Induzione alla prostituzione e web: possibili nuove manifestazioni del reato
Il presente elaborato ha ad oggetto l’analisi della liceità o meno della creazione di un sito web, per scopi commerciali, diretto ad organizzare attività d’incontri conoscitivi tra persone, al fine di far intrattenere loro relazioni sentimentali, anche sessuali, di breve o lunga durata e l’analisi della liceità di una campagna pubblicitaria diretta alla promozione di tale attività.
La fattispecie de qua suscita rilevanti problemi giuridici in ordine alla sua liceità per il fatto di essere un’attività confinante con altre che hanno una rilevanza penale. Nella specie, si fa riferimento, da un lato, all’induzione, allo sfruttamento e al favoreggiamento della prostituzione, illeciti regolati dalla legge n.75 del 1958 (c.d. legge Merlin), e dall’altro, agli artt. 528, co. 1 (pubblicazioni e spettacoli osceni) e 529, co. 1 (atti e oggetti osceni: nozione) del codice penale. Pertanto, come si cercherà di spiegare nel prosieguo, l’esercizio di una tale attività e la sua pubblicizzazione risulteranno lecite soltanto ove si circoscrivano i confini oltre i quali queste non dovranno estendersi, pena la rilevanza penale della condotta.
Quanto alla legge n. 75 del 1958, non viene vietato l’esercizio della prostituzione in sé, ma l’induzione, il favoreggiamento e lo sfruttamento, da parte di terzi, di essa. L’orientamento giurisprudenziale dominante, qui rappresentato dalla sentenza della Corte di Cassazione del 31 luglio 2013 n. 3316, ritiene che: “la prostituzione per se stessa non è prevista come reato, mentre è penalmente sanzionata ogni attività che induca, favorisca o sfrutti la prostituzione altrui, giacché il legislatore è mosso dallo scopo evidente di evitare che il mercimonio del sesso (penalmente irrilevante, ma socialmente riprovevole) sia comunque incentivato o agevolato da interessi o da comportamenti di terzi”. Dunque, la fattispecie in esame del presente elaborato potrebbe essere sussunta in una delle seguenti disposizioni normative di rilevanza penale previste dall’art. 3 della legge n. 75/58; infatti, è responsabile penalmente: “4) chiunque recluti una persona al fine di farle esercitare la prostituzione, o ne agevoli a tal fine la prostituzione; 5) chiunque induca alla prostituzione una donna di età maggiore, o compia atti di lenocinio, sia personalmente in luoghi pubblici o aperti al pubblico, sia a mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità; 7) chiunque esplichi un’attività in associazioni ed organizzazioni nazionali ed estere dedite al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione od allo sfruttamento della prostituzione, ovvero in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo agevoli o favorisca l’azione o gli scopi delle predette associazioni od organizzazioni; 8) chiunque in qualsiasi modo favorisca o sfrutti la prostituzione altrui”.
Tali illeciti penali sono puniti con la pena della reclusione da due a sei anni e con una multa da euro 250 a euro 10.000. Inoltre, in caso di condanna, ai sensi dell’art. 240 c.p., il giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto.
Bisogna, inoltre, precisare che la pena prevista viene raddoppiata nel caso in cui il fatto è commesso ai danni di una persona minore degli anni 21 o di persona in stato di infermità o minoranza psichica; nonché nel caso in cui il fatto è commesso ai danni di più persone.
Dunque, letta la predetta disciplina, si deduce che l’attività di organizzazione e pubblicizzazione di incontri tra persone, diretta a far intrattenere relazioni sessuali, non deve mai concretizzarsi in un servizio diretto a procacciare, per altri, prestazioni sessuali, dietro il corrispettivo di una somma di denaro o altra utilità. Se, al contrario, si sviluppasse un sito web di incontri sessuali, fondato sulle prestazioni di terzi soggetti, si indurrebbe questi alla prostituzione mediante mezzi di pubblicità e si sfrutterebbe e favorirebbe l’attività di prostituzione altrui (punti nn. 5 e 8 dell’art. 3 legge n. 75/58). Ma nel prosieguo si ritornerà sul punto.
Per quanto riguarda l’art. 528, co. 1 c.p., invece, si punisce con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000 “chiunque, allo scopo di farne commercio o distribuzione ovvero di esporli pubblicamente, fabbrica, introduce nel territorio dello Stato, acquista, detiene, esporta, ovvero mette in circolazione scritti, disegni, immagini od altri oggetti osceni di qualsiasi specie”. Si tratta di una disposizione il cui contenuto normativo va letto in combinato disposto con l’art. 529, co. 1, c.p. che definisce cosa deve intendersi per osceno: “si considerano osceni gli atti e gli oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore”.
Il comune modo di sentire, ai fini del concetto di osceno, va determinato non in base alla sensibilità di quei cittadini che attribuiscono scarso rilievo ai valori morali e spirituali, ma in relazione a quella dei consociati di normale levatura morale, intellettuale e sociale. Il concetto di atto osceno che, secondo il comune sentimento, offende il pudore è sicuramente mutevole nel tempo in relazione al contesto sociale e culturale del Paese in un dato momento storico. Pertanto non ogni atto od oggetto che possa alludere all’attività sessuale debba considerarsi osceno a tal punto da ledere il comune sentimento del pudore. Infatti, secondo una pur non recentissima pronuncia (sent. n.1780/86): “il commercio di materiale osceno” – e quindi la sua pubblicità – “purché realizzato con particolari modalità di riservatezza e di cautela nei confronti di acquirenti adulti, non integra il reato di cui all’art. 528 c.p.”.
A ciò si aggiunga che l’art. 21 Cost. tutela il buon costume, vietando le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie ad esso. Quest’ultimo, oggi, non viene più inteso come “morale media” o “etica comune” di gruppo. Escluso ogni riferimento alla sfera della morale, la nozione costituzionale di buon costume va ricondotta ad un insieme di «regole di convivenza e di comportamento che devono essere osservate in una società civile» (Corte Cost. n. 9/ 1996). Il buon costume risulta, dunque, da un insieme di precetti che impongono un determinato comportamento nella vita sociale di relazione.
La fattispecie de qua, per la complessità delle questioni che essa suscita, deve, quindi, misurarsi con tali arresti giurisprudenziali, ormai patrimonio consolidato della cultura giuridica e può considerarsi lecita soltanto ove circoscritta e condotta nel rispetto delle norme testé menzionate.
L’esercizio di una campagna pubblicitaria diretta alla promozione di incontri conoscitivi tra persone, al fine di far intrattenere loro relazioni sentimentali non deve essere condotto con delle modalità che si prestano all’offesa del buon costume e, quindi, del pudore altrui. Si intende dire che immagini esplicite che esprimono comportamenti sessuali, di certo, integrerebbero gli estremi della fattispecie penale. Infatti, come statuito dalla sentenza n.520 del 1981 della Corte di Cassazione: “un’opera, il cui contenuto è caratterizzato, da un esasperato o quasi ossessivo pansessualismo fine a sé stesso, in quanto diretto a sollecitare deteriori istinti della libidine con rappresentazioni crudamente veristiche di amplessi, con descrizioni, scene ed esposizioni di nudità, non può non essere considerata oscena, in quanto gravemente offensiva del comune sentimento del pudore, di quella particolare sensibilità e riservatezza, che, ancor oggi, nonostante l’evoluzione dei costumi, circonda cose od atti attinenti alla vita sessuale”. Al contrario forme di pubblicità non caratterizzate da scene di nudo, né da esasperato descrizioni a carattere sessuali sono considerate rispettose del comune senso del pudore e di conseguenza lecite.
Inoltre, onde evitare che la fattispecie in esame integri gli estremi dell’induzione, del favoreggiamento e dello sfruttamento della prostituzione, il servizio erogato alla clientela deve concentrarsi, piuttosto, nell’organizzare incontri soltanto conoscitivi tra persone che, consensualmente, decidano di averli. Trattandosi di un reato a forma libera, viene punito infatti chiunque “in qualsiasi modo” favorisca o sfrutti l’attività di prostituzione altrui. Secondo la giurisprudenza “il favoreggiamento della prostituzione si concretizza in qualunque attività idonea e consapevolmente volta a procurare favorevoli condizioni per l’esercizio della prostituzione.” (Cass. pen., sez. III, 20 novembre 2013, n. 6373).
La giurisprudenza sembra favorevole ad una lettura restrittiva delle norme, ricomprendendo nel novero delle condotte agevolative tutte quelle che sono “concretamente idonee a garantire un apporto o un servizio alla prostituta non facilmente ottenibile dalla medesima. Deve quindi trattarsi di un aiuto oggettivo all’esercizio del meretricio e non di un favore alla persona della prostituta” (Cass. pen., sez. III, 19 novembre 2014, n. 44918). Dunque, soltanto il “favore” all’esercizio del meretricio costituisce una condotta scevra di rilevanza penale. E non potendosi qualificare come semplice “favore” l’organizzazione di un incontro tra persone per delle finalità sessuali, ma costituendo, a tutti gli effetti, attività di oggettivo ausilio alla prostituzione, l’inventore del sito web deve totalmente disinteressarsi della finalità sessuale e concretarsi su quella conoscitiva.
Del resto, il soggetto che, consensualmente, aderisce agli incontri organizzati, esercita il diritto alla vita privata, riconosciuto a livello internazionale dall’art. 8 Convenzione Europea dei Diritti Umani, cui l’Italia è tenuta a rispettare in quanto Membro aderente ad essa.
A ciò si aggiunga che, quand’anche il soggetto decida di fruire di tale servizio organizzato per intraprendere una relazione sessuale, condotta da lui privatamente, esercita un proprio diritto costituzionalmente tutelato. Infatti, come stabilito dalla sentenza n. 561 del 1987 della Corte Costituzionale: “la sessualità è uno degli essenziali modi di espressione della persona umana e il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione e inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire”.
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Salvatore Casarrubea
Laureato in Giurisprudenza con 110, lode e mensione alla tesi. Attualmente è Iscritto all'ordine dei praticanti avvocati di Palermo e collabora con lo studio Legale Perrino&Associati e con lo studio Legale Casarrubia.
Mail: salvocasarrubea@gmail.com
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