Indennità di accompagnamento, va riconosciuta anche a chi è affetto da patologie neurologiche
L’indennità di accompagnamento è una prestazione economica, prevista dall’art. 1 della legge n. 18/1980, erogata dall’INPS, in favore dei soggetti mutilati o invalidi totali per i quali è stata accertata l’impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore oppure l’incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita.
La Suprema Corte già nel 2014 (Cass. Civ., Sez. VI-L 27.11.2014, 25255) aveva chiarito che l’indennità di accompagnamento spetta anche in favore di coloro i quali, pur essendo materialmente capaci di compiere gli atti elementari della vita quotidiana (quali nutrirsi, vestirsi, provvedere alla pulizia personale, assumere con corretta posologia le medicine prescritte), necessitano della presenza costante di un accompagnatore in quanto, in ragione di gravi disturbi della sfera intellettiva, cognitiva o volitiva dovuti a forme avanzate di gravi stati patologici o a gravi carenze intellettive, non sono in grado di determinarsi autonomamente al compimento di tali atti nei tempi dovuti e con modi appropriati per salvaguardare la propria salute e la propria dignità personale senza porre in pericolo sé o gli altri.
Decisione importante, questa, anche perché spesso in contrasto con la prassi, a volte particolarmente restrittive, degli uffici amministrativi locali nonché con l’interpretazione di alcuni giudici di merito.
Nonostante l’orientamento ormai consolidato, per lungo tempo si è discusso e si continua a discutere sulla possibilità di riconoscere il diritto all’indennità di accompagnamento anche a chi fosse affetto da patologie neurologiche che, provocando infermità mentali con limitazioni dell’intelligenza, richiedono una assistenza giornaliera, ivi compresa quella farmacologica.
Sul punto è stata chiamata a rispondere recentemente la Suprema Corte (ordinanza n. 5032 del 15 marzo 2016 della Cass. Civ. Sez. Lav.), in relazione al caso di un soggetto affetto da oligofrenia, uno stato d’insufficienza mentale.
Il riconoscimento del diritto all’indennità di accompagnamento, dicono gli Ermellini, deve essere determinato in considerazione della capacità dell’assistito di compiere gli elementari atti giornalieri, da intendersi non solo in senso fisico, ma altresì come salvaguardia della condizione psico-fisica del soggetto.
Secondo l’orientamento della Suprema Corte, sembrerebbe che le condizioni previste dall’art. 1 della l. 18/1980 per l’attribuzione dell’indennità di accompagnamento consistano alternativamente nella impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore, oppure nella incapacità di compiere gli atti quotidiani della vita senza continua assistenza.
La situazione di non autosufficienza, che è alla base del riconoscimento del diritto in esame, è caratterizzata, pertanto, dalla permanenza dell’aiuto fornito dall’accompagnatore per la deambulazione, o dalla quotidianità degli atti che il soggetto non è in grado di svolgere autonomamente.
E’ la cadenza quotidiana che l’atto assume per la propria natura a determinare la permanenza del bisogno, che costituisce la ragione stessa del diritto.
Dunque, l’indennità spetta a coloro i quali non siano in grado di vivere da soli e compiere autonomamente gli atti quotidiani, anche i più semplici.
“L’indennità di accompagnamento, infatti, è prevista quale misura assistenziale diretta anche a sostenere il nucleo familiare e, pertanto, va riconosciuta, alla stregua dell’art. 1 della l. 18/1980, a coloro che, pur capaci di compiere materialmente gli atti elementari della vita quotidiana (quali il mangiare, il vestirsi, il pulirsi, ecc.), necessitano di un accompagnatore per versare – in ragione di gravi disturbi della sfera intellettiva e cognitiva addebitabili a forme avanzate di gravi stati patologici – nella incapacità di rendersi conto della portata dei singoli atti che vanno a compiere e dei modi e tempi in cui gli stessi debbano essere compiuti, di comprendere la rilevanza di condotte volte a migliorare – o, quanto meno, a stabilizzare o non aggravare – il proprio stato patologico (condotte volte ad osservare un giornaliero trattamento farmacologico), e di valutare la pericolosità di comportamenti suscettibili di arrecare danni a sé o ad altri”.
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Avv. Teresa Rullo
Iscritta all'albo degli Avvocati da febbraio 2016. Laureata in giurisprudenza nel marzo 2012 presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II, discutendo una tesi in diritto amministrativo dal titolo "La Conferenza dei Servizi", relatore Prof. Fiorenzo Liguori. Subito dopo la laurea, nel 2012, ha iniziato la pratica forense presso uno studio legale specializzato in diritto civile. Nel dicembre 2013 ha iniziato a collaborare con un altro studio legale multidisciplinare di medie dimensioni occupandosi, prevalentemente, del contenzioso civile.
negli anni 2015 e 2016 ha seguito il Corso di Perfezionamento in Alti Studi Politici presso l'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, conseguendo l'attestato finale.
Attualmente svolge autonomamente la professione di Avvocato e collabora saltuariamente con uno studio legale operante sia nel settore civile che penale.
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