca con rilevanza causale nell’ “iter criminis” ma intervenga in modo indiretto e marginale” ; nel caso di specie, “anteriormente all’intervento della polizia giudiziaria, l’imputato aveva già consumato il reato“.
4. Confronti, osservazioni e conclusioni
Dall’esposizione di cui sopra, senza che essa abbia pretesa totalmente esaustiva, possono ricavarsi alcune osservazioni.
Sia la condotta dell’ agente provocatore che quella del concorrente, dal punto di vista oggettivo, forniscono un contributo causale al perpetrarsi dell’attività criminosa; tuttavia possono delinearsi degli elementi di specialità del primo: si verifica necessariamente sotto forma di “provocazione nel reato” (senza tuttavia rientrare nella fattispecie della non punibilità dell’ istigazione ex art. 115 c.p., in quanto in questo caso l’illecito si concretizza), è commessa da un soggetto qualificato (l’ufficiale di polizia) e soltanto in determinati momenti del procedimento penale (in sede di indagine).
Per quanto concerne la disciplina, sostanziale e processuale, inerente l’agente provocatore, essenzialmente essa si snoda sulle seguenti disposizioni:
la sua responsabilità penale ;
inutilizzabilità del materiale probatorio raccolto per suo tramite, ex art. 192 c.p.p. ;
specifico regime testimoniale, ex art. 210 c.p.p. ; e non applicabilità degli artt. 62 c.p.p. e 63 comma 2 c.p.p. .
Un elemento critico riguarda talune pronunce, che approfondiscono la nozione dell’istituto pur in mancanza di un elemento “preliminare”, vale a dire le condizioni ex lege, lacuna di per sé idonea a comportare una valutazione di illegittimità dell’attività considerata: per esempio, la già citata sentenza n. 20238/2014 procede nonostante affermi: “Essendo effettivamente insussistenti i presupposti richiesti dall’art. 97 legge stup. …” . E’ certamente apprezzabile l’interpretazione giurisprudenziale, anzi addirittura necessaria in assenza di norme definitorie generali e astratte; tuttavia, soprattutto in sede penale, i princìpi costituzionali di legalità, tassatività, conoscibilità del precetto e della sanzione da parte del cittadino, ma prima ancora quello di separazione dei poteri, impongono prudenza.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
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Lara Gallarati
Avvocato presso il Foro di Milano.
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