Interazioni tra malattia del lavoratore e permanenza del rapporto lavorativo
Sommario
Introduzione.
Capitolo I – La malattia nel rapporto di lavoro: 1.1 Il principio di tutela della salute e la nozione di malattia – 1.1.1 L’incapacità lavorativa come condizione di rilevanza giuridica della malattia – 1.1.2 La tipologia delle situazioni giuridicamente rilevanti come malattia – 1.2 Adempimenti a carico del lavoratore in malattia: gli obblighi di comunicazione e di certificazione – 1.2.1 L’obbligo di reperibilità ed il controllo dello stato di malattia – 1.2.2 Segue: La sindacabilità datoriale della certificazione medica – 1.3 Effetti della malattia sul rapporto di lavoro: la sospensione della prestazione lavorativa – 1.3.1 Il diritto del lavoratore assente per malattia alla conservazione del posto – 1.3.2 Il trattamento economico: il diritto alla retribuzione o all’indennità di malattia – 1.3.3 Effetti della malattia sulla maturazione dell’anzianità di servizio.
Capitolo II – Malattia e licenziamento: – 2.1 Licenziamento. Inquadramento giuridico – 2.2 Le fonti per la determinazione del periodo di comporto – 2.2.1 Segue: la normativa speciale per i lavoratori affetti da tubercolosi – 2.2.2 Il comporto secco e per sommatoria – 2.2.3 Questioni inerenti al computo del periodo di comporto – 2.2.4 Il calcolo del periodo di comporto nell’ipotesi di malattia provocata dal datore di lavoro – 2.3 L’«eccessiva morbilità» come giustificato motivo obiettivo di recesso – 2.3.1 L’intervento delle Sezioni Unite sull’art. 2110 c.c. e il giudizio di equità – 2.3.2 Segue: contratto collettivo e giudizio di equità – 2.3.3 La natura del giudizio di equità ed il termine «interno» del comporto per sommatoria – 2.3.4 Il termine «esterno» del comporto per sommatoria – 2.4 Licenziamento intimato durante il c.d. periodo di comporto – 2.4.1 Segue: La questione della malattia irreversibile – 2.5 Il licenziamento per superamento del comporto.
Capitolo III – Malattia e sicurezza: 3.1 L’obbligo di sicurezza alla luce dei principi costituzionali: il diritto all’integrità fisica – 3.1.1 «Personalità morale» e dignità della persona – 3.2 Le fonti dell’obbligo di sicurezza – 3.3 Norma generale e norme speciali: titolarità, ambito di applicazione e contenuto dell’obbligo di sicurezza – 3.4 La natura dell’obbligo di sicurezza – 3.5 Il contenuto dell’obbligo di sicurezza nell’interazione fra norma generale e d.lgs. n. 81/2008 – 3.6 L’azione di adempimento dell’obbligo di sicurezza
Conclusioni
Bibliografia
Introduzione
L’espressione «sospensione del rapporto di lavoro» identifica un particolare effetto che consegue al verificarsi di una molteplicità di eventi, tipizzati dalla legge o dalla contrattazione (collettiva o individuale) e variamente gravanti sulle parti del rapporto medesimo, tali da rendere impossibile o da ostacolare lo svolgimento della prestazione lavorativa. La «malattia» costituisce la più tipica causa sospensiva del rapporto di lavoro. Quest’ultima, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), è soggetta alle regole dettate dall’art. 2110 cod. civ., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali.
In primo luogo si affronteranno due questioni riguardo la malattia del lavoratore: a quali condizioni essa rilevi e in quale modo e con quali effetti agisca sul rapporto di lavoro.
Lo studio sulla rilevanza della malattia nel rapporto di lavoro avrà come punto di partenza la trattazione della tutela della salute del lavoratore subordinato. Delineati i confini del concetto di salute, si passerà a definire la malattia sul piano della scienza medica, ciò è reso necessario anche dalla mancanza di una definizione legislativa di malattia. Dalla definizione di malattia in campo medico si potrà ricavare quella giuridica, il cui valore decisivo è costituito dall’incapacità lavorativa. Una volta individuata la nozione di malattia, si distinguerà quest’ultima dall’invalidità e dall’inidoneità, di cui saranno analizzate le diverse conseguenze.
In seguito si procederà alla disamina della tipologia delle situazioni giuridicamente rilevanti come malattia, individuando le diverse caratteristiche presenti nelle molteplici ipotesi che giustificano l’assenza dal lavoro.
L’analisi proseguirà con l’indagine delle norme legali e contrattuali che impongono al lavoratore in malattia una serie di adempimenti, finalizzate a far sì che il datore di lavoro e l’INPS possano verificare la veridicità del motivo posto alla base dell’assenza e la sua incidenza sull’idoneità al lavoro. Nell’esaminare gli obblighi di comunicazione e certificazione a carico del lavoratore si indicherà l’ampiezza della facoltà del datore di lavoro di sindacare la certificazione medica.
Seguirà un’attenta valutazione degli effetti della malattia sul rapporto di lavoro, che possono riassumersi nella sospensione dello stesso, nell’assenza giustificata del lavoratore, nel divieto di licenziamento da parte del datore di lavoro, nella decorrenza dell’anzianità di servizio e nel diritto del lavoratore a percepire un determinato trattamento economico.
Riguardo al divieto di licenziamento da parte del datore di lavoro durante la malattia del lavoratore, si porrà l’attenzione sul periodo di tempo, cosiddetto di comporto, in cui lo stesso è operante.
Nell’esame delle fonti che determinano tale periodo, si tratterà anche della normativa speciale in favore dei lavoratori affetti da tubercolosi. Si distinguerà tra i due tipi di comporto presenti nel nostro ordinamento, ovvero secco e per sommatoria, e verranno indicate le regole per il calcolo dello stesso. Rispetto alle malattie plurime e frazionate, cosiddetta eccessiva morbilità, si prenderà in considerazione l’intervento delle Sezioni Unite per dirimere il contrasto sorto tra chi sosteneva la tesi del giustificato motivo obiettivo di recesso e chi affermava l’applicabilità delle clausole del comporto secco. Alla luce del risultato cui è pervenuta la Corte di Cassazione, si indicherà il modo in cui può intervenire il giudice in assenza di clausole di sommatoria.
Una volta inquadrata la fattispecie della malattia nel rapporto di lavoro si passerà a osservare le relazioni della stessa con il licenziamento. Si inizierà analizzando il licenziamento intimato durante il c.d. periodo di comporto, distinguendo i casi in cui è nullo da quelli in cui lo stesso deve considerarsi temporaneamente inefficace.
In seguito si osserverà il caso dell’infermità di carattere permanente, implicante un’incapacità definitiva alle mansioni di assegnazione, la quale integra un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in mancanza di un apprezzabile interesse del datore di lavoro alle future e ridotte prestazioni lavorative del dipendente.
Per quanto riguarda il licenziamento per superamento del comporto verranno trattati diversi aspetti: si esaminerà il regime sostanziale di tale tipo di recesso del datore di lavoro, si indagherà se è necessaria una dichiarazione formale di recesso per determinare la risoluzione del rapporto e se debba o meno essere dato il preavviso. Inoltre si verificherà se il legittimo esercizio della facoltà di recesso presupponga che il dipendente malato continui ad essere assente dal servizio o se invece esso possa aversi dopo il superamento del comporto, malgrado la intervenuta ripresa del lavoro da parte del dipendente.
Infine, lo studio rifletterà sulla relazione tra la malattia e la sicurezza, nello specifico saranno esaminati gli obblighi a carico del datore di lavoro per garantire l’integrità psicofisica del lavoratore.
Degli stessi sarà preso in considerazione il tessuto normativo su cui si fondano, questo è reso particolarmente complesso dalla loro presenza in una pluralità di fonti concorrenti che vanno dall’art. 2087 cod. civ. alla legislazione speciale prevenzionistica degli anni cinquanta, dalla legislazione di derivazione comunitaria fino alle competenze del legislatore regionale in materia di «tutela e sicurezza del lavoro». L’ultimo intervento in materia del legislatore è stato con il d.lgs. 81/2008, che ha la finalità di riordinare e coordinare le norme vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro in un «unico testo».
La prime questioni che emergono dalle norme speciali del decreto e che saranno oggetto d’esame riguardano la titolarità e l’ambito di applicazione degli obblighi di sicurezza.
Lo studio proseguirà con una riflessione sulla natura del dovere di sicurezza, quale configurato dalle norme costituzionali e soprattutto dall’art. 2087 cod. civ.
In merito alla qualificazione giuridica delle situazioni soggettive derivanti dall’art. 2087 c.c., l’analisi si concentrerà sui diversi orientamenti della dottrina giuslavoristica, principalmente riconducibili da un lato alle tesi c.d. «contrattualistiche», dall’altro a quelle extracontrattuali.
Nel prosieguo della trattazione si individuerà il contenuto dell’obbligo di sicurezza così come risultante dall’interazione tra norma generale e d.lgs. 81/2008. Si indicherà come debbono essere interpretati i tre criteri della particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica sanciti dall’art. 2087 cod. civ. per individuare le misure necessarie per tutelare la salute del lavoratore.
In conclusione si tratteranno le concrete modalità attraverso le quali l’obbligo di sicurezza deve trovare attuazione e si osserverà quali rimedi sono stati predisposti dall’ordinamento per garantire al lavoratore la soddisfazione del diritto alla salute e alla personalità morale.
Capitolo I
La malattia nel rapporto di lavoro
Sommario: 1.1 Il principio di tutela della salute e la nozione di malattia – 1.1.1 L’incapacità lavorativa come condizione di rilevanza giuridica della malattia – 1.1.2 La tipologia delle situazioni giuridicamente rilevanti come malattia – 1.2 Adempimenti a carico del lavoratore in malattia: gli obblighi di comunicazione e di certificazione – 1.2.1 L’obbligo di reperibilità ed il controllo dello stato di malattia – 1.2.2 Segue: La sindacabilità datoriale della certificazione medica – 1.3 Effetti della malattia sul rapporto di lavoro: la sospensione della prestazione lavorativa – 1.3.1 Il diritto del lavoratore assente per malattia alla conservazione del posto – 1.3.2 Il trattamento economico: il diritto alla retribuzione o all’indennità di malattia – 1.3.3 Effetti della malattia sulla maturazione dell’anzianità di servizio.
1.1 Il principio di tutela della salute e la nozione di malattia
Uno studio sulla rilevanza della malattia nel rapporto di lavoro richiede alcune iniziali precisazioni terminologiche, finalizzate ad inquadrare il complesso contesto in cui si collocano circoscritti problemi inerenti la nozione di malattia. Detta complessità discende dal fatto che siamo di fronte ad un settore in movimento del nostro ordinamento giuridico[1].
Un esame della nozione di malattia non può prescindere da una trattazione della tutela della salute del lavoratore subordinato, che trova il suo referente generale nell’art. 32 della Costituzione[2].
La rilevanza anche storica del tema in discussione è data dal conflitto che viene a porsi fra un’istanza di carattere fondamentalmente produttivistico ed una rivendicazione attinente alla «qualità» della vita, quale è quella di protezione della salute individuale e collettiva, specie se intesa in una vasta accezione[3].
Il principio enunciato dal primo comma dell’art. 32 della Costituzione comportava potenzialmente il superamento della concezione «pubblicistica» della tutela della salute, che assegnava allo Stato il solo compito «negativo» di proteggere l’igiene pubblica, al fine precipuo di garantire l’ordine pubblico ed assicurare il regolare funzionamento dell’organismo sociale[4], ma non anche quello «positivo» di attivarsi per una più completa realizzazione di condizioni di benessere per i cittadini[5].
Affinché si determinasse un rinnovamento culturale su questo tema, era necessario che si prendesse consapevolezza dello stretto collegamento esistente fra il valore della salute ed i principi fondamentali della Costituzione[6]. Fu questo un merito di Costantino Mortati, allorché ebbe a ricordare che lo Stato deve guardare «(al)la protezione e (al)lo sviluppo della personalità dei singoli, non solo nel senso negativo della sua preservazione da ogni attentato da parte di altri, ma in quello positivo dell’esigenza di predisporre le condizioni favorevoli al suo pieno svolgimento. Ed è ovvio come fra tali condizioni debba necessariamente, ed in via primaria, rientrare la salute»[7]. In questo modo la tematica della tutela della salute veniva inserita nel più vasto principio di tutela della persona ed agganciato al tema fondamentale della garanzia «positiva» dei diritti di libertà o, più in generale, della personalità[8]. Questa ridefinizione delle funzioni «pubbliche» in materia presupponeva implicitamente un’evoluzione del concetto di «salute», non più limitato in negativo alla mera assenza di stati patologici magari intesi come fonte di pericolo sociale, ma esteso in positivo alla creazione delle condizioni di fatto idonee a realizzare una situazione di benessere complessivo nello stato psico-fisico di ogni soggetto[9].
Contestualmente, maturava la consapevolezza circa il carattere complesso della situazione soggettiva istituita dalla norma costituzionale, nella quale assumono rilievo pretese a dati comportamenti pubblici, accanto ad altre pretese di astensione e quindi di libertà, tutelabili sia nei confronti dello Stato che di qualunque terzo[10]. Queste due manifestazioni del diritto alla salute corrispondono alla sua doppia anima pubblicistica e privatistica[11]. Nella prima il diritto alla salute si è andato profilando come fondamentale diritto sociale[12], rivolto verso lo Stato ed avente ad oggetto, in primis, la realizzazione di adeguate e non costose strutture pubbliche sanitarie[13].
Alla seconda si lega tutta la più recente ed innovativa evoluzione dottrinale e, in parte, normativa e giurisprudenziale. Essa si è concretata soprattutto nel superamento, quantomeno teorico, di vecchie prospettazioni, che postulavano una rilevanza esclusivamente pubblicistica del diritto pubblico soggettivo[14]. Gradualmente si è affermata l’idea che dall’art. 32 Cost. derivi anche un puntuale riconoscimento giuridico del bene della salute, e pertanto l’attribuzione ad ogni individuo di un diritto tutelabile erga omnes[15], che autorizza a pretendere dai consociati la cessazione o la modificazione (anche preventiva) di ogni attività illecitamente interferente con esso, in quanto anche solo potenzialmente lesiva[16]. La novità è stata rappresentata sia dalla ormai incondizionata assunzione nell’universo giuridico del diritto alla salute come fondamentale diritto della personalità[17], superando la prospettiva tradizionale che lo vedeva circoscritto alla mera integrità fisica e psichica dell’organismo[18], sia soprattutto dal fatto che si è mirato programmaticamente a trarre dal suddetto principio tutte le sue possibili implicazioni, creando le condizioni perché esso potesse effettivamente calarsi, con piena efficacia giuridica, nella realtà dei rapporti interprivati[19]. Ciò a sua volta è avvenuto nel quadro della più vasta tendenza verso la penetrazione dei diritti fondamentali all’interno dei rapporti sociali ed in particolare delle formazioni sociali[20].
Le osservazioni svolte hanno chiarito che la nozione di malattia si trova intrecciata con altre entità in una rete di reciproche relazioni al vertice delle quali si trova, come idea e/o valore fondante, il principio di tutela della salute[21]. È dall’identificazione della nozione di quest’ultimo, pertanto, che bisogna partire per poter scendere successivamente all’interno del rapporto di lavoro. Per quanto riguarda l’ambito lavoristico, oltretutto, la necessità di far leva sul principio di tutela della salute e sugli altri principi costituzionali con i quali esso è intrecciato, è accresciuta dalla mancanza di una definizione legislativa di malattia, che favorisce un collegamento più diretto fra i valori costituzionali, utilizzati anche come canoni di interpretazione, ed il diritto positivo[22].
È difficile formulare una definizione del concetto di salute in senso giuridico, dato che si tratta di una nozione essenzialmente legata all’area della scienza medica e che anche all’interno di quest’ultima esistono voci discordi. Una prima definizione possibile è quella di salute come assenza di malattia, ma essendo articolata solo in termini negativi risulta insufficiente[23]. Vi sono anche definizioni collegate esclusivamente alla condizione bio-fisiologica dell’uomo, che parlano di salute come «stato anatomico-fisiologico corrispondente, in atto o in potenza, ad un essere naturalmente normale»[24]. Di gran lunga più diffuso è un terzo ordine di definizioni, che si caratterizza per il fatto di tener conto del rapporto di stretta integrazione fra l’uomo e l’ambiente naturale e sociale nel quale egli vive, e quindi di concepire i suoi bisogni anche in dipendenza di diverse variabili sociali[25].
Una volta acquisito che il concetto di salute non si esaurisce in una mera assenza di malattia, occorre passare a definire quest’ultima, anzitutto sul piano della scienza medica, della quale, nella materia trattata, il diritto è evidentemente tributario. Una nozione largamente accettata è quella che definisce la malattia «come quel complesso di alterazioni morfologiche e/o funzionali di una o più parti di un organismo, o dell’organismo in toto, prodotto da una causa interna o esterna e accompagnato da fenomeni reattivi messi in opera dall’organismo colpito»[26].
Più semplicemente si può considerare la malattia come il risultato di ogni alterazione dell’integrità anatomica e/o dell’equilibrio funzionale dell’organismo[27].
Bisogna tener presente che vi sono numerosi criteri di classificazione delle malattie, in relazione alle cause patogene od al processo patologico che risulta prevalente, o in base all’organo o apparato del sistema che risulta particolarmente colpito. Le distinzioni principali possono ritenersi tre. Una è quella fra malattie organiche e malattie funzionali, intendendosi con le prime quelle affezioni che presentano manifeste alterazioni morfologiche e con le seconde quelle che mostrano un complesso di funzioni più o meno perturbate[28]. Tale distinzione va progressivamente sfumando nella moderna medicina, in quanto il perfezionamento delle tecniche diagnostiche ha permesso di evidenziare la presenza di anomalie strutturali anche nelle malattie definite funzionali[29]. Un’altra nota distinzione è fra malattia acuta, che è caratterizzata da una sintomatologia violenta e da un esito in guarigione, cronicità o morte dopo un periodo evolutivo relativamente breve, e la malattia cronica, che è contrassegnata da un lungo decorso con alterne variazioni della sintomatologia e con esito a volte in guarigione[30]. Una terza distinzione, infine, è fra malattia somatica, che è riferita alla compagine fisica dell’uomo, e malattia psichica, che consiste in ogni condizione morbosa o abnorme della sfera intellettiva[31].
1.1.1 L’incapacità lavorativa come condizione di rilevanza giuridica della malattia
Se la scienza medica tende a considerare principalmente l’incidenza dell’evento invalidante sullo stato di salute, il valore decisivo ai fini della rilevanza giuridica della malattia sulla materia giuslavoristica è rappresentato dell’incapacità lavorativa[32]. Quest’ultima espressione si impiega come concetto relazionale che, concernendo il rapporto lavoratore/lavoro, esprime il venire meno di condizioni a cui è subordinato lo svolgimento dell’attività lavorativa[33].
L’utilità di questo schema deriva dal contenere il riferimento a due termini, individuabili, da un lato, nella persona del prestatore di lavoro e, dall’altro, nel suo lavoro. È importante guardare alla specifica mansione svolta dal lavoratore affetto da malattia, al fine di accertare se quest’ultima sia produttiva di conseguenze tali da compromettere lo svolgimento della prestazione lavorativa. Malattia che, se considerata in relazione a lavoratori addetti ad altre mansioni, potrebbe risultare non rilevante[34]. Ed ecco dunque che la nozione di malattia in senso medico e in senso giuslavoristico (nell’ottica dell’incidenza sullo svolgimento del rapporto) si divaricano profondamente.
Aver presente il tipo di lavoro esercitato, e più in generale l’ambiente di lavoro, risulta importante anche perché consente di cogliere la controindicazione dell’impiego lavorativo rispetto alla malattia in atto[35]. L’anamnesi professionale può, inoltre, favorire la stessa diagnosi della malattia, essendo per il medico “di speciale importanza conoscere l’attività professionale del suo paziente: solo allora egli sarà in grado di riconoscere una possibile correlazione tra i disturbi, la diagnosi e la particolarità dell’attività lavorativa”[36].
Alla luce di queste considerazioni, si spiega agevolmente l’esigenza di instaurare un confronto del “(…) quadro patologico manifestato dal lavoratore con il tipo di prestazione al cui adempimento il lavoratore è tenuto”[37]. Senonché mancano a tutt’oggi strumenti che consentano al medico di conoscere adeguatamente il secondo termine del suo giudizio[38].
L’espressione incapacità lavorativa è sufficientemente elastica, incidendo sulla rilevanza della malattia anche esigenze di cura dell’infermità. Il lavoratore in malattia, benché al momento considerato possa conservare la possibilità materiale di lavorare, potrà dirsi incapace al lavoro, al pari del lavoratore che a causa della malattia non conservi neanche questa possibilità. L’incapacità allude, infatti, ad un confronto fra stato psico-fisico del prestatore di lavoro e impegno lavorativo[39].
È utile precisare che la sussistenza o meno di un impedimento deve essere valutata non avendo riguardo ad una condizione estrema di assoluta impossibilità fisica, bensì al livello ragionevole di prestazione che può richiedersi all’uomo medio. È sufficiente un disturbo pur comunemente ritenuto come lieve, o anche un’apprezzabile difficoltà della prestazione conseguente ad una condizione di dolore fisico o psichico, per far dichiarare quel soggetto malato[40].
Non si può chiedere, infatti, al soggetto di sopportare una sofferenza, ovviamente se apprezzabile, pur di lavorare per altri; questo all’imprescindibile condizione che quell’affezione, o disturbo, o stato di dolore, vengano a creare un concreto rischio di aggravamento, o acutizzazione, o inasprimento, a causa della continuazione del lavoro da parte del soggetto[41].
Definita l’incapacità al lavoro vanno distinte da quest’ultima l’inidoneità, l’inabilità e l’invalidità. L’inidoneità è legata ad un giudizio medico legale nell’ambito del rapporto di lavoro, che implica la correlazione tra malattia e le caratteristiche del lavoro espletato dal soggetto[42]. All’interno di quest’ultimo giudizio rileva l’idoneità al lavoro e non la capacità di lavoro, perché: a) è idoneo al lavoro colui il quale, impegnandosi in esso, non ne ricava danni alla salute, pur compromessa dalla malattia in atto; b) è inidoneo al lavoro il prestatore che sia sì capace di svolgere la prestazione, ma sottoponendosi a sforzi eccessivi e logoranti e, quindi, ad usura, con il rischio di pregiudicare irrimediabilmente le sue residue energie psicofisiche[43].
Si definiscono, invece, “invalidi” coloro che a causa di menomazioni fisiche o sensoriali non possono svolgere regolare attività lavorativa. L’invalidità è riconosciuta al lavoratore che abbia subito, a causa di un’infermità fisica o mentale, una riduzione permanente a meno di un terzo della capacità di lavoro[44]. Infine con inabilità si definisce l’incapacità assoluta e permanente di svolgere qualsiasi attività lavorativa.
Le conseguenze dell’invalidità e dell’inabilità sono differenti. Per la prima è previsto un assegno di invalidità, che non è una prestazione definitiva, ma temporanea, in quanto ha una durata triennale ed è rinnovabile, previa conferma dell’INPS e dopo tre rinnovi diventa definitiva. Per l’inabilità, invece, è prevista una pensione per i casi più gravi, ovvero di incapacità assoluta e permanente di svolgere qualsiasi attività lavorativa. La pensione è riconosciuta se cessa il rapporto di lavoro e ogni attività ed è attribuita in modo definitivo, almeno fino a quando permane la condizione di incapacità al lavoro[45].
1.1.2 La tipologia delle situazioni giuridicamente rilevanti come malattia
Nel procedere all’articolazione di una tipologia di situazioni interne alla categoria della malattia va sottolineato come per alcune la loro rilevanza giuridica sia scontata, mentre per altre non lo è: sono i casi di “confine” e i casi “nuovi”[46]. Quanto più la medicina è in grado di evidenziare fasi iniziali di alterazioni patologiche, tanto più si pone l’esigenza di decidere della rilevanza di una molteplicità di casi in relazione alle prospettive di evoluzione della condizione in atto[47]. Rispetto a questi casi è necessario considerare tutte le componenti del giudizio di rilevanza della malattia[48].
La prima di queste riguarda la necessità di una base di alterazione patologica, rilevata secondo criteri medici, la quale costituisce l’elemento che accomuna le varie ipotesi e da cui possono derivare diverse conseguenze. Fra queste, assumono rilievo quelle che rendono materialmente impossibile al lavoratore in malattia lo svolgimento dell’attività esercitata in condizioni di normalità e che hanno la capacità di sospendere il rapporto di lavoro[49]. Ma l’eventualità che nel decorso della malattia venga meno l’impossibilità fisica della prestazione lavorativa non significa che, in tale momento, si esauriscano necessariamente i presupposti della sospensione. Proprio perché lo stato di alterazione persiste alla remissione delle conseguenze più gravi, la rilevanza della malattia è in grado di travalicare il momento in cui, secondo un criterio naturalistico, la prestazione diviene di nuovo possibile[50]. Le esigenze di salvaguardia della persona consentono la protrazione della rilevanza della malattia. Questa, anzi, nelle ipotesi di questo tipo può abbracciare anche periodi di convalescenza, in cui si tratta di consolidare l’avvenuta guarigione (e, quindi, la oramai avvenuta fuoriuscita dallo stato patologico)[51].
Un secondo tipo di situazioni patologiche si individua in quelle in cui, non risultando la prestazione materialmente impossibile nemmeno all’inizio, l’astensione dal lavoro risulta prescritta come uno dei fattori terapeutici o quanto meno come condizione idonea a rendere più efficace la cura della malattia. Se il lavoratore prestasse la sua opera, il suo stato sarebbe esposto al rischio di un peggioramento a causa dell’evoluzione della malattia determinata dal protrarsi dell’impegno lavorativo. Da questa controindicazione del lavoro la necessità di sospenderlo[52]. Avendo presente l’insieme di elementi da valutare, all’ammissione di tale necessità si perverrà, quindi, solo se la malattia è in sé apprezzabile. Inoltre, la malattia deve essere suscettibile, secondo una ragionevole probabilità diagnostica, di aggravamenti e/o complicazioni per riflesso della protrazione dell’impegno lavorativo, aggravamenti e/o complicazioni il cui allontanamento dall’ambiente di lavoro abbia una efficacia per la salvaguardia dell’integrità della persona del prestatore di lavoro[53].
Vi è poi una terza area di ipotesi, di cui occorre tener conto. Nonostante la malattia, il lavoratore potrebbe rendere la prestazione, da un punto di visita materiale. Il lavoro potrebbe anche non essere di per sé controindicato rispetto alla particolare malattia in atto, ma ciò nonostante potrebbe essere incompatibile con il lavoro la particolare cura richiesta dalla malattia. Nell’ambito di quest’area si può pensare a situazioni in cui la terapia praticata produce effetti sulla persona del lavoratore, che portano questa in una condizione in cui risulta controindicato o addirittura materialmente impossibile lo svolgimento dell’attività lavorativa. Essendo impensabile che il lavoratore debba per questo rinunciare alla cura della sua malattia, questa specie di situazioni rientra tra quelle rilevanti ai fini della sospensione del rapporto di lavoro[54].
Rispetto alle ipotesi enucleate in precedenza due sono le sequenze logiche in grado di condurre all’incapacità al lavoro, le quali si atteggiano in modo diverso. Una prima sequenza valuta lo stato della persona, considera il lavoro specifico dalla stessa esercitato e arriva, se del caso, alla conclusione dell’incompatibilità fra i due termini (cioè lavoro e salute). La seconda valuta lo stato della salute, considera le sue esigenze di cura, e arriva, se del caso, alla conclusione dell’incompatibilità della persona con il lavoro. Ambedue, quindi, considerano le condizioni della persona, ma la prima perviene all’incompatibilità con quel lavoro specifico, la seconda con il lavoro in generale[55].
Infine, per ipotesi di estensione della tutela della malattia a fattispecie nelle quali una malattia non ricorre necessariamente, vanno citate quelle in cui il lavoratore si assenta per l’effettuazione di accertamenti sanitari nonché di ricerche ed analisi cliniche, magari con il ricovero in ospedale o in casa di cura. La sintomatologia manifestatasi, che deve essere seria, ingenera il sospetto di uno stato di malattia in atto, che tuttavia può rivelarsi infondato. Ma l’esigenza di accertamenti tempestivi determina la sospensione del rapporto di lavoro, anche se l’infermità è solo ipotizzata[56].
La tipologia evidenziata conferma la non coincidenza dell’ambito di rilevanza giuridica della malattia con quello medico. Numerose malattie, anche non banali, possono risultare prive di incidenza sul rapporto di lavoro, qualora non ostacolino la prestazione né rendano pregiudizievole l’attività di lavoro[57].
Essa, inoltre, riguardando condizioni psico-fisiche qualificabili come malattia, tiene fuori quelle situazioni in cui la liberazione dall’impegno lavorativo consentirebbe il ricorso a pratiche di prevenzione della malattia, che non rientrano nella sospensione “in caso di malattia”[58].
1.2 Adempimenti a carico del lavoratore in malattia: gli obblighi di comunicazione e di certificazione
Allorché il dipendente cade in malattia, il datore di lavoro ha due immediate esigenze: quella di essere tempestivamente informato di detto evento e della sua prevedibile durata, per poter predisporre le necessarie sostituzioni nella posizione di lavoro rimasta scoperta, e quella di verificare l’autenticità dell’impedimento e della sua effettiva incidenza sull’idoneità al lavoro[59]. Tali esigenze, soddisfatte tramite la comunicazione e la certificazione della malattia e successivamente con la visita di controllo sul lavoratore, assumono senz’altro rilevanza giuridica sul piano del contratto. Risponde ai principi generali di correttezza e buona fede[60] che la parte di un qualsiasi contratto, tanto più se esso è di durata e se comporta un’implicazione diretta della persona del debitore, dia tempestivo[61] e documentato avviso di un sopravvenuto impedimento incidente sulla medesima, e di riflesso sulla prestazione[62].
Dato che questi doveri strumentali rispondono ad un’istanza di corretta esecuzione del contratto, se ne deduce che il lavoratore dovrebbe ritenersi tenuto ad assolverli anche in assenza di espresse prescrizioni legali o convenzionali in tal senso, in particolare riguardo l’obbligo di dare rapida informazione al datore di lavoro circa la malattia e la sua prevista durata[63].
Più incerta potrebbe essere la configurabilità, in virtù del mero principio di buona fede, di un obbligo di certificazione, inteso come offerta alla controparte di un’attestazione della malattia, proveniente da un medico. Si potrebbe, infatti, ritenere che, nonostante la facoltà datoriale di disporre il controllo medico a fronte dell’avviso del dipendente, questi non dovrebbe essere costretto anche a fornire subito, di sua iniziativa, detta prova[64]. Dovrebbe procurarsela, eventualmente, come parte gravata dell’onere probatorio, solo a seguito dell’insorgere di una lite. Questa sembrava essere anche la posizione della dottrina più risalente, in riferimento al regime anteriore al codice[65], fatta salva naturalmente l’ipotesi in cui l’invio del certificato medico fosse richiesto obbligatoriamente dai contratti collettivi dell’epoca[66].
Sulla base del principio di buona fede appare plausibile estendere l’area dell’obbligo accessorio, non solo al mero avviso, ma anche alla certificazione dell’evento morboso. Essendo la malattia un fatto suscettibile di un accertamento tecnico, il quale deve essere compiuto per quanto possibile nell’immediatezza, non avrebbe senso consentire al dipendente di assentarsi a piacimento sulla base della sua sola parola[67].
Quindi all’obbligo di comunicazione, la cui violazione è sanzionabile disciplinarmente[68], si affianca quello (legale e contrattuale) di certificazione, cioè di documentazione della sussistenza e della gravità della malattia[69]. Secondo la disciplina previgente[70], il lavoratore era tenuto, entro due giorni dal relativo rilascio[71], a recapitare o a trasmettere, a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, l’attestazione della malattia, rilasciata dal medico curante, al datore di lavoro, a meno che quest’ultimo avesse richiesto all’INPS la trasmissione in via telematica della suddetta attestazione, secondo modalità stabilite dallo stesso Istituto[72]. A decorrere dal 3 aprile 2010, a seguito dell’emanazione del Decreto interministeriale del 26 febbraio 2010 e del relativo disciplinare tecnico, è il medico curante[73] che deve trasmettere per via telematica on line all’INPS il certificato di diagnosi sull’inizio e sulla durata presunta della malattia, rilasciando copia cartacea al lavoratore interessato[74].
Peraltro questa sequenza di adempimenti deve ora intendersi in parte modificata e superata per effetto di quanto disposto dall’art. 25, della legge n. 183 del 2010 (cosiddetto «Collegato lavoro»), che, nel richiamare l’art. 55 septies del d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165, stabilisce che in tutti i casi di assenza per malattia la certificazione medica sia trasmessa per via telematica, direttamente dal medico o dalla struttura sanitaria che la rilascia, all’INPS, e da tale Istituto (dunque, non più dal lavoratore) sia immediatamente inoltrata, con le medesime modalità, al datore di lavoro. Ciò con lo specifico obiettivo di assicurare un quadro completo delle assenze per malattia nei settori pubblico e privato, nonché un efficace sistema di controllo delle stesse[75]. Pertanto, a seguito di tale novità i lavoratori del settore pubblico e di quello privato (anche non assicurati all’INPS[76]) non devono più provvedere a inviare tramite raccomandata a.r. o a recapitare le attestazioni di malattia al proprio datore di lavoro o all’INPS entro i due giorni lavorativi successivi all’inizio della malattia, perché la certificazione medica è inviata per via telematica all’INPS con le suddette modalità, mentre le attestazioni di malattia relative ai certificati ricevuti sono immediatamente inoltrate per via telematica dall’INPS al datore di lavoro pubblico o privato interessato[77]. Quindi, l’invio telematico del certificato effettuato dal medico soddisfa l’obbligo del lavoratore di recapitare l’attestazione di malattia o di spedirla tramite raccomandata al datore di lavoro entro due giorni lavorativi successivi all’inizio della malattia stessa, ma permane l’obbligo del lavoratore di segnalare tempestivamente al datore di lavoro la propria assenza e l’indirizzo di reperibilità (se diverso dalla residenza o domicilio abituale) per consentire le visite fiscali[78].
La certificazione presuppone naturalmente che il lavoratore si sottoponga a una visita ambulatoriale o domiciliare del medico curante. Non è necessario che, all’esito della visita, il medico abbia effettivamente riscontrato la sussistenza di una “infermità comportante incapacità lavorativa”, posto che gli stessi moduli di denuncia predisposti dall’INPS contengono la generica dicitura “Dichiara di essere ammalato dal…”, che il medico potrà compilare semplicemente fidandosi di quanto riferitogli dal lavoratore[79].
Questo meccanismo di attestazione della malattia, prescindendo dagli abusi di cui spesso riferiscono le cronache, svilisce di molto il valore probatorio del certificato e, in pratica, inverte l’onere della prova, trasferendolo dal lavoratore al datore di lavoro in deroga al principio di prossimità della prova, secondo cui l’onere probatorio dovrebbe gravare sul soggetto, appunto, più “prossimo” all’elemento fattuale di cui fornire le dimostrazioni (e dunque, nella specie, sul lavoratore)[80]. Tale distribuzione dell’onere probatorio viene usualmente giustificata da ragioni pratiche, ravvisate nell’improponibile carico di lavoro che graverebbe sulle strutture del servizio sanitario pubblico, qualora alla certificazione privata ne venisse preferita una pubblica[81].
Il certificato inviato all’Istituto previdenziale deve contenere anche la diagnosi e l’effettivo domicilio durante la malattia, a differenza della comunicazione al datore di lavoro[82], che per motivi di privacy contiene solo la prognosi[83].
Se l’evento morboso si configura quale prosecuzione della stessa malattia, il medico curante ne deve fare menzione nel certificato e nell’attestazione che il lavoratore è tenuto a consegnare al datore di lavoro[84] e che dovrà pervenire anche all’INPS. In caso contrario ne deriva la perdita dell’indennità di malattia per i giorni non coperti da certificazione di prosecuzione dell’infermità, oltre la scadenza della prognosi iniziale[85].
Qualora si verifichi una modifica della prognosi, il lavoratore ne deve dare comunicazione al proprio datore di lavoro, attraverso la trasmissione di copia del referto. Nel caso di visita d’ufficio, se viene modificata dal medico di controllo la prognosi originaria, copia del relativo referto deve essere tempestivamente inviata al datore di lavoro dallo stesso INPS[86]. La violazione dei predetti obblighi informativi può produrre effetti di carattere economico e disciplinare[87].
1.2.1 L’obbligo di reperibilità ed il controllo dello stato di malattia
Con la comunicazione dello stato di impedimento e l’esibizione del certificato di malattia, il lavoratore assolve le incombenze a suo carico. A seguito della comunicazione un ulteriore momento di accertamento dell’infermità è rimesso all’iniziativa del datore di lavoro, sotto forma di richiesta di una visita medica di controllo[88].
Questa forma di accertamento, contenuta nell’art. 5 dello Statuto dei lavoratori e confermata dalla legislazione successiva, è prevista come una facoltà del datore di lavoro dai contratti collettivi, che rappresentano una fonte tanto più importante in quanto l’hanno prevista anche quando l’ordinamento non conosceva disposizioni legislative analoghe all’art. 5[89]. L’attuale combinazione di norme legislative e contrattuali, al pari della precedente disciplina esclusivamente contrattuale, risulta rilevante perché non convince la tesi secondo cui detta facoltà sarebbe esercitabile anche in assenza di disposizioni ad hoc, quale espressione di prerogative spettanti al datore di lavoro come a qualsiasi altro creditore[90].
La necessità di norme che fondino espressamente la facoltà di attivare il controllo è resa imprescindibile dall’invasione della sfera personale del lavoratore che la visita medica comporta. La prassi di procedere ad accertamenti sanitari di controllo, anche quando non era in vigore un disposto come l’art. 5 dello Statuto, non vale a provare il contrario, perché occorre tener conto della risalente e diffusa presenza delle norme contrattuali[91].
La scelta di affiancare la visita di controllo all’esibizione del certificato medico è motivabile con una serie di ragioni, che vanno oltre la presunta inaffidabilità del certificato del medico curante. Una di queste è la variabilità delle condizioni fisiche del lavoratore anche nell’ambito di una prognosi senz’altro corretta, circostanza che di per sé già concorre a far apparire utile l’arricchimento delle forme di accertamento[92].
L’accertamento è richiesto dal datore di lavoro, ma il lavoratore sottoponendosi alla visita consente il perfezionamento di un adempimento da cui può derivare la conferma dello stato di impedimento. Tale visita, quindi, non ha soltanto finalità di controllo, bensì può anche operare a favore del lavoratore[93].
Nel caso in cui lo stato di impedimento trovi conferma in sede di accertamento sanitario richiesto dal datore, si pone la questione del valore del risultato a cui perviene il medico di controllo. Il datore di lavoro non può ritenersi vincolato a tale risultato. Questi può disporre legittimamente di elementi, non derivanti da accertamenti di carattere sanitario, che fanno escludere lo stato di malattia oppure può puntare ad accertamenti da espletare in sede processuale[94].
L’assoggettamento al controllo volto ad accertare l’effettiva sussistenza dello stato di malattia, qualora venga richiesto dal datore di lavoro destinato a sopportare le conseguenze dell’assenza del lavoratore anche prima che ne siano ufficialmente conosciuti i motivi, è giustificato dai particolari benefici di cui gode il lavoratore malato e dall’incidenza di tale vicenda sull’organizzazione del datore di lavoro[95].
Al fine di contemperare le evidenti esigenze di accertamento[96] con quelle insopprimibili di imparzialità e riservatezza, l’art. 5 dello Statuto dei lavoratori, ha stabilito il divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente[97]. Il datore di lavoro può richiedere il controllo sin dal primo giorno di assenza del lavoratore (art.2 del d.m. 15 luglio 1986), esclusivamente attraverso le strutture competenti. Il controllo, perciò, può essere effettuato dall’INPS, mediante personale medico inserito in liste speciali istituite presso ogni sede dell’Istituto (purché la richiesta non sia nominativa, cioè indirizzata a un singolo medico[98]) e dalle ASL, mediante i rispettivi Servizi medico-legali[99].
Ricevuta la comunicazione della richiesta di controllo, il medico è tenuto a svolgere la visita nella stessa giornata, se la comunicazione è avvenuta nelle ore antimeridiane, e non oltre la giornata successiva negli altri casi (art.3, d.m. 15 luglio 1986)[100].
Al fine di rendere possibile il controllo, il lavoratore assente per malattia o per infortunio extralavorativo ha l’obbligo di essere reperibile presso il domicilio indicato nella comunicazione inviata al datore di lavoro e all’ente previdenziale o presso il domicilio occasionale, dalle ore 10 alle 12 e dalle 17 alle 19 di tutti i giorni, comprese le domeniche ed i giorni festivi[101]. L’obbligo[102] non solo implica che il lavoratore non possa allontanarsi dalla propria abitazione senza un giustificato motivo, ma richiede che egli mantenga un comportamento tale da consentire al medico della struttura pubblica sia l’immediato accesso nell’abitazione, sia la possibilità della visita fiscale[103]. La ratio di questa imposizione non è soltanto quella di rendere più agevole il controllo da parte del servizio ispettivo, bensì anche quella di combattere l’assenteismo abusivo.
Dopo essersi reso reperibile il lavoratore è tenuto altresì a sottoporsi alla visita medica ed è passibile di sanzione disciplinare[104] in caso di rifiuto o di diniego di rendere le proprie generalità, esibendo un documento di identità[105].
È stato sollevato qualche dubbio di legittimità costituzionale, sotto il profilo della indebita limitazione della libertà di movimento del lavoratore effettivamente impedito al lavoro, quando l’infermità non impedisca tuttavia l’uscita dalla sua abitazione[106]. Dubbi che possono essere risolti partendo dalla considerazione che se il contratto di lavoro può vincolare il lavoratore sano a restare per otto ore al giorno a disposizione del creditore in azienda svolgendo l’attività promessa, non si vede perché il contratto stesso non possa vincolarlo, in caso di malattia, a restare per quattro ore a disposizione del servizio ispettivo svolgendo qualsiasi attività di sua scelta, compatibile col restare in casa e con le cure necessarie[107].
L’obbligo di reperibilità persiste per tutto il periodo di malattia anche nel caso in cui la prima visita abbia accertato la sussistenza della patologia. Nella stessa giornata, nei confronti del medesimo lavoratore, non può essere avanzata altra richiesta di visita di controllo sullo stato di malattia. Si potrà farlo in giorni diversi, purché non per ragioni strumentali o vessatorie, potendo l’immotivata reiterazione delle visite mediche fiscali configurare un comportamento mobbizzante[108].
L’obbligo di reperibilità, essendo estrinsecazione della doverosa cooperazione che il lavoratore deve prestare affinché siano realizzate le condizioni richieste per l’erogazione del trattamento di malattia[109], non si esaurisce nella presenza del lavoratore nelle fasce orarie legislativamente predeterminate, ma comporta altresì il dovere di cooperare all’effettuazione delle visite domiciliari[110]. Tale dovere risponde sia all’esigenza di fondo, condivisa anche dall’art. 38 Cost., di garantire funzionalità ad un apparato istituzionalmente diretto ad assicurare interventi di natura previdenziale a tutti i lavoratori in stato di bisogno, sia al principio generale di correttezza e buona fede[111]. Per questi motivi la cooperazione, quale naturale conseguenza della reperibilità, presuppone un comportamento positivo, ed esige, ove necessario, anche un facere diretto alla stessa finalità del controllo[112], che può tradursi nell’obbligo di consentire al medico l’ingresso nell’abitazione e, in caso di impedimento che imponga indifferibilmente l’allontanamento dal domicilio, nell’obbligo di dare tempestiva comunicazione dell’allontanamento stesso (o, in caso di mancata comunicazione, nell’onere di provare la relativa impossibilità)[113].
Peraltro, la Cassazione di recente è giunta ad affermare che, non costituendo la previsione delle fasce orarie una prescrizione a favore del lavoratore (al quale, in assenza di un termine, potrebbe essere altrimenti richiesto l’immediato adempimento dell’obbligo di reperibilità), tale obbligo può essere legittimamente introdotto e disciplinato dal contratto collettivo, non essendo preclusa la disciplina pattizia dalla riserva di legge, costituzionalmente garantita, in ordine alla materia dell’accertamento della condizione psico-fisica del lavoratore[114].
L’assenza dal domicilio nella fascia oraria di reperibilità, se non giustificata da un impedimento obiettivo[115], costituisce inadempimento contrattuale e comportamento illecito nei confronti dell’istituto previdenziale, indipendentemente dalla sussistenza o meno della malattia che giustifica l’astensione dal lavoro. A norma dell’art. 5, 14° comma, della legge n. 638/1983, il lavoratore decade dal diritto all’indennità di malattia eventualmente a carico dall’istituto previdenziale[116], così come da quella a carico del datore di lavoro, per l’intero periodo di malattia, fino a un massimo di dieci giorni, e ha diritto soltanto alla metà del trattamento economico per il periodo ulteriore. La sanzione non si applica per i periodi di ricovero ospedaliero e per i periodi di malattia verificata da un precedente controllo. La Corte costituzionale è intervenuta sul punto stabilendo che la decadenza dal trattamento economico di malattia per il periodo successivo ai primi dieci giorni si verifica soltanto nell’ipotesi in cui il lavoratore risulti assente anche ad una seconda visita di controllo[117].
Può ritenersi giustificata l’assenza che deriva da ogni situazione che abbia reso indifferibile altrove la presenza personale dell’assicurato[118], ancorché non insuperabile e nemmeno tale da determinare una lesione di beni primari[119]. Piuttosto cospicua è anche la casistica giurisprudenziale che individua le ipotesi in cui l’assenza deve dirsi ingiustificata[120].
1.2.2 Segue: La sindacabilità datoriale della certificazione medica
Nell’assolvimento del controllo affidatogli il medico dell’organo ispettivo è tenuto a redigere in quattro esemplari, su apposito modulo fornito dall’INPS, il referto indicante: la presenza o assenza del lavoratore nel domicilio eletto[121], la capacità o incapacità al lavoro riscontrata, la diagnosi e prognosi medica[122].
Al termine della visita, il medico consegna al lavoratore copia del referto di controllo ed entro il giorno successivo trasmette alla sede dell’INPS le altre tre copie, tra cui quella destinata al datore di lavoro, la quale è priva di indicazioni diagnostiche (art. 6, 3° comma, d.m. 15 luglio 1986).
Una volta acquisito il referto della visita di controllo, l’INPS comunica al datore di lavoro o agli istituti previdenziali richiedenti, entro le ventiquattro ore, gli esiti dell’accertamento sulla capacità o incapacità al lavoro dell’interessato. Nel caso in cui la visita di controllo non sia avvenuta per assenza del lavoratore, ne informa immediatamente il datore di lavoro o l’istituto previdenziale che ha richiesto la visita (art.7, d.m. 15 luglio 1986).
Qualora il lavoratore non accetti l’esito della visita di controllo, deve eccepirlo seduta stante[123] al medico, che avrà cura di annotarlo sul referto. In tal caso il giudizio definitivo spetta al coordinatore sanitario della competente sede dell’INPS (art. 6, 2° comma, d.m. 15 luglio 1986). Nelle more, il lavoratore, anche se ha contestato immediatamente il suddetto esito, è comunque tenuto a riprendere il lavoro in attesa di una nuova visita e, in caso contrario, potrà essere assoggettato a sanzione disciplinare per assenza ingiustificata[124].
II datore di lavoro che non creda alla veridicità dell’impedimento addotto dal dipendente e voglia contestarlo non è imprescindibilmente tenuto a disporre il controllo fiscale. Egli può considerare il certificato come in sé inattendibile, adottando conseguentemente iniziative disciplinari. Ciò per ragioni legate al contenuto visibile della certificazione, che può essere mancante di qualsiasi dato apprezzabile e riconoscibile in ordine alla prognosi della malattia, o in ordine alla provenienza della stessa da un medico[125], o che può essere materialmente falsa[126], incombendo il relativo onere della prova sul datore di lavoro, senza però che egli debba proporre una querela di falso, non trattandosi di atto pubblico[127].
Inoltre il datore di lavoro può aver avuto informazioni a seguito di accertamenti investigativi da lui stesso disposti, dalle quali ha tratto la prova della non veridicità della malattia denunciata o comunque della sua inidoneità a consentire l’assenza[128].
Al di là dì ciò il datore di lavoro ha le «mani legate» in conseguenza della impossibilità di conoscenza della diagnosi, che lo priva di un elemento di fatto indispensabile per poter effettuare quella valutazione che l’ordinamento gli dà facoltà di effettuare (specie in ordine all’effettiva incidenza inabilitante della malattia ed alla congruenza della prognosi), costringendolo eventualmente ad adottare provvedimenti «al buio». Se quindi tutto il sistema ruota attorno all’art. 24 Cost., qui il diritto di difesa e prova non è genuinamente garantito, il che fa dubitare della legittimità costituzionale di questo aspetto della normativa[129].
Il datore di lavoro può negare, sulla base degli elementi di prova in suo possesso, la rilevanza probatoria del certificato di parte o la sussistenza di una malattia comportante incapacità al lavoro[130], ed irrogare, a suo rischio, la sanzione prevista per l’ipotesi di assenza ingiustificata. Egli potrà poi produrre quelle prove nel giudizio di impugnativa di detta sanzione intentato dal dipendente, senza che questi possa opporgli il fatto di non aver attivato il rituale meccanismo di controllo. D’altra parte il datore dovrà avere altrettanta consapevolezza del fatto che soltanto adducendo prove sicure in contrario potrà superare l’efficacia probatoria del certificato di parte. Potrà anche limitarsi a ricercare quelle prove provocando un accertamento medico nell’ambito del giudizio[131]. Le conseguenze del ritardo graveranno sulla parte datoriale, in quanto investita, in tale fase, dell’onere probatorio. Questo dimostra perché sia in ogni caso consigliabile, per il datore di lavoro, disporre il rituale controllo fiscale[132].
Nel caso di contrasto tra il contenuto del certificato del medico curante e gli accertamenti compiuti dal medico di controllo, il giudice del merito deve procedere alla loro valutazione comparativa, al fine di stabilire quale delle contrastanti motivazioni sia maggiormente attendibile[133]. Potrà avvalersi dei poteri istruttori attribuitigli dalla legge, ivi compreso quello di disporre della consulenza tecnica[134].
Del resto, i referti medici, contenendo sia la documentazione di fatti che la formulazione di giudizi, fanno piena prova fino a querela di falso, ex art. 2700 c.c., della provenienza dal pubblico ufficiale che li ha formati e dei soli fatti che il medico del servizio ispettivo pubblico attesti essere avvenuti in sua presenza o essere stati dal lui compiuti[135], ma non dei fatti non positivamente acquisiti e delle valutazioni soggettive[136].
L’accertamento della veridicità o dell’inattendibilità di quanto certificato può conseguire non solo all’indagine condotta in sede giudiziale tramite una consulenza tecnica di tipo medico-legale, ma anche a circostanze del tutto diverse[137].
1.3 Effetti della malattia sul rapporto di lavoro: la sospensione della prestazione lavorativa
L’espressione «sospensione del rapporto di lavoro» identifica un particolare effetto che consegue al verificarsi di una molteplicità di eventi, tipizzati dalla legge o dalla contrattazione (collettiva o individuale)[138] e diversamente gravanti sulle parti del rapporto medesimo, ma assai più di frequente sul lavoratore. Tali eventi rendono impossibile oppure ostacolano lo svolgimento della prestazione lavorativa o, comunque, sono valutati in sede legislativa o negoziale come meritevoli di particolare apprezzamento al punto da giustificare una vistosa deroga ai principi civilistici generali che disciplinano i contratti a prestazioni corrispettive e di durata, e da imporre sul piano normativo specifici interventi di tutela, anche di carattere previdenziale[139]. Al verificarsi di uno di questi eventi, ciò che risulta sospesa è unicamente la possibilità per il datore di lavoro di esigere l’effettuazione della prestazione lavorativa da parte del suo dipendente, e non il rapporto di lavoro, in sé considerato[140], come insieme di obbligazioni intercorrenti tra le parti[141].
Questo rilievo, e il riferimento al concetto d’inesigibilità della prestazione di lavoro, evoca il dibattito concernente la configurazione unitaria, sul piano dogmatico, delle ipotesi di sospensione, dalla dottrina maggioritaria tradizionalmente inquadrate nella categoria dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione[142], da un orientamento minoritario ricondotte, invece, alla temporanea inesigibilità dell’attività lavorativa[143].
L’idea che l’evento sospensivo debba essere configurato quale causa di impossibilità sopravvenuta della prestazione di lavoro (parziale ex art. 1464 cc. o temporanea ex art. 1256, 2° comma, cc.)[144], sia pure «penetrata» da «un’istanza di tutela di un altro interesse che è strettamente connesso alla salvaguardia della persona del debitore»[145], ha un efficace valore descrittivo degli effetti della fattispecie, nobilitati dall’inquadramento nella teorica civilistica dell’inadempimento delle obbligazioni, sia pure in chiave consapevolmente derogatoria [146].
Nel contempo, però, questa posizione soffre di vistosi limiti e difetti, riassumibili nella sua inidoneità a offrire una spiegazione che valga a coprire qualunque evento sospensivo, nella sua limitata portata concettuale (come nelle ipotesi della malattia, dell’infortunio, della maternità, in cui sul piano fattuale ben può accadere che lo stesso evento non determini alcuna impossibilità di svolgere la prestazione lavorativa), e nella dilatazione ipertrofica del concetto di impossibilità sopravvenuta che essa comporta[147].
Come reazione a questi limiti, in alternativa, si è sostenuta l’esistenza di un principio generale di inesigibilità della prestazione di lavoro, dapprima affermato nelle ipotesi in cui la prestazione venga a contrastare con il pieno svolgimento della personalità del lavoratore[148], e successivamente ampliato sino a includere «una serie di ipotesi nelle quali l’interesse del lavoratore all’astensione dal lavoro o l’interesse pubblico all’adempimento da parte del lavoratore di un dovere collidente con l’obbligazione lavorativa, possono prevalere sull’interesse del creditore al normale svolgimento dell’attività lavorativa»[149].
Per quanto la contrapposizione tra le due prospettive interpretative sia ormai, almeno in parte, in via di tendenziale superamento, almeno sul piano descrittivo, l’utilizzo del concetto di inesigibilità appare più efficace e non inficiato dai rilievi di segno opposto[150].
In presenza di un evento sospensivo è, dunque, obiettivamente preclusa al datore di lavoro la possibilità di pretendere l’adempimento della prestazione lavorativa dal suo dipendente. Più correttamente, essendo ovvia l’impossibilità di ottenere in sede giudiziale un provvedimento che obblighi il dipendente a lavorare, il datore non può agire per il risarcimento del danno derivante dall’«inerzia» conseguente a quell’evento e porre termine al rapporto (entro certi limiti), fondando la pretesa risolutiva sulla stessa vicenda sospensiva[151].
Questo è il tratto giuridico che accomuna tutte le ipotesi di sospensione e che consente di percepire l’insopprimibile precarietà di qualunque classificazione degli eventi sospensivi fondata sulle cause, anziché sugli effetti, della fattispecie[152].
1.3.1 Il diritto del lavoratore assente per malattia alla conservazione del posto
L’art. 2110 cod. civ. non menziona direttamente la conservazione del posto, ma la presuppone quale situazione regolata da altre fonti. Infatti, per poter affermare che è un effetto necessario della malattia giuridicamente rilevante, limitandosi al testo dell’articolo, occorre rifarsi ad una serie di indici. Oltre al riferimento all’equità nel secondo comma, quale previsione di chiusura in grado di portare in ogni caso ad un qualche periodo di sospensione, rilevano nel medesimo senso quello alla garanzia del reddito in forma retributiva (primo comma) nonché alla maturazione dell’anzianità di servizio (terzo comma), che in tanto possono aversi in quanto la continuità del rapporto in costanza di malattia sia salvaguardata[153].
Il peso dell’art. 2110 sta soprattutto nella predisposizione di meccanismi idonei ad assicurare una generale applicazione del regime sospensivo, e meno nella collocazione del “(…) diritto di recedere (…), a norma dell’art. 2118 (…)” nella fase successiva all’esaurimento dei periodi indicati dalla contrattazione collettiva o dalle altre fonti menzionate dal suo secondo comma. Se queste, già per loro conto configurano tali periodi come periodi di obbligatoria conservazione del posto, tanto più agiscono su tale potere di recedere (o, quanto meno, sull’efficacia del recesso)[154]. Già prima del Codice del 1942 la contrattazione collettiva affermava regimi di vera e propria sospensione senza avere la copertura di disposizioni analoghe al capoverso dell’art. 2110 cod. civ. Lo stesso può dirsi per la legge sull’impiego privato, la quale afferma la sospensione del rapporto stabilendo solo che in caso di malattia il datore di lavoro “(…) conserverà il posto (…)” all’impiegato ammalato[155].
Molto più diretti risultano i contratti collettivi nel sancire la sospensione del rapporto “in caso di interruzione del servizio dovuta a malattia (…)”. Difatti, questi parlano normalmente di “diritto alla conservazione del posto”, di impegno delle aziende a “garantire la conservazione del posto” ovvero impiegano formule analoghe[156]. Tutta la normativa in materia è, inoltre, configurata dai contratti come una disciplina autonoma, al punto da apparire capace di restare in piedi ed assicurare il passaggio alla sospensione anche se per ipotesi venisse meno il retroterra legislativo[157].
Il diritto del lavoratore malato o infortunato, anche in prova[158], ad assentarsi e conservare il posto di lavoro[159] è garantito per un periodo di tempo determinato, cosiddetto di comporto. Ciò implica che il licenziamento, ove causalmente collegato alla mancata presenza al lavoro, può essere intimato con preavviso solo dopo decorso il periodo di tempo suddetto[160]. La determinazione di questo periodo è lasciata ad altre fonti, individuate nelle leggi speciali, nei contratti collettivi, negli usi e nell’equità. Di solito tale funzione è assolta dai contratti collettivi, che contengono termini di comporto diversi in ragione di fattori eterogenei come l’anzianità del dipendente, la particolare natura o gravità della malattia, etc., ma riconducibili a modelli base del comporto secco e del comporto frazionato o per sommatoria[161].
La stessa disciplina trova applicazione, a meno che non sia pattiziamente stabilito il contrario, quando l’assenza sia provocata da un infortunio sul lavoro o da una malattia professionale, cioè da un evento collegato allo svolgimento dell’attività lavorativa che ha causa in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni o comunque presenti nell’ambiente di lavoro, ma verificatosi nonostante il rispetto da parte del datore di lavoro dell’obbligo di sicurezza e, quindi, senza che questi sia responsabile. Le relative assenze sono computabili unitamente a quelle dovute a malattia comune, in difetto di una previsione collettiva più garantista[162]. I contratti collettivi, in effetti, a volte prevedono un unico periodo di comporto, in tal caso le malattie professionali si sommano alle malattie comuni, altre volte periodi di comporto distinti, per le quali la conservazione del posto si estende sino alla guarigione o alla stabilizzazione dei postumi, ed allora deve escludersi la possibilità di procedere alla valutazione promiscua[163].
Secondo l’opinione tradizionale questo regime è derogatorio sia rispetto alle disposizioni di diritto comune che regolano la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1256 c.c., 1463 c.c., 1464 c.c.), che rispetto alla disciplina dei licenziamenti individuali, specifica in quanto propria del rapporto di lavoro, ma da considerarsi generale nel suo ambito di applicazione (art. 3, l. 15.7.1966, n. 604)[164]. Conseguentemente non è consentito il licenziamento prima del superamento del periodo di comporto, che si pone come indefettibile presupposto di legittimità del recesso, anche se il datore di lavoro non abbia più interesse alla prestazione. Inoltre, una volta che il periodo di comporto sia superato, lo scioglimento del rapporto prescinde dall’esistenza o dalla dimostrazione di tali condizioni ovvero dalla prova dell’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, dovendo il giudice del merito limitarsi ad accertare se la malattia, unica o discontinua che sia, abbia superato o meno il termine prefissato[165].
1.3.2 Il trattamento economico: il diritto alla retribuzione o all’indennità di malattia
L’art. 2110, 1° comma c.c., dispone che, in caso di malattia (come anche di infortunio, gravidanza e puerperio), «se la legge o le norme corporative non stabiliscono forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità». Ciò testimonia ulteriormente che la malattia è evento sospensivo non del rapporto di lavoro, ma di alcune obbligazioni da esso scaturenti, tra le quali non rientra quella di retribuire il lavoratore malato[166].
Il principio costituisce una deviazione del diritto del lavoro dalla regola della «corrispettività» del diritto comune (cfr. l’art. 1463), che si consuma nel momento in cui, per legge, si dà corso all’attribuzione di un trattamento economico malgrado il mancato adempimento, per impossibilità della prestazione, dell’obbligazione lavorativa[167]. Ciò comporta, secondo la visuale tradizionale, un accantonamento di quel principio di interdipendenza biunivoca nell’attuazione delle rispettive prestazioni, nel quale l’opinione prevalente fa consistere l’essenza della corrispettività[168].
Il fondamento della tutela economica di malattia è radicato direttamente nella disciplina codicistica, che a fonti diverse rimette la determinazione della misura e della durata del trattamento stesso[169]. Per questo motivo, sebbene la materia sia ormai da alcuni decenni ampiamente regolamentata dalla contrattazione collettiva, una clausola contrattuale che disponesse circa la spettanza del diritto alla retribuzione, derogando peggiorativamente il trattamento economico minimo legale, sarebbe nulla ex art. 1418, 1° comma, cc., per contrasto con il precetto legislativo generale[170]. Del resto non vi è dubbio che l’obbligo retributivo debba comunque gravare, in virtù dell’art. 2110 c.c.[171], sul datore di lavoro, il quale, secondo la disciplina normativa relativa alle modalità di pagamento dell’indennità di malattia, è tenuto all’erogazione del trattamento di malattia mediante anticipazione[172].
Ad ogni modo, ormai da tempo la contrattazione collettiva è solita prevedere l’obbligo del datore di lavoro di integrare l’indennità di malattia dovuta dall’ente previdenziale[173], ciò fino a un determinato ammontare che può corrispondere all’intera retribuzione o a una percentuale della stessa (solitamente decrescente in relazione alla durata della malattia).
Il datore di lavoro deve, invece, farsi interamente carico della tutela economica di malattia in tre ipotesi: per i lavoratori che non beneficiano dell’indennità a carico dell’INPS (impiegati di settore diversi dal commercio, quadri, dirigenti, lavoratori domestici, viaggiatori e piazzisti, dipendenti di partiti politici e associazioni sindacali); per i primi tre giorni di malattia (cosiddetto periodo di carenza del trattamento previdenziale) e per le festività che ricadono nel periodo di malattia.
È ormai opinione consolidata che al trattamento economico posto dalla legge o dal contratto collettivo a carico del datore di lavoro debba riconoscersi natura retributiva[174] e non previdenziale.
Salvo alcune ipotesi particolari, la tutela economica nasce a partire dalla data di effettivo inizio del rapporto di lavoro (anche in caso di periodo di prova) e, in presenza di rapporto a tempo indeterminato, sussiste anche dopo la cessazione o la sospensione dello stesso[175], nei limiti massimi previsti, purché la malattia sia sorta in costanza di rapporto di lavoro e sia stata denunciata entro sessanta giorni dalla data di cessazione o sospensione del rapporto medesimo.
L’indennità a carico dell’INPS spetta a decorrere dal quarto giorno di malattia, calcolato dalla data di rilascio della relativa certificazione[176], o anche dal giorno immediatamente precedente a quello del rilascio di quest’ultima, purché sulla stessa risulti compilata la voce «Dichiara di essere ammalato dal…» e la visita sia effettuata nello stesso giorno di inizio della malattia o nel giorno immediatamente successivo. Se, invece, nella certificazione non risulta la data di inizio della malattia, l’indennità decorre dalla data in cui viene effettuata la visita medica e rilasciato il relativo certificato[177].
Il trattamento di malattia è erogato dall’INPS per un periodo massimo indennizzabile: per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato esso è corrisposto per le giornate indennizzabili comprese in un periodo massimo di 180 giorni per anno solare, calcolato sommando tutte le giornate di malattia dell’anno solare (dal 1° gennaio al 31 dicembre), comprese quelle per le quali l’indennità non è stata corrisposta (giorni di carenza, giornate festive, periodi non indennizzati per mancata documentazione o ritardata certificazione); per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato l’indennità è dovuta per un periodo non superiore a quello dell’attività lavorativa svolta nei dodici mesi immediatamente precedenti l’evento morboso, fermo restando il limite di 180 giorni nell’anno solare[178]. La ricaduta nella stessa malattia o in altra a essa consequenziale viene considerata a ogni effetto continuazione della stessa se è stata debitamente certificata e se è intervenuta entro trenta giorni dalla guarigione del precedente evento morboso.
Dal computo del periodo massimo indennizzabile sono esclusi i periodi di astensione dal lavoro obbligatoria e facoltativa per maternità, i periodi di malattia connessi con lo stato di gravidanza, i periodi di incapacità lavorativa causata da infortunio sul lavoro e da malattia professionale o da malattia tubercolare, i periodi di malattia causata da fatto di terzi per i quali l’INPS abbia esperito con esito positivo (anche parziale) l’azione di surroga[179].
Nel caso di malattia insorta nel corso di un anno solare e protrattasi, senza interruzione, nell’anno solare successivo (es. casi «a cavaliere» di due anni solari), si applica il principio in base al quale le giornate di malattia sono attribuite, ai fini del computo del periodo massimo indennizzabile, ai rispettivi anni solari e la malattia deve essere considerata come un unico episodio morboso[180].
La misura dell’indennità è determinata in percentuale della retribuzione media globale giornaliera, e varia in relazione alla qualifica del lavoratore e al settore di appartenenza[181].
Nel caso in cui la contrattazione collettiva non preveda alcuna disciplina del trattamento economico, è necessario, analogamente a quanto avviene per la determinazione della durata del periodo di comporto, fare ricorso alle ulteriori fonti indicate dall’art. 2110, e cioè agli usi e all’equità, in modo da contemperare i contrapposti interessi del lavoratore (a non rimanere privo di retribuzione mentre è affetto da malattia) e del datore di lavoro (a non dover pagare l’intera retribuzione senza alcuna controprestazione)[182].
Se il datore di lavoro non provvede all’erogazione dell’indennità è punito con una sanzione amministrativa pecuniaria per ciascun dipendente cui si riferisce l’infrazione (art. 1, 12° comma). Il lavoratore potrà convenire in giudizio, alternativamente, il solo datore di lavoro per ottenerne la condanna al pagamento dell’indennità dovutagli, senza che a ciò sia di ostacolo il diritto del lavoratore di pretendere il pagamento delle indennità in questione direttamente dall’INPS[183], oppure l’INPS, senza convenire in giudizio anche il datore di lavoro[184].
Nei soli casi previsti dalla legge l’indennità di malattia è erogata direttamente dall’INPS (art. 1, 6° comma, dl. n. 663/1979)[185].
L’azione per conseguire l’indennità a carico dell’INPS si prescrive nel termine di un anno dal giorno in cui essa è dovuta (art. 6, 6° comma, 1. n. 138/1943), e della relativa eccezione il datore di lavoro può avvalersi sia direttamente, opponendo al lavoratore l’intervenuta estinzione per prescrizione del credito verso il delegante, che indirettamente, aderendo all’eccezione formulata dall’INPS[186]. La giurisprudenza, peraltro, ha precisato che il termine prescrizionale annuale inizia a decorrere dalla data di formazione del silenzio-rifiuto, ex art. 7, 1. 11 agosto 1973, n. 533, sulla domanda rivolta all’INPS per ottenere la prestazione. L’azione per conseguire il trattamento di malattia a carico del datore di lavoro si prescrive, invece, nell’ordinario termine di cinque anni[187].
Se la malattia del lavoratore è stata causata o aggravata dal fatto doloso o colposo di terzi, come per la malattia conseguente a un incidente stradale provocato da altro automobilista, l’INPS, pur essendo tenuto all’erogazione dell’indennità, può esperire l’azione di surroga ex art. 1916 c.c. al fine di ottenere dal responsabile[188] il rimborso di quanto corrisposto al lavoratore[189]. In forza di quanto previsto dall’art. 42, 1. n. 183/2010, a decorrere dal 1° giugno 2010, nei casi di infermità comportante incapacità lavorativa, derivante da responsabilità di terzi, il medico è tenuto a darne segnalazione nei certificati di malattia al fine di consentire all’INPS l’esperibilità delle azioni surrogatorie di rivalsa. In tal caso, inoltre, l’impresa di assicurazione, prima di procedere all’eventuale risarcimento del danno, è tenuta a darne immediata comunicazione all’Istituto[190].
1.3.3 Effetti della malattia sulla maturazione dell’anzianità di servizio
L’art 2110, comma 3 c.c., integra le previsioni dei commi precedenti disponendo che «il periodo di assenza dal lavoro per una delle cause anzidette deve essere computato nell’anzianità di servizio».
Il parametro per giudicare del carattere «eccezionale» o meno della disposizione in esame, non sembra costituto, come invece era per la retribuzione, dal principio civilistico della corrispettività, il che impedisce di inquadrarlo attraverso una semplice e meccanica riproposizione della concezione «derogatoria»[191]. Questo perché l’anzianità di servizio, unitariamente intesa, è un istituto tipicamente lavoristico che trova deboli raffronti nel diritto comune, e che in ogni caso non può essere assimilato ad una «prestazione»[192].
Ciò non significa che non esistano nessi con il tema della corrispettività, solo che questi nessi non possono essere individuati al livello dell’«anzianità» come preteso istituto autonomo, bensì a livello dei diritti (e conseguentemente delle prestazioni) rispetto ai quali l’anzianità funge da presupposto. Il comma 3 di tale articolo si risolve così in un’espressione ellittica per dire che questi (ed altri) diritti maturano anche durante i periodi di malattia, in deroga al principio di corrispettività. La principale applicazione di ciò si ha in relazione agli scatti periodici di anzianità ed alle mensilità aggiuntive[193]. Trattasi di istituti di genesi prevalentemente contrattuale, ma è chiaro che l’art. 2110 cod. civ., avendo carattere imperativo, incide anche su di essi[194].
In realtà il principale istituto a cui si riferiva il codice era l’indennità di anzianità[195]. Lo svincolamento da un legame diretto con l’anzianità di servizio, che è stato realizzato con l’istituto del trattamento di fine rapporto, ha reso consigliabile un apposito pronunciamento legislativo che equiparasse totalmente il periodo di malattia o infortunio al normale periodo lavorativo ai fini della maturazione degli accantonamenti annuali. Infatti il comma 3 art. 2120 c.c. ha disposto che in caso di sospensione del lavoratore per una delle cause di cui all’art. 2110 c.c. va computato ai fini del t.f.r. l’equivalente della retribuzione «a cui il lavoratore avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto di lavoro»[196].
È incerto se il principio enunciato dalla norma si applichi anche ai “passaggi automatici” di categoria previsti da alcuni contratti collettivi. Secondo l’orientamento prevalente della giurisprudenza i periodi brevi, ancorché ripetuti, di malattia sono irrilevanti ai fini della maturazione da parte del lavoratore del diritto alla promozione[197]. Tuttavia, se la malattia sia stata di durata tale da incidere negativamente sulla maturazione professionale del lavoratore, giustificando così lo slittamento della promozione, incombe sul datore di lavoro l’onere della prova circa tale incidenza negativa[198].
Il periodo di malattia, inoltre, non potrà essere considerato rilevante, a meno di espresse previsioni di segno contrario, ai fini della maturazione del diritto (diverso da quelli appena considerati) alla promozione «automatica» di cui all’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, che richiede che vi sia un esercizio «di fatto» di date mansioni[199].
Per quanto riguarda le ferie sorge un problema più delicato. L’art. 2109 c.c., nel testo originario, ne condizionava la fruizione ad un anno di «ininterrotto servizio». La soppressione di tale inciso, a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale[200], non ha comportato che le ferie siano passate ad assolvere, da una funzione di reintegrazione delle energie psico-fisiche, una di sostanziale incremento retributivo legato alla concessione obbligatoria di una certa quota di tempo non lavorato[201].
D’altra parte, però, è questione di come intendere questa finalità: se infatti si afferma che le ferie debbono assicurare un riposo anche «psichico» dal lavoro[202], si può individuare il proprium dell’istituto nella facoltà di disporre di una certa quota periodica di tempo libero, da utilizzare in piena libertà anche dedicandosi alle più varie attività ricreative, culturali o di puro svago[203].
Perciò, se l’oggetto delle ferie non è il «riposo», ma il «tempo libero», diviene possibile far dipendere la maturazione del relativo diritto non soltanto dall’avvenuta prestazione del lavoro, ma anche da tutti quegli eventi capaci di impedire, in linea di fatto, la realizzazione di tale fondamentale bisogno, e purché si tratti di eventi il cui rischio sia posto dall’ordinamento a carico dell’impresa. Poiché la malattia rientra senz’altro in tale categoria, dato che il lavoratore malato non è solo impedito a lavorare ma è anche privato di qualsiasi facoltà di libero impiego del suo tempo, è legittimo ritenere che le ferie non possano subire decurtazioni a fronte delle assenze per malattia[204].
L’ultimo problema da affrontare è relativo all’ambito di operatività temporale della disposizione contenuta al terzo comma dell’art. 2110 cod. civ. Si è discusso se essa sia limitata al periodo di comporto, oppure se possa estendersi anche oltre, qualora il datore di lavoro non proceda all’intimazione del licenziamento, o il lavoratore fruisca dell’aspettativa non retribuita. Il fatto che la norma parli genericamente di «assenza dal lavoro», non di sospensione, e per una delle «cause» anzidette, senza prospettare esplicitamente un parallelismo col periodo di comporto, fa pensare che il decorso dell’anzianità sia esteso a tutto il periodo di sopravvivenza del rapporto[205]. Questo però può valere soltanto sinché si resta all’interno del novero di effetti contemplati dall’art. 2110 cod. civ., che comprendono il decorso del comporto nonché il periodo in cui, pur essendo decorso il comporto, il datore di fatto rinunci o esiti ad esercitare la sua facoltà di recesso. La conclusione, invece, non può essere identica per il periodo in cui si passa ad un diverso regime di sospensione, che trova la sua fonte non nella legge, ma esclusivamente nel contratto collettivo, e cioè quello dell’aspettativa[206]. In questo modo si può evitare la conseguenza, che sarebbe comunque irragionevole anche perché gravemente disincentivante verso un istituto socialmente meritorio, di ritenere illegittime le disposizioni collettive sull’aspettativa, che escludono tutte il decorso dell’anzianità[207].
L’unica eccezione al principio di maturazione dell’anzianità del lavoratore, durante l’astensione dal lavoro per malattia, è prevista dalla legge per il caso di tubercolosi[208]. L’eccezione si giustifica in considerazione della particolare lunghezza del decorso della malattia e del relativo periodo di comporto[209].
Capitolo II
Malattia e licenziamento
Sommario: – 2.1 Licenziamento. Inquadramento giuridico – 2.2 Le fonti per la determinazione del periodo di comporto – 2.2.1 Segue: la normativa speciale per i lavoratori affetti da tubercolosi – 2.2.2 Il comporto secco e per sommatoria – 2.2.3 Questioni inerenti al computo del periodo di comporto – 2.2.4 Il calcolo del periodo di comporto nell’ipotesi di malattia provocata dal datore di lavoro – 2.3 L’«eccessiva morbilità» come giustificato motivo obiettivo di recesso – 2.3.1 L’intervento delle Sezioni Unite sull’art. 2110 c.c. e il giudizio di equità – 2.3.2 Segue: contratto collettivo e giudizio di equità – 2.3.3 La natura del giudizio di equità ed il termine «interno» del comporto per sommatoria – 2.3.4 Il termine «esterno» del comporto per sommatoria – 2.4 Licenziamento intimato durante il c.d. periodo di comporto – 2.4.1 Segue: La questione della malattia irreversibile – 2.5 Il licenziamento per superamento del comporto.
2.1 Licenziamento. Inquadramento giuridico
Il rapporto di lavoro, come in genere i rapporti ad esecuzione continuata (art. 1373, comma 2, c.c.), può risolversi per volontà unilaterale delle parti. Questo atto si qualifica come recesso unilaterale (art. 1373 c.c.) e, nell’ambito del rapporto lavorativo, viene denominato rispettivamente “licenziamento” se proviene dal datore di lavoro e “dimissioni” se proviene dal lavoratore[210]. Vi è anche la possibilità, come per qualsiasi contratto (art. 1372, comma 1, c.c.), della risoluzione consensuale per mutuo consenso[211].
Mentre il recesso del lavoratore, ovvero le dimissioni, è rimasto disciplinato prevalentemente dal codice civile (art. 2118 e 2119 c.c.; ma anche art. 4, comma 17 ss., legge 92 del 2012), quello del datore di lavoro, licenziamento individuale e collettivo, trova la sua regolamentazione anche nella legislazione speciale (legge 15 luglio 1966, n. 604, legge 20 maggio 1970, n. 300; legge 11 maggio 1990, n. 108; legge 23 luglio 1991, n. 223; legge n. 92 del 2012)[212].
Le disposizioni del codice civile sul recesso unilaterale dal rapporto di lavoro sono ispirate ai principi della libertà contrattuale e dell’eguaglianza delle parti del contratto: l’art. 2118 c.c. regola il recesso unilaterale con preavviso (dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato) e l’art. 2119 c.c. regola il recesso unilaterale senza preavviso (dal rapporto di lavoro sia a tempo indeterminato, sia a termine)[213].
La manifestazione unilaterale della volontà di recedere dal contratto costituisce lo strumento principale e pressoché esclusivo per porre termine ad un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. La scadenza del termine è invece il modo ordinario di cessazione del rapporto di lavoro a tempo determinato.
Il recesso è definito come negozio giuridico unilaterale recettizio, al quale la dottrina attribuisce il carattere della irretroattività, nel senso che “l’effetto estintivo collegato alla sua comunicazione non può che prodursi successivamente alla manifestazione di volontà, essendo questa un’ovvia implicazione dell’irripetibilità delle energie lavorative già spese”[214].
Nella maggior parte dei casi, il licenziamento del lavoratore dipendente è possibile solo in presenza di specifiche motivazioni socialmente giustificate (art. 1 legge 15 luglio 1966, n. 604; art. 18 dello Statuto dei lavoratori), che possono riguardare la condotta del lavoratore (licenziamento disciplinare, per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo) ovvero la situazione in cui si trova l’azienda (licenziamento per giustificato motivo oggettivo).
La stratificazione della disciplina dei licenziamenti ha dato luogo alla creazione di tre diverse aree, nell’ambito delle quali trovano applicazione tre diversi insiemi di regole.
La prima area è quella della tutela o stabilità reale, nella quale l’invalidazione del licenziamento ingiustificato o altrimenti nullo o inefficace dà luogo al diritto del lavoratore al risarcimento del danno ed alla reintegrazione nel posto di lavoro.
La seconda area è quella della tutela o stabilità obbligatoria, caratterizzata dall’applicazione della disciplina dei licenziamenti individuali[215]. In quest’area al licenziamento ingiustificato si applica la sanzione alternativa del risarcimento del danno[216] o della riassunzione in servizio.
La terza area è quella nella quale trova ancora applicazione la regola residuale del licenziamento ad nutum, in cui vi rientrano alcune categorie di lavoratori escluse dall’applicazione sia della stabilità obbligatoria sia della stabilità reale.
Il quadro deve essere completato menzionando l’area del diritto comune, nella quale trovano disciplina le conseguenze sanzionatorie dei licenziamenti illegittimi, ai quali non sia applicabile né la disciplina della reintegrazione, né la tutela obbligatoria (relativa ai soli licenziamenti ingiustificati).[217]
2.2 Le fonti per la determinazione del periodo di comporto
La normativa che garantisce al lavoratore la conservazione del posto di lavoro deroga sia al diritto comune sia alla disciplina del licenziamento. I profili derogatori rispetto al diritto comune sono meno evidenti; infatti, sia l’art. 1256 c.c., comma 2, che l’art. 1464 c.c., prevedono un periodo di sopravvivenza (c.d. comporto) del rapporto contrattuale prima della sua estinzione definitiva per impossibilità. Il termine di questo periodo è contrassegnato dal venire meno dell’interesse del creditore a conseguire la prestazione del debitore. Il fatto stesso che sia imposta una dilazione all’esito altrimenti estintivo del rapporto deve considerarsi come il risultato implicito di un’operazione di mediazione fra l’interesse del creditore e quello del debitore alla permanenza del vincolo, anche in considerazione delle particolari implicazioni personalistiche che ha questo tipo di rapporto giuridico[218].
Da questo assunto si può concludere che il contemperamento di interessi realizzato dalle norme appena citate non è poi così diverso da quello che si realizza attraverso la prefissazione del comporto per malattia, il che permette di vedere nell’art. 2110 cod. civ. un adattamento, piuttosto che una deroga, rispetto al diritto comune[219].
Tra le fonti di determinazione del comporto vi è la legge, che ha una rilevanza assai marginale; l’unica ipotesi di comporto ex lege, infatti, è quella che interessa i lavoratori colpiti da malattie tubercolari[220].
Il modello di gran lunga più importante e centrale è invece quello che vede come fonte di determinazione del comporto la contrattazione collettiva. Il riferimento alle «norme corporative» deve oggi ovviamente rapportarsi ai contratti collettivi c.d. di diritto comune ed è in tali contratti che tipicamente si rinviene la concreta regolamentazione del comporto. L’art. 2110 c.c. si pone pertanto come espressione della più tradizionale tecnica di rapporto fra legge e contratto. È la legge che attribuisce il diritto, ma è il contratto a quantificarlo e ad aggiungere eventualmente ulteriori regole e/o limitazioni afferenti alle modalità di esercizio dello stesso[221].
Oltre a quelle contenute nei contratti collettivi privatistici, possono aversi norme sul comporto nei contratti resi efficaci erga omnes ai sensi della l. n. 741 del 1959[222]. In tale caso può prodursi un conflitto con i successivi contratti ove questi contengano eventuali discipline meno favorevoli per i lavoratori. Questa possibilità è molto rara e non ve n’è traccia in giurisprudenza. Qualora si dovesse verificare un conflitto, occorrerebbe tener conto dell’orientamento giurisprudenziale secondo cui i successivi contratti o accordi collettivi possono derogare soltanto in melius alle clausole che ne hanno subìto l’estensione erga omnes[223], così privilegiandosi la «forma» legale rispetto alla sostanza pattizia[224].
Solitamente nei contratti è contemplato un comporto per la malattia comune e l’infortunio extra-lavorativo, ed uno distinto e più lungo, sino a coincidere con l’intera durata dello stato di inabilità, per l’infortunio sul lavoro e la malattia professionale. Nei contratti può essere previsto anche un comporto unico[225].
2.2.1 Segue: la normativa speciale per i lavoratori affetti da tubercolosi
L’unica forma di comporto per malattia determinato direttamente dalla legge è quella prevista per i lavoratori affetti da tubercolosi. La ragione di questa disciplina speciale si collega evidentemente alla particolare gravità ed al carattere di questa malattia, che già fu oggetto di uno specifico (e tuttora in essere) intervento di assicurazione sociale (con r.d.l. 28 ottobre 1927, n. 2055, approvato con r.d. 7 giugno 1928, n. 1343)[226], e che peraltro suscita oggi un allarme assai più ridotto che in passato. Tuttavia, in questo caso, può parlarsi di «periodo di comporto» soltanto per le imprese con meno di 16 dipendenti, dove continua ad applicarsi il vecchio regime di conservazione del posto per 18 mesi[227], mentre per le imprese maggiori è previsto l’obbligo di conservazione del posto fino al termine di 6 mesi dalla dimissione dal luogo di cura per avvenuta guarigione[228]. Il divieto di licenziamento copre pertanto tutto il periodo di malattia, senza limiti di durata[229].
La disciplina legale considerata ha senza dubbio natura di norma speciale rispetto all’art. 2110 cod. civ. Qualora la disciplina contrattuale del comporto ordinario sia più favorevole, sarà essa, in mancanza di indicazioni contrarie dello stesso contratto, a trovare applicazione, con la conseguenza di un corrispondente allungamento del comporto legale[230]. Tuttavia è da escludere che possa esservi un cumulo di quest’ultimo con quello contrattuale[231].
Un problema interpretativo riguarda l’individuazione del dies a quo del semestre di comporto successivo alla guarigione. La legge parla di «dimissione dal luogo di cura». Il nodo da sciogliere è se questa espressione debba intendersi in senso rigidamente letterale o topografico, e quindi se il lavoratore abbia diritto al comporto in questione anche qualora non sia stato effettivamente ricoverato, o se comunque detto periodo finale di comporto cominci a decorrere anche se la dimissione sia avvenuta prima dell’avvenuta guarigione o stabilizzazione della malattia (con continuazione del trattamento sanitario in altre forme)[232].
La ratio della legge è collegata al verificarsi di un’effettiva «guarigione o stabilizzazione» dell’evento morboso; ne deriva che è indifferente che le cure necessarie al dipendente siano state condotte mediante un ricovero permanente e continuo in ospedali o sanatori o invece in «qualsiasi altro luogo o ambiente opportunamente attrezzato per la cura della malattia», ad esempio in un ambulatorio od anche al proprio domicilio. Pertanto, finché permane la necessità di sottoposizione alle cure, ovunque siano esperite, i sei mesi finali non possono decorrere[233].
Si è anche escluso, nella stessa logica, che il comporto cominci a decorrere se la dimissione dal luogo di cura è avvenuta per ragioni diverse dall’avvenuta guarigione o stabilizzazione[234].
2.2.2 Il comporto secco e per sommatoria
La maggior parte dei contratti collettivi contiene norme sul comporto. La tipologia della clausole è semplice, esaurendosi nella individuazione di due tipi fondamentali: quelle di comporto c.d. secco e quelle di comporto frazionato o per sommatoria. Le prime, che sono presenti in tutti i contratti, in aderenza all’indicazione precettiva «minima» dell’art. 2110 cod. civ., non presentano problemi interpretativi. Queste stabiliscono un periodo temporale continuativo, espresso per lo più in mesi o in giorni, durante il quale il dipendente caduto in malattia o in infortunio non sul lavoro, che è di massima equiparato alla malattia, ha diritto alla conservazione del posto. Si tratta di previsioni dal contenuto dispositivo molto semplice, che solitamente graduano la misura del comporto in proporzione diretta con l’anzianità di servizio del dipendente[235]. Quest’ultima, in applicazione del principio di cui al comma 3 dell’art. 2110 c.c., dovrà essere valutata al momento dell’intimazione del licenziamento, comprendendo il periodo di malattia[236]. Il riferimento all’anzianità è dimostrazione di una concezione del comporto non solo come misura oggettiva della soglia di tolleranza aziendale, ma anche come beneficio legato ad una condizione soggettiva[237].
Il ventaglio delle soluzioni contrattuali è ampio[238], vi sono però anche casi di comporto stabilito in misura fissa per tutti i lavoratori a prescindere dalla loro anzianità[239].
Non costituisce una ragione di differenziazione l’appartenenza all’una o all’altra categoria professionale. I contratti non prevedono, in linea di massima, misure diverse di comporto per gli operai e gli impiegati, nel rispetto della tendenza generale verso la completa omogeneizzazione del trattamento di tali categorie[240].
L’art. 2110 cod. civ., prima facie, non sembrerebbe vincolare l’autodeterminazione sindacale neppure per quanto attiene all’apposizione di un vincolo minimo nell’interesse della parte più debole del rapporto, e non parrebbe quindi consentire un sindacato giudiziale sulla congruità del comporto[241]. Tuttavia, bisogna considerare che tale vincolo può essere rinvenuto, limitatamente al personale impiegatizio (e quindi anche ai quadri), nell’art. 6, comma 4, del r.d.l. 13 novembre 1924, n. 1825 sull’impiego privato, in base al quale, «nei casi di interruzione di servizio dovuta ad infortunio o malattia il principale conserva il posto al dipendente per il periodo di: a) tre mesi, se questi abbia un’anzianità di servizio non superiore a dieci anni; b) sei mesi, se abbia un’anzianità di servizio di oltre dieci anni». La suddetta norma non può ritenersi implicitamente abrogata dalla previsione successiva del codice civile[242], che disciplina soltanto l’an del diritto e non si pone perciò in alcuna relazione di incompatibilità con una precedente disposizione che, presupponendo l’attribuzione di un identico beneficio, si era spinta anche sul terreno della quantificazione del medesimo[243]. Tale conclusione deriva testualmente dall’art. 98 delle disp. att. c.c., che fa salva l’applicazione della legge sull’impiego privato, anche per quanto attiene al trattamento di malattia, in mancanza di contratti collettivi o di usi più favorevoli. Entro quei limiti si configura, di conseguenza, un vincolo attuale per l’autonomia collettiva, che non può apportare deroghe in peius[244].
Si definiscono invece di sommatoria tutte quelle previsioni nelle quali il tempo di conservazione del posto è espresso in termini di periodo complessivo, ossia tenendo conto di tutte le assenze per malattia che si sono verificate in un dato arco temporale, anche se intervallate da momenti di presenza al lavoro. Diversamente dalle clausole relative al comporto secco, la presenza di queste è solo eventuale. Questa precisazione va intesa soltanto in senso descrittivo[245] e non già come individuazione della portata giuridica dell’art. 2110 cod. civ. Infatti, la predisposizione di congegni di sommatoria, accanto a quelli di comporto secco, rappresenta uno svolgimento necessitato, e non già eventuale, di tale norma[246].
Le clausole di sommatoria hanno suscitato dubbi interpretativi che talora ne hanno messo in dubbio la stessa natura. Ciò è dovuto anche alle loro tecniche di formulazione, spesso non proprio cristalline.
Quella classica consiste nello stabilire un tempo complessivo, espresso in giorni o mesi, e rapportarlo ad un arco più ampio, entro il quale possono cumularsi le assenze[247].
Talvolta si è dubitato della natura di sommatoria di queste previsioni e di conseguenza si è fatto ricorso al giudizio di equità, sul presupposto erroneo dell’esistenza di un vuoto di disciplina[248]. Altre decisioni hanno escluso tale interpretazione, negando che oltre a quello dell’ultima malattia il dipendente potesse usufruire di un secondo intero comporto per le assenze ancora precedenti[249]. Più spesso si è discusso sull’estensione temporale della sommatoria prevista da tali clausole. Varie decisioni hanno giustamente respinto il tentativo dei datori di lavoro di estendere la cumulabilità a tutti i periodi, precedenti l’ultima malattia, fra i quali non sussistano intervalli più lunghi di un quadrimestre. Altrimenti si potrebbe risalire a ritroso praticamente all’infinito, con risultati abnormi che sono evitati accedendo alla soluzione più logica di tener conto unicamente delle assenze verificatesi nei quattro mesi precedenti l’ultima malattia[250].
Di dubbia legittimità sono invece le clausole collettive che, nell’introdurre per la prima volta il comporto per sommatoria, prevedono, ai fini dell’esaurimento del periodo di comporto, la computabilità di assenze per malattia verificatesi antecedentemente alla data di stipulazione del contratto collettivo[251].
La tesi favorevole all’efficacia retroattiva delle predette clausole sottolinea che nella fattispecie non opera il principio del diritto quesito, invocabile solo in caso di successione di legge, e che la disciplina intertemporale è affidata alla libera determinazione delle parti contraenti, che possono pattuire l’efficacia retroattiva della clausole convenzionali. L’applicazione di tale criterio evita un’iniqua disparità di trattamento rispetto ai lavoratori ammalatisi nel periodo di vigenza del secondo contratto collettivo, consentendo il superamento del comporto ogniqualvolta la malattia si verifichi nell’intervallo tra due contratti collettivi[252].
2.2.3 Questioni inerenti al computo del periodo di comporto
I contratti collettivi rapportano il periodo di conservazione del posto ad uno spazio temporale per lo più espresso in mesi[253], o, più raramente, in giorni[254]. È invece di solito espresso in anni il termine assunto come arco temporale di riferimento per il comporto per sommatoria[255].
È controverso se nella traduzione in giorni dei periodi espressi in mesi, necessaria per consentire la valutazione delle assenze che non coincidano perfettamente con i mesi, debba essere adottato un parametro astratto di computo rappresentato dalla durata media del mese, cioè 30 giorni[256], o se, invece, occorra tener conto dell’effettiva consistenza di ciascun mese, in base al calendario comune, secondo il criterio desumibile dagli artt. 2963, 4° co., c.c. e 155, 2° co., c.p.c.[257]. Anche in materia di comporto per sommatoria il criterio basilare nel computo dei termini è quello contenuto negli artt. 2693 c.c. e 155 c.p.c., espressione di un principio generale applicabile tanto in materia processuale, quanto in materia sostanziale, per cui il mese si computa secondo il calendario comune, a meno che le parti collettive, nella loro autonomia negoziale, non abbiano disposto in modo diverso, adottando per il mese una durata convenzionale[258]. Di conseguenza il giudice di merito dovrà ricostruire la volontà negoziale, espressa nella norma pattizia, attraverso l’interpretazione complessiva delle clausole collettive e potrà escludere il riferimento al calendario comune solo quando l’indagine evidenzi l’adozione, per il mese, di una durata convenzionale[259]. Le previsioni collettive sono altresì determinanti per stabilire la computabilità o meno delle assenze infragiornaliere per malattia[260].
Per ciò che riguarda il calcolo materiale dei periodi di conservazione del posto sono sorti alcuni problemi, di carattere pratico, che interessano eventualmente anche i casi di determinazione equitativa del comporto per sommatoria[261].
Una prima questione concerne la possibilità di considerare, ai fini del decorso del comporto, anche i giorni festivi, o comunque quelli di fatto non lavorati all’interno di una data azienda (ad es. per uno sciopero), cadenti durante il periodo di malattia[262].
La giurisprudenza ha sempre offerto, al riguardo, una risposta univoca, avendo affermato in numerose decisioni che, indipendentemente dal fatto che il comporto sia determinato in mesi oppure in giorni, debbono includersi in esso anche i giorni non lavorativi o non lavorati nell’azienda[263]. In quei giorni opererebbe una presunzione di continuità dell’episodio morboso[264], naturalmente in difetto di prova contraria, che risulta difficile da fornire, a meno che non si tratti dei giorni successivi a quelli finali della malattia, ossia indicati come finali nella prognosi medica, e seguiti dal rientro in servizio[265]. Questo significa che la durata della malattia secondo il calendario viene assunta ad indice dell’equilibrio contrattuale salvaguardato dall’art. 2110 cod. civ. e non già la mancanza della concreta attività lavorativa, come era invece doveroso nella prospettiva del giustificato motivo obiettivo, concretizzandosi il pregiudizio nella cifra dei giorni lavorativi mancanti[266]. È pur vero che qui v’è una sottile finzione, dato che l’interesse aziendale viene pregiudicato nei soli giorni lavorativi, per cui potrebbe essere astrattamente giusto limitare a quelli il decorso del comporto. Nello stesso tempo, però, un sistema del genere comporterebbe disparità, poiché il periodo sarebbe diverso per ciascuno a seconda delle circostanze temporali casuali[267].
In materia non c’è un principio fisso e inderogabile, la legge ha rimesso al contratto la disciplina di questi dettagli. Si può solo affermare che se il contratto non dà indicazioni sul punto[268], limitandosi a prevedere un certo numero di mesi o giorni di comporto, sarà corretto comprendere in esso tutti i giorni del calendario, compresi quelli non lavorativi. In tal caso si suppone che le parti stipulanti abbiano voluto individuare una soglia temporale rapportata al soggetto, e come tale uguale per tutti, piuttosto che al concreto nocumento patito nel periodo dall’azienda. Danno che può anche non verificarsi, come nell’ipotesi di un lungo sciopero coincidente con la malattia del dipendente. Ciò riguarda virtualmente il solo comporto secco, poiché per quello frazionato un eventuale allungamento del termine interno, ottenuto con l’esclusione dei giorni non lavorativi, sarebbe compensato da un corrispondente allungamento di quello esterno, perciò con somma zero, se non negativa, per il lavoratore[269].
In termini in parte diversi si presenta il problema della computabilità nel comporto dei giorni di ferie, in caso di sovrapposizione fra le due cause sospensive. Fondamentalmente si debbono distinguere due situazioni. Qualora la malattia sia preesistente, le ferie non dovrebbero a rigore aver luogo, nel senso che il dipendente non può essere collocato in ferie, essendovi già in atto una precedente causa di sospensione ed avendosi altrimenti un’inaccettabile penalizzazione per il prestatore in ordine al godimento delle ferie medesime. Tale conclusione risulta rafforzata dal principio posto dalla Corte Costituzionale in ordine alla sospensione delle ferie in caso di sopravvenuta malattia, in base al quale è inammissibile qualsiasi vanificazione del diritto al riposo annuale[270].
D’altra parte, non può nemmeno ritenersi possibile che possa essere il lavoratore malato a pretendere di essere collocato «materialmente» in ferie per bloccare il decorso del periodo di comporto, oppure, a posteriori, per scomputare i giorni di ferie dal comporto ed invalidare il licenziamento intimato per la maturazione dello stesso. Anche questa conclusione, che la giurisprudenza aveva giustificato sulla premessa dell’efficacia meramente «obbligatoria» delle ferie[271], quantomeno in caso di sopravvenuta estinzione del rapporto, risulta ulteriormente rafforzata dalla sentenza della Corte Costituzionale appena citata, malgrado quanto è stato erroneamente affermato da una decisione della Cassazione[272].
Se invece la malattia è sopravvenuta a ferie già iniziate ed ha determinato la sospensione delle medesime, allora i giorni seguenti all’invio del certificato medico, e non più feriali, dovranno essere conteggiati ai fini del comporto, sia secco che frazionato[273].
2.2.4 Il calcolo del periodo di comporto nell’ipotesi di malattia provocata dal datore di lavoro
La malattia che impedisce il rientro in azienda prima dell’esaurimento del comporto è un profilo da non tralasciare, ciò risulta testimoniato anche dalla contrattazione collettiva. I contratti, infatti, dedicano una particolare disciplina alla malattia professionale (e all’infortunio sul lavoro) anche sotto il profilo della sospensione del rapporto, prevedendo, in genere la conservazione del posto fino alla guarigione clinica[274]. Si tratta di previsioni rilevanti anche perché il T. U. del 1965 si astiene dal sancire un principio del genere, cosicché anche per tali eventi, causati o occasionati dal lavoro, sul piano legislativo vale quanto l’art 2110 c.c. prefigura in termini di durata convenzionale della sospensione[275].
Con le previsioni dei contratti, tuttavia, non si risolvono tutti i problemi, sia perché ne fruiscono solo le malattie professionali (e gli infortuni) ai sensi del T.U. del 1965 e sia perché, anche per queste malattie, talora viene tenuto fermo il principio della limitazione temporale della sospensione[276].
Ora, non vi è dubbio che in tema di durata della sospensione in caso di malattia professionale o comunque imputabile al datore si tocchi uno dei punti più delicati dell’art 2110 c.c.[277]. L’eventualità che una malattia professionale, avente per definizione la sua causa nel lavoro, possa ad un certo punto non vincolare più alla conservazione del posto ed anzi porre i presupposti per il legittimo licenziamento del lavoratore da essa colpito, appare in contrasto anche con la concezione tradizionale del “rischio professionale”[278].
Il problema del trattamento da applicare a malattie di cui sia dimostrata l’imputabilità al datore di lavoro può essere affrontato in chiave tradizionale, vedendolo in particolare dallo stesso punto di vista del “risarcimento dei danni”. In questa prospettiva si è da tempo sostenuto che l’erogazione del trattamento di malattia non esclude, in caso di infermità “(…) dipesa da colpa del datore”, la risarcibilità del danno patito dal lavoratore[279]. Con la conseguenza che, laddove la malattia duri tanto da portare alla perdita del posto di lavoro, nel danno risarcibile dovrà a rigore comprendersi anche tale perdita[280].
Una ricostruzione diversa risulta prospettabile prendendo spunto dall’approccio che vede il dovere di sicurezza del datore di lavoro come “(…) vincolo gravante sul creditore di conservare al debitore la possibilità di adempiere senza danno (…)”[281]. A fronte dell’inadempimento di tale dovere, il lavoratore è legittimato ad astenersi dal lavoro senza perdere il diritto alla controprestazione retributiva. Si può, pertanto, ipotizzare che l’inadempimento del datore si rifletta sull’astensione dal lavoro anche dopo che il danno si è verificato. L’astensione dal lavoro avrebbe consentito di prevenire la malattia. A malattia insorta, la sospensione del rapporto può favorire la reintegrazione della salute compromessa, che è il bene tutelato dall’art 2087 cod. civ, ed evitare la lesione di interessi ad essa subordinati[282].
La traslazione del rischio della malattia sul datore nei limiti del comporto verrebbe così a trovare applicazione solo nei casi ordinari. Viceversa, nei casi caratterizzati dalla responsabilità del datore, per riflesso dell’imputabilità dello stato di impedimento ad una sua condotta illegittima, si avrebbe un obbligo di conservare il posto nei limiti della reintegrazione della incapacità di lavoro[283].
Pertanto, qualora la malattia derivi da condizioni morbigene esistenti nell’ambiente di lavoro di cui il datore debba considerarsi responsabile ex art. 2087 c.c., deve escludersi il computo delle assenze dal comporto[284]. Grava sul lavoratore la prova degli elementi oggettivi della fattispecie, sulla quale si fonda la responsabilità contrattuale del datore di lavoro. Nello specifico il lavoratore dovrà provare: il nesso di causalità, il danno alla salute, le assenze dal lavoro che ne conseguano e la malattia derivata dalle condizioni del lavoro di cui il datore debba rispondere ex art. 2087 c.c.[285].
Tali considerazioni valgono, a maggior ragione, per le assenze collegate con lo stato di invalidità del soggetto assunto ex lege n. 482 del 1968, in caso di adibizione a mansioni incompatibili[286]. A questo riguardo può essere utile accennare alla legge n. 12 marzo 1999, n. 68 che, per i lavoratori disabili, ha stabilito che la sopravvenuta inidoneità alla prestazione, causata da malattia o infortunio, non costituisce giustificato motivo di licenziamento nel caso sia possibile un’adibizione ad altre mansioni equivalenti ed anche inferiori (art. 4)[287].
In tali casi, secondo un’opinione diffusa, non sussiste un diritto del lavoratore ad un mutamento di mansioni. Lo jus variandi non può in nessun caso trasformarsi in obbligo di mutamento delle mansioni correlato al precetto dell’art. 2087 c.c., quale misura in concreto idonea a consentire la prestazione del lavoro senza danno per la salute del lavoratore. Le misure imposte al datore di lavoro dall’art. 2087 c.c. sono quelle idonee a ricondizionare i moduli produttivi e organizzativi alla salvaguardia della salute di tutti i lavoratori, mentre l’espediente di scambiare due o più lavoratori sulla stessa posizione, non varrebbe certo ad eliminare la eventuale nocività della prestazione, che subirebbe anzi un processo di diffusione[288].
Occorre tuttavia evidenziare che in caso di sopravvenuta infermità che renda il lavoratore inidoneo alle mansioni svolte, il datore di lavoro, prima di poter recedere dal contratto, deve fornire la prova di non poter adibire il dipendente ad altre utili mansioni, equivalenti o addirittura inferiori[289].
Tale principio, adottato dalle Sezioni Unite, e da escludersi qualora la diversa collocazione del lavoratore comporti aggravi organizzativi, è dunque sottoposto alla condizione che la prestazione rimanga utile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore. Quest’ultimo non può ritenersi obbligato a modifiche delle scelte organizzative, anche escludendo, da talune posizioni lavorative, le attività incompatibili con le condizioni di salute del lavoratore[290].
Nel caso di patologia che eccezionalmente derivi da condizioni di lavoro salubri, occorre distinguere due fattispecie. La prima si verifica quando il datore di lavoro non sia stato edotto che l’attività svolta dal lavoratore rechi danno alla sua integrità fisica, in tal caso nessun problema si può porre né con riferimento all’ordinario calcolo del comporto, né in termini di responsabilità ex art. 2087 c.c. La seconda ipotesi si riscontra quando al datore sia stato comunicato che le condizioni o l’ambiente di lavoro per il singolo dipendente sono morbigene (si pensi a particolari allergie o ipersensibilità verso determinate sostanze nocive, legni, rivestimenti, etc.). Sul punto si è pronunciata la Cassazione che, partendo dal presupposto che per qualsiasi responsabilità del datore di lavoro è necessaria la colpa, ha chiarito che quando l’espletamento delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza sia incompatibile con lo stato di salute del lavoratore e/o comporti l’aggravamento di una preesistente malattia, il datore di lavoro non può ritenersi responsabile per non aver adottato le misure idonee a tutelare l’integrità fisica del dipendente, ove non risulti che egli era a conoscenza dello stato di salute di quest’ultimo e dell’incompatibilità di tale stato con le mansioni affidategli[291].
In tale ultimo caso, oltre al diritto del datore di lavoro di far controllare l’effettiva dannosità (anche soggettiva) delle mansioni, il dipendente potrebbe essere licenziato solo una volta esclusa la possibilità di reperire altre mansioni utili[292], fermo restando che anche in caso di malattia comportante permanente inidoneità al lavoro debba comunque attendersi il superamento del periodo di comporto[293].
2.3 L’«eccessiva morbilità» come giustificato motivo obiettivo di recesso
L’interpretazione dell’art. 2110 cod. civ. e delle regolamentazioni contrattuali in tema di comporto non ha creato problemi sino a quando la malattia ha continuato per lo più a presentarsi nella forma «semplice» della malattia unica e continuativa, ovvero non inserita in una serie patologica protratta negli anni e composta da più episodi morbosi, intervallati da presenze più o meno momentanee al lavoro[294].
Questa diversa fenomenologia, apparsa agli inizi degli anni ’70 in un’atmosfera politica e sindacale particolarmente propizia, costrinse la giurisprudenza a confrontarsi con nodi del tutto nuovi. Si cominciò ad usare il termine «assenteismo», espressione ambigua nella quale era implicito il sospetto verso l’autenticità di quei certificati medici che rendevano possibili simili pratiche. I giuristi iniziarono a parlare di «eccessiva morbilità», fenomeno che danneggiava e preoccupava moltissimo le imprese. Larga parte della giurisprudenza sostenne che gli effetti provocati dalle malattie plurime e frazionate erano tali da integrare gli estremi del giustificato motivo obiettivo di recesso. Tale orientamento affermava che le imprese subivano un pregiudizio al «regolare funzionamento dell’organizzazione del lavoro», così consentendo il licenziamento di quei lavoratori le cui malattie, prese singolarmente, non superassero mai il periodo di comporto secco. Ciò presupponeva l’accoglimento della tesi affermata in dottrina[295], secondo cui tale nozione comprende anche fatti inerenti alla persona del lavoratore, non per la loro censurabilità soggettiva, ma per le ripercussioni obiettive dei medesimi sull’azienda[296].
Identificando la causa risolutiva non nell’evento morboso in sé, ma nel pregiudizio nascente dallo stesso, i canoni di valutazione delle singole fattispecie finivano con l’essere irriducibilmente diversi e largamente arbitrari, a seconda delle situazioni, dell’ottica personale del giudicante, delle contingenze processuali[297].
Nella sua indagine il magistrato doveva giocoforza spingersi a valutare i riflessi concreti delle malattie sulle aziende[298], in alcuni casi il danno era insito nella abnorme durata temporale delle assenze, o comunque nel loro ritmo frazionato o irregolare[299], tale da far venir meno, come osservavano meccanicamente tutte le pronunce, ogni equilibrio sinallagmatico del rapporto[300].
In altre situazioni, invece, si sottolineava la mera indicatività e non sufficienza del dato quantitativo, riconoscendosi egualmente la legittimità dei licenziamenti sulla base di altri elementi, come la scarsa fungibilità delle mansioni dell’assente (che aggrava ovviamente le conseguenze dell’assenza), le dimensioni non grandi dell’azienda, la probabile non reversibilità dello stato morboso[301].
Altra affermazione diffusa era quella secondo cui, più che il danno determinato dalle assenze passate del soggetto, era rilevante quello desumibile dalla ragionevole aspettativa che le stesse potessero ripetersi con eguale ritmo anche in futuro, rendendo definitivamente impossibile una minima continuità della prestazione lavorativa[302].
Numerosi erano i casi nei quali la natura cronica della malattia induceva i magistrati a ravvisare il giustificato motivo obiettivo in termini di prognosi sfavorevole sull’idoneità lavorativa del dipendente, spesso a seguito di approfonditi accertamenti peritali[303].
Questo indirizzo venne accolto anche dalla Cassazione, in una importante sentenza del 1977 che innescò un contrasto di orientamenti in seno alla Sezione Lavoro[304] e nella quale la Corte ravvisò la sussistenza del giustificato motivo obiettivo in un tasso di assenze pari al 55% delle giornate lavorative, protrattesi con carattere discontinuo e irregolare per un lungo periodo, ostacolando notevolmente il funzionamento dell’azienda e facendo venir meno la fiducia nella continuità delle prestazioni. Per la prima volta la Corte affermava esplicitamente che il mancato superamento del comporto non inibisce il licenziamento per giustificato motivo obiettivo, in modo da porre un freno normativo al dilagare dell’assenteismo[305].
Una reazione contro la tesi del giustificato motivo fu avanzata da una parte minoritaria della giurisprudenza di merito, la quale sosteneva che se le parti collettive si erano limitate a prevedere un comporto secco, avevano voluto garantire al lavoratore il diritto ad un nuovo ed integrale periodo di comporto per ciascuna malattia[306]. In diritto era questa la tesi più convincente, dato che rispettava la volontà manifestata dalle parti collettive circa la previsione di un comporto secco inderogabile[307].
Talvolta per giustificare il licenziamento dovuto ad eccessiva morbilità, si è fatto riferimento al concetto di scarso rendimento[308]. Non v’è dubbio che il mancato raggiungimento di certi risultati produttivi, allorché sia ricollegabile alla sfera individuale del prestatore, costituisce inesatto adempimento[309]. Tuttavia, poiché la prestazione di lavoro non è stata effettuata a causa della malattia, non può parlarsi di insufficiente rendimento in senso normativo[310].
2.3.1 L’intervento delle Sezioni Unite sull’art. 2110 c.c. e il giudizio di equità
Le Sezioni Unite sono intervenute a dirimere il contrasto giurisprudenziale sorto tra chi sosteneva la tesi del giustificato motivo obiettivo e chi affermava l’applicabilità delle clausole del comporto secco anche ai casi di eccessiva morbilità[311].
La Suprema Corte ha iniziato criticando la tesi per cui l’art. 2110 c.c. varrebbe soltanto per la malattia unica e continuativa. Infatti, né il linguaggio comune, né l’art. 2110 c.c. distinguono quando il singolare «malattia» debba essere riferito ad una categoria generale di eventi, che ricomprende in sé anche il succedersi di più malattie, in ipotesi irregolari e discontinue; pertanto, è arbitrario credere che il legislatore abbia inteso riferirsi esclusivamente ad una malattia «normale»[312].
Le Sezioni Unite hanno proseguito affermando che se in origine l’art. 2110 c.c. era legato da una connessione naturale con l’art. 2118 c.c., essa non arriva al punto di precludere diversi sviluppi interpretativi, una volta mutato il quadro di riferimento. Così, dopo il sopravvenire della l. n. 604 del 1966, l’art. 2110 c.c. si presta a disciplinare anche il succedersi di più malattie, in virtù della «forza espansiva» ad essa conferita dall’art. 32 Cost.[313].
La conseguenza di tali postulati è il rifiuto della tesi del giustificato motivo obiettivo, perché essa non dà spazio all’istanza soggettiva della tutela della salute, che vale per «qualsiasi tipo di malattia» e che non rientra fra le valutazioni di carattere meramente obiettivo contemplate dall’art. 3, l. n. 604[314]. Inoltre si ribadisce la prevalenza dell’art. 2110 c.c., in quanto norma speciale, sulla normativa generale del recesso[315], così come su quella del codice civile in tema di impossibilità sopravvenuta[316]. In questo modo le Sezioni Unite riportano la problematica nell’alveo naturale dell’art. 2110 c.c., operando un mutamento di prospettiva decisivo[317].
Poiché l’anima della norma è quella del contemperamento di interessi fra le opposte spinte a trasferire il rischio della malattia sulla controparte, nelle Sezioni Unite è sorto il dubbio se il periodo di comporto configurato dall’art. 2110 c.c. debba essere congegnato in maniera tale da valere anche per una pluralità di malattie. Non presentando problemi le clausole di sommatoria, vengono analizzate le due possibili interpretazioni di quelle del comporto secco: la prima è che il lavoratore abbia diritto ad un solo periodo di comporto nell’intera vita lavorativa, eventualmente anche con sommatoria, in relazione ai diversi episodi morbosi verificatisi in tutto il corso del rapporto; la seconda è che ad ogni nuova malattia ricominci a decorrere un nuovo termine di comporto[318].
Entrambe le interpretazioni portano a conseguenze non accettabili: la prima non tutela il diritto alla salute del lavoratore e la clausola che la contenga dovrà considerarsi nulla per violazione della norma inderogabile; la seconda è squilibrata a danno del datore e gli addossa a tempo indeterminato un rischio che la legge vuole circoscritto entro dati limiti, pertanto la clausola relativa dovrà considerarsi «non accettabile» o incongrua[319].
In sostanza, delle clausole di comporto secco è possibile solo una corretta interpretazione, nel senso della doverosa e integrale reiterabilità del periodo di conservazione del posto ad ogni nuova malattia. Per questo motivo, esse sono idonee a disciplinare la sola situazione della malattia continuativa ed isolata, determinando al contrario conseguenze abnormi se applicate all’eccessiva morbilità, in quanto in tal caso viene ad essere apertamente violato il criterio della congruenza fra fattispecie ed effetti[320].
Di conseguenza la mancanza di una clausola di sommatoria crea un vuoto di disciplina che farebbe ritenere praticamente inattuata la delega legislativa per il caso di pluralità di malattie, per cui il giudice dovrebbe sostituirsi al contratto collettivo (ed agli usi, in ipotesi assenti) determinando il comporto secondo equità. La valorizzazione di tale criterio di giudizio è resa possibile da una nuova idea, nata in seno alla Corte di Cassazione, in merito al contenuto dispositivo dell’art. 2110 cod. civ. Essa muove dalla percezione dell’«eccessiva morbilità» come fattispecie non regolata in presenza di clausole di mero comporto secco. L’eccessiva morbilità viene sostanzialmente costruita come fattispecie autonoma rispetto a quella della malattia unica[321] e come tale bisognosa di una apposita regolamentazione.
2.3.2 Segue: contratto collettivo e giudizio di equità
In base alle considerazioni indicate nel paragrafo precedente, il giudice dovrà preliminarmente sottoporre al proprio esame la disciplina contrattuale per verificare se in essa sia contenuta o no una clausola che consenta, sia pure per implicito[322], la sommatoria di più assenze per malattia. Solo in caso negativo potrà dar corso alla determinazione equitativa. In questo giudizio preliminare di diritto sulla sussistenza delle condizioni per poter pronunciare secondo equità, egli dovrà procedere ad un’interpretazione attenta e rigorosa del contratto collettivo, così da poter ravvisare con sicurezza l’esistenza di una carenza di disciplina. Questa è una valutazione che in alcune situazioni ha dato luogo a dubbi in parte non giustificati[323].
Nel caso vi sia una esplicita previsione di clausole di sommatoria, non essendovi alcuna carenza, il giudice dovrà rispettare la volontà collettiva. Le S.U. confermano che la determinazione del comporto è prioritariamente rimessa alle parti, per cui la presenza di una norma contrattuale interpretabile in quel senso toglie ogni spazio all’intervento giudiziale, dovendosi rispettare l’ordine delle fonti stabilito dall’art. 2110 c.c.[324].
Un’altra conseguenza tratta dalle S.U. è che l’intervento giudiziale non può aver luogo neppure nel caso, già ipotizzato dalla sentenza n. 5165 del 1978, in cui il contratto collettivo «abbia deliberatamente voluto lasciar fuori proprio l’ipotesi della ripetitività di episodi morbosi» e «non rimarrebbe, per poter dare una regola al caso, che il ricorso ai congegni risolutori previsti in via generale».
Non convince la tesi sostenuta da altre pronunce della Cassazione, secondo le quali le eventuali clausole di esclusione positiva del comporto per sommatoria sarebbero nulle per contrasto con l’art. 2110 c.c., così venendosi egualmente a creare, per conseguente lacuna di disciplina, lo spazio per l’equità[325].
Una nullità vi sarebbe soltanto nell’ipotesi ben diversa di un’esclusione intesa come sottrazione del fenomeno della pluralità di malattie al campo di applicazione della norma[326].
Naturalmente il mero silenzio delle parti in ordine alla cumulabilità di più malattie non deve essere interpretato come indice di volontà negativa.
L’eventuale esistenza di usi preclude il ricorso, residuale, all’equità. Gli usi oggetto del rinvio legale sono gli usi propriamente «normativi»[327], caratterizzati dai due tradizionali requisiti della ripetizione uniforme, costante e generale di un dato comportamento e dell’opinio iuris ac necessitatis[328]. Trattasi di normali usi secundum legem, con funzione integrativa del precetto legale.
Il requisito della generalità dovrebbe comportare che per acquistare giuridicità a questi fini, l’uso dovrebbe estendersi ad un certo ambito omogeneo di destinatari, come i lavoratori appartenenti ad una data categoria od area contrattuale. È da escludere che la norma possa riferirsi anche a prassi, risalenti nel tempo, circoscritte ad una sola entità aziendale, per quanto di vaste dimensioni[329].
2.3.3 La natura del giudizio di equità ed il termine «interno» del comporto per sommatoria
L’equità chiamata in causa dall’art. 2110 c.c. deve essere riportata alla categoria dell’equità integrativa o suppletiva, in particolare come species di quella che l’art. 1374 c.c. colloca nel novero delle fonti di integrazione del contratto. Su questo concordano tutte le pronunce della Cassazione[330]. L’equità integrativa si caratterizza per il fatto che la norma che la prevede, nel considerare un dato rapporto, avendo valutato errato o inadeguato porre una regolamentazione completa che non tenga conto di situazioni particolari individuali o di settore, ha rinunciato ad una disciplina titolare preventiva. Al giudice è affidato il compito di attuare correttamente lo spirito della norma, attraverso «l’integrazione della fattispecie già delineata dalla stessa, oppure la determinazione sempre concreta degli effetti genericamente previsti dalla norma. L’equità quindi non costituisce l’applicazione della norma, ma la integra e completa»[331].
I modi di svolgimento del giudizio di equità nella concreta esperienza giurisprudenziale seguono le raccomandazioni, piuttosto eloquenti, delle S.U.
Secondo l’orientamento prevalente, il vuoto della disciplina, che determina la necessità dell’intervento equitativo, ha ad oggetto sia il termine interno che quello esterno del comporto per sommatoria. Il primo non è altro che la durata in sé del periodo di conservazione del posto, mentre il secondo è l’arco temporale nell’ambito del quale possono sommarsi le assenze frazionate. Questa terminologia è stata introdotta dalle stesse pronunce delle S.U., ove si è precisato che il giudice deve determinare entrambi i termini temporali[332].
Per il termine interno, ai fini della eccessiva morbilità, si deve ritenere possibile mutuare sic et simpliciter il termine previsto per il comporto secco. Questo uso «dimezzato» dell’equità ha trovato riscontro in molte decisioni di merito, che hanno dichiaratamente ritenuto di aderire al principio delle S.U. considerando frazionabile il comporto base e prendendo come arco di riferimento quello della vigenza formale del contratto collettivo[333], che rimarrebbe l’unico punto determinato in via di equità. L’equità così intesa è molto sbiadita, poiché la stessa individuazione dell’arco temporale tende a porsi, più che come frutto di un intervento esterno, come proiezione della volontà delle parti.
È per tale motivo che alcune pronunce hanno affermato la non necessità, anche se solo limitatamente al caso concreto, del ricorso all’equità[334] e che il vuoto di disciplina ipotizzato possa essere istituzionalmente colmato in via interpretativa[335].
Il primo parametro del giudizio equitativo deve essere il contratto collettivo, dato che l’equità, pur muovendosi in uno spazio esterno rispetto alla dichiarazione, deve «sottrarre» ad essa tutti gli elementi di riferimento possibili all’interno dei limiti fondamentali tracciati dalla volontà delle parti[336]. A favore di questa soluzione vi è una ragione di eguaglianza, che oggi acquista maggior spessore in virtù della proclamazione, da parte della Corte Costituzionale[337], del principio di parità di trattamento, essendo giusto che due lavoratori, protagonisti di assenze continuative e non continuative, fruiscano dello stesso comporto in termini di durata assoluta.
In alcune pronunce la Cassazione ha precisato che non può invece ritenersi corretto applicare sic et simpliciter, in via analogica, la disciplina completa del comporto per sommatoria prevista dai contratti collettivi di altri settori, sovrapponendosi al dato interno ricavabile dal contratto in ordine al comporto secco[338].
2.3.4 Il termine «esterno» del comporto per sommatoria
Sulla questione della determinazione equitativa del c.d. termine esterno, l’arco temporale entro il quale può darsi luogo alla sommatoria di più assenze non continuative, le S.U. avevano suggerito un criterio preciso[339]. Questo consiste nel ravvisare l’arco di tempo rilevante in un periodo «pari a quello di efficacia del contratto collettivo», o altrimenti di ricorrere ad «altri ragionevoli accorgimenti», purché tali da garantire un equilibrio fra gli interessi[340].
Soprattutto in un primo periodo molte sentenze di merito, interpretando erroneamente il criterio suddetto, hanno identificato l’arco temporale nell’ambito di vigenza formale dello specifico contratto collettivo applicato nella fattispecie, col risultato di far decorrere il calcolo delle assenze dal momento concreto di stipulazione o di ultimo rinnovo di quel contratto in avanti[341]. È palese che questa soluzione venga a creare una disparità di trattamento a svantaggio di quei lavoratori che cadono in malattia in un momento lontano dalla data di stipulazione del contratto, in quanto per essi l’arco viene ad essere assai più lungo e crescono ovviamente le probabilità che il comporto sia di fatto superato. Al contrario, vengono favoriti coloro le cui malattie cadono o in un momento di poco successivo alla data di stipulazione del contratto o in uno di poco anteriore al rinnovo, che determina l’inizio di un nuovo periodo, o comunque a cavallo fra i periodi suddetti[342].
Un sempre più consistente filone della giurisprudenza di merito[343] ha accolto l’interpretazione data dalle S.U., le quali avevano parlato di un periodo pari a quello di efficacia media dei contratti collettivi. Tale periodo è appunto pari a tre anni, i quali non dovranno essere calcolati (tesi del triennio c.d. reale) in riferimento al periodo formale di vigenza di quel contatto, ma dovranno essere adattati alla vicenda temporale di ciascun lavoratore, con decorrenza quindi, dalla data del licenziamento, e con un calcolo a ritroso nel tempo che può naturalmente tener conto anche di assenze verificatesi nel corso della vigenza del precedente contratto. In questo modo si stabilisce un arco temporale eguale per tutti e non mutevole di caso in caso, evitando le iniquità intollerabili della soluzione della c.d. vigenza formale[344].
2.4 Licenziamento intimato durante il c.d. periodo di comporto
L’art. 2110 c.c. non si esprime sulle conseguenze in ordine alla sanzione da applicare al licenziamento illecitamente irrogato in pendenza del periodo di comporto. Si debbono distinguere due ipotesi. La prima è quella del licenziamento determinato, ed esplicitamente motivato, dallo stesso stato di malattia, e comminato malgrado la non decorrenza del periodo di comporto, o per dispregio intenzionale al divieto legale, o per l’erronea convinzione circa l’avvenuta maturazione del periodo (che può essere a sua volta dovuta ad un errore materiale o ad un’erronea interpretazione della clausola contrattuale di comporto). Rientrano in questa categoria anche i licenziamenti intimati sul presupposto dell’operatività della regola del g.m. obiettivo nelle situazioni di eccessiva morbilità, così come vi rientrano i licenziamenti di lavoratori le cui ripetute assenze non superano la soglia complessiva individuata a posteriori del giudice secondo equità[345].
In questi casi il giudice, accertato il difetto di giustificazione del licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, lo dichiara illegittimo e applica la tutela reintegratoria attenuata, così come previsto dall’art. 18 Stat. Lav., comma 7, novellato dalla legge n. 92 del 2012. Tale licenziamento, cosiddetto ingiustificato qualificato, è annullabile e non nullo[346].
Strutturalmente diversa è l’ipotesi del licenziamento intimato in pendenza del comporto, ma per ragioni estranee allo stato di malattia. È indubbio che l’art. 2110 c.c. inibisce anche questo recesso. Dato che il potere di recedere risorge soltanto dopo il decorso del periodo di comporto, ciò significa che scopo della norma non è soltanto quello di impedire il licenziamento per malattia, ma quello più radicale di rendere immune il dipendente malato, entro certi limiti temporali, da ogni minaccia al posto di lavoro, così da garantirgli i mezzi di sussistenza[347].
Se questo è l’interesse tutelato dalla norma, è chiaro che essa ha voluto introdurre un ostacolo temporaneo all’esercizio del potere di recesso, idoneo ad incidere soltanto sull’efficacia, e non già sulla validità dello stesso. La sanzione appropriata è quindi di tipo sospensivo, con mera inefficacia provvisoria del licenziamento intimato durante il comporto. Ciò non preclude la successiva produzione degli effetti risolutori, i quali vengono differiti al momento della cessazione della causa legale di sospensione del rapporto di lavoro (quindi al momento della guarigione del soggetto o dello spirare del comporto), senza bisogno, a quel punto, di dar corso ad una nuova manifestazione di volontà. Ciò si accorda anche col generale principio di conservazione degli atti giuridici, e in particolare del negozio (art. 1367 c.c.), che di per sé non sarebbe decisivo[348].
La posizione tradizionale della giurisprudenza, in specie della Cassazione, ha sempre seguito la tesi dell’inefficacia[349], malgrado un’isolata ribellione nel senso della nullità assoluta del recesso[350]. Quest’ultima tesi è stata sostenuta anche da una parte della giurisprudenza di merito, la quale poneva l’accento sul carattere imperativo dell’art. 2110 c.c. e sui suoi riflessi di ordine pubblico[351]. Tale affermazione, però, non sembra sufficiente a dimostrare l’assunto, dal momento che fra l’indubbia natura imperativa della norma e la sanzione della nullità non c’è quel collegamento automatico e necessario che si pretenderebbe, dovendosi invece distinguere fra l’ipotesi in cui lo scontro fra l’interesse tutelato e l’atto datoriale sia diretta e quella in cui invece sia più indiretta e sfalsata, e dovendosi altresì convenire che questa differenza di struttura incide sul regime del vizio. Il medesimo bilanciamento fra le contrapposte posizioni sopra delineate è presente anche in dottrina, presso la quale tradizionalmente prevale la tesi dell’inefficacia[352].
La conclusione cui si è pervenuti (dalla quale deriva il diritto del lavoratore a pretendere le retribuzioni che sarebbero maturate nel residuo periodo di divieto, ma non anche quello alla reintegrazione nel posto di lavoro dopo la cessazione della malattia) vale sia per le ipotesi residuali di licenziamento tuttora regolate dall’art. 2118 c.c.[353], che, nell’ambito della disciplina limitativa, per i casi di recesso per g.m. soggettivo[354], nonché per g.m. obiettivo e per riduzione di personale[355].
A proposito di questa particolare e discussa figura di recesso va ricordata la possibilità, invero assai controversa, di considerare il tasso di assenteismo per malattia come elemento rilevante ai fini della scelta dei soggetti da licenziare, in collegamento col criterio delle esigenze tecniche e produttive[356], ma ciò non significa assumerlo come causa legittimante del licenziamento collettivo. Naturalmente, per le ipotesi di recesso vincolato appena ricordate, si potrà parlare di inefficacia, soltanto in quanto vi sia validità, ossia sussistenza della fattispecie di giustificazione, altrimenti si l’applicherà l’art. 18 st. lav. L’inefficacia, quindi, suppone la validità, mentre è assorbita dall’invalidità[357].
Per quanto riguarda l’ipotesi del licenziamento per giusta causa l’opinione tradizionale ritiene che questo sia possibile anche durante la malattia. La presenza di una causa ostativa all’ulteriore proseguibilità (anche provvisoria) del rapporto prevale, per la sua gravità, sulla protezione garantita dall’art. 2110 c.c.[358]. Seguendo l’opinione contraria, sostenuta da diverse pronunce di merito[359], si giungerebbe alla conseguenza abnorme di ritenere inibito il recesso malgrado la commissione di fatti gravissimi da parte del dipendente (o la scoperta degli stessi ove compiuti precedentemente)[360].
La risoluzione per giusta causa, in costanza del periodo di comporto, può intervenire anche quando la cognizione dei fatti da parte del datore di lavoro sia anteriore all’inizio della malattia e la contestazione sia successiva a questa[361]. Le obiettive limitazioni eventualmente connesse all’infermità pongono il problema di coordinare la necessaria immediatezza del licenziamento per giusta causa con le imprescindibili esigenze di effettività dei principi di contraddittorio e difesa.
Salvo prova contraria, l’effettiva conoscenza della comunicazione del licenziamento si ritiene presumibile (art. 1335 c.c.; art. 139 c.p.c.) in presenza di notifica del provvedimento espulsivo all’indirizzo del dipendente[362], ipotizzandosi invece la necessità di notifica dell’atto nelle mani del lavoratore (art. 238 c.p.c.) in caso di ricovero ospedaliero[363].
Il particolare stato patologico del lavoratore, ovvero il suo ricovero o isolamento, che siano suscettibili di precluderne od ostacolarne di fatto la piena e libera attuazione, destano maggiori perplessità con riguardo alle garanzie di contraddittorio e di difesa. Il potere di recesso dovrebbe considerarsi sospeso finché perduri la difficoltà o l’impossibilità di difesa, salva la facoltà del datore di avvalersi della sospensione cautelare[364] o di recarsi nel luogo di degenza del dipendente (art. 255 c.p.c.). Spetta allora al giudice contemperare, con prudente apprezzamento delle circostanze, le rispettive esigenze delle parti stabilendo a tal fine un congruo termine[365].
Il licenziamento sarà possibile anche nei casi di cessazione integrale dell’attività dell’impresa, nei quali viene meno il substrato materiale della prestazione[366]. La sanzione applicabile qualora la motivazione addotta dal datore di lavoro al fine di ottenere l’estinzione immediata del rapporto (es. una giusta causa o una cessazione di attività) sia risultata insussistente, è quella dell’art. 18 st. lav.[367].
La tesi dell’inefficacia si presenta del tutto coerente anche rispetto al caso di malattia sorta dopo l’intimazione del licenziamento con preavviso, infatti l’orientamento giurisprudenziale (talora in applicazione di previsioni esplicite dei contratti collettivi) contempla la provvisoria sospensione del decorso del termine di preavviso in caso di sopravvenuta malattia[368].
2.4.1 Segue: La questione della malattia irreversibile
Si è discusso in passato se il datore di lavoro sia tenuto ad assegnare al prestatore mansioni diverse dalle originarie, quando queste siano divenute incompatibili con lo stato irreversibile di infermità del prestatore stesso, o se in tal caso si configuri un giustificato motivo o giusta causa di licenziamento. In proposito vi sono due orientamenti contrapposti: quello nel senso della legittimità del licenziamento motivato con tale circostanza, indipendentemente dalla possibilità e persino facilità di assegnazione al lavoratore delle nuove mansioni compatibili con il suo stato di salute[369] e l’orientamento opposto, secondo il quale dovrebbe ammettersi anche la dequalificazione professionale, quando questa sia inevitabile per salvare il posto di lavoro[370]. Si deve ritenere che in questo caso il discrimine tra il licenziamento giustificato e quello ingiustificato sia costituito dall’entità della perdita che sul datore di lavoro prevedibilmente graverà in conseguenza della prosecuzione del rapporto, come accade per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo[371].
Superata una determinata soglia, la cui determinazione è oggi affidata al giudice caso per caso, la perdita eccede la copertura assicurativa dovuta dal datore al prestatore di lavoro e giustifica il licenziamento. La valutazione del giudice non può che vertere sulla questione se la perdita attesa sia superiore o meno a un certo limite, che può essere sempre quantificato in termini monetari.
Si discute pure se il carattere permanente e irreversibile dell’infermità del lavoratore, quando non sia possibile l’assegnazione di nuove mansioni compatibili, giustifichi o no la risoluzione del rapporto anche prima della scadenza del periodo di comporto. La tesi con cui si propugna l’applicabilità della disciplina ordinaria, con conseguente inibizione del licenziamento fino alla scadenza del comporto, è sostenuta dalla legge, che non distingue il caso dell’infermità guaribile da quello dell’infermità inguaribile[372]. Inoltre bisogna considerare che l’esigenza sociale di tutela del lavoratore malato, la quale è alla base della «copertura assicurativa» della malattia inderogabilmente contenuta nel contratto di lavoro, non è certamente meno grave nel secondo caso rispetto al primo[373]. Tuttavia in giurisprudenza prevale l’orientamento contrario, secondo il quale l’art. 2110 c.c. si applica soltanto al caso di malattia temporanea, mentre l’inidoneità irreversibile al lavoro dovrebbe qualificarsi come giustificato motivo oggettivo di licenziamento, con conseguente licenziabilità immediata del lavoratore affetto da impedimento inguaribile[374]. È ritenuta causa di giustificata risoluzione per impossibilità sopravvenuta la rilevante probabilità di aggravamento di malattia cronica o delle condizioni di salute del lavoratore per effetto della prosecuzione dello svolgimento delle sue mansioni[375].
2.5 Il licenziamento per superamento del comporto
Una volta che il periodo di comporto sia decorso senza che si sia avuto il rientro in servizio del lavoratore per la cessazione dell’evento morboso, non opera più a suo favore il beneficio della sospensione del rapporto e il datore di lavoro «ha diritto di recedere dal rapporto a norma dell’art. 2118», questo è quanto dispone l’art. 2110 c.c., comma 2.
La formulazione di questo inciso risolve un primo problema che poteva suscitare qualche dubbio dogmatico: quello attinente alla necessità di una dichiarazione formale di recesso per determinare la risoluzione del rapporto[376]. Di ciò si sarebbe potuto dubitare muovendo da una prospettiva teorica che concepisse la malattia come impossibilità temporanea, dato che, per il comma 2 dell’art. 1256 c.c. («Se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento»), l’estinzione del rapporto che consegue al venir meno dell’interesse del creditore a ricevere la prestazione impossibile ha carattere automatico. Sotto questo aspetto vi sarebbe quindi una specifica deroga al diritto comune[377]. Muovendo invece dalla premessa dell’impossibilità parziale, l’art. 2110 c.c. non comporterebbe alcuna deroga, poiché l’art. 1464 c.c. prevede il diritto della parte che subisce l’impossibilità di «recedere dal contratto qualora non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale».
Il problema di fondo è quello del regime sostanziale del recesso datoriale. Fino al sopravvenire della legislazione limitativa dei licenziamenti, non sorgevano particolari difficoltà interpretative, la disciplina si limitava a sancire la fine del regime di sospensione e quindi d’inibizione temporanea all’operatività della normale disciplina del recesso ordinario, che era quella del recesso ad nutum[378].
Una volta tramontato tale principio si è posto il problema del coordinamento della regola speciale con il sistema di stabilità. Una parte della giurisprudenza[379] e della dottrina[380] hanno cercato di argomentare che l’effetto della maturazione del comporto era divenuto semplicemente quello di rimuovere il divieto di recesso, ma non anche di consentirlo. Secondo questa linea di pensiero al datore di lavoro si imponeva di dimostrare la sussistenza di un’ulteriore ragione produttiva o organizzativa integrante gli estremi del giustificato motivo obiettivo, oltre l’avvenuto superamento del comporto. Si rilevava che dopo il quasi totale assorbimento dell’art. 2118 da parte della l. n. 604, anche il rinvio ad esso, contenuto nel comma 2 dell’art. 2110 c.c., dovesse essere reinterpretato come rinvio alla nuova disciplina del recesso, che si fonda sulla regola opposta, e quindi come un rinvio di natura formale, come tale destinato a subire le ripercussioni di tutti i mutamenti che abbiano a verificarsi nella sfera della normativa legale di riferimento[381].
L’orientamento giurisprudenziale prevalente sostiene, invece, la libera licenziabilità del lavoratore che abbia oltrepassato i limiti del comporto, supponendo che il rinvio all’art. 2118 c.c., evidentemente concepito come rinvio materiale, non sia obsoleto[382].
Nel contesto del codice civile tale questione era facilmente risolta nel senso che non vi era da «autorizzare» alcun recesso, essendo sufficiente far rinvio all’art. 2118 c.c. per ripristinare una situazione di ordinaria estinguibilità del rapporto cui si era momentaneamente derogato per effetto della stessa norma[383].
Infatti, la determinazione del comporto è frutto di un contemperamento fra due interessi, indice di un adattamento dell’art. 2110 c.c. rispetto ai principi del diritto comune in tema d’impossibilità, che prendono in considerazione soltanto l’interesse del creditore a non tenere più in sospeso il ricevimento della prestazione e non anche di quello del debitore alla conservazione del rapporto. Il comporto rappresenta pertanto il limite oltre il quale riacquista tutela l’interesse del creditore a sciogliersi dal rapporto e, contemporaneamente, viene meno il diritto del lavoratore di beneficiare di un regime di irrecedibilità e di assentarsi dal lavoro. Se ci si limita a guardare al divieto di licenziare, è lecito affermare che l’unica conseguenza dell’esaurimento del comporto è che «si passa da una fase in cui non si poteva licenziare ad una in cui si può di nuovo licenziare»[384]. Il comporto è anche altro: il limite massimo del diritto di assentarsi dal lavoro, cioè il limite sino al quale si può spingere un comportamento che determina l’inattuazione di una delle due obbligazioni fondamentali e quindi, bene o male, un’alterazione funzionale del rapporto[385].
Non c’è motivo di chiedere, a comporto esaurito, una seconda valutazione degli interessi, oltre a quella avvenuta nel momento in cui si è fissato il comporto. Il licenziamento[386] è sostanzialmente giustificato per l’ordinamento dal mero decorso del tempo nel perdurare della condizione di impossibilità della prestazione[387]. È sintomatico, del resto, che alcuni sostenitori della tesi criticata abbiano dovuto ammettere che il giustificato motivo obiettivo si può ritenere, a quel punto, implicito nel decorso del periodo[388], per una presunzione di pregiudizio aziendale che non richiede di essere ulteriormente sostenuta sul piano probatorio. Qualora si ritenesse necessaria una valutazione ex novo del giustificato motivo obiettivo, si riaprirebbe la strada a tutte quelle incertezze che si speravano superate dopo le Sezioni Unite e si otterrebbe perciò un cattivo risultato anche dal punto di vista dell’applicazione al caso concreto[389].
In giurisprudenza si è anche affrontato il tema della pretesa violazione del principio dell’immutabilità della motivazione, nel caso di un recesso che era stato intimato per il superamento del comporto e che si era poi tentato di trasformare in un licenziamento per giustificato motivo obiettivo[390], o in quello inverso in cui le assenze erano state poste a base del comporto. In questa seconda ipotesi alcune decisioni della Cassazione non hanno giustamente ravvisato alcuna illegittima modifica della motivazione[391], dato che, come è stato sottolineato di recente [392], la motivazione dell’atto consiste nell’allegazione di fatti assunti come giustificativi e non anche nella qualificazione giuridica degli stessi, che compete in ultima analisi al magistrato, naturalmente nei limiti della compatibilità col principio della domanda. Se quindi il datore di lavoro si è riferito, nella motivazione, alle assenze per malattia del dipendente come fatto integrante un giustificato motivo obiettivo, non gli sarà inibito di correggere questa erronea qualificazione in un momento successivo od anche in giudizio, richiamandosi al superamento del periodo di comporto, in ipotesi avvenuto in virtù di quelle stesse assenze, purché ne faccia esplicita e rituale richiesta[393].
Invece, l’enunciazione della somma complessiva delle assenze nella lettera di licenziamento deve ritenersi doverosa (non basterà dire «avendo lei superato il comporto…») e vincolante, giacché contrassegna la delimitazione del fatto assunto dal datore di lavoro a motivo del recesso[394].
Sotto altro aspetto il formale richiamo all’art. 2118 c.c. è altresì decisivo per ritenere il datore di lavoro obbligato a concedere il preavviso. In astratto potrebbe osservarsi che il preavviso, in quanto funzionale al reperimento di una nuova occupazione, non ha senso per un dipendente che continua ad essere malato. Ma va rilevato che la regola del preavviso è ormai sganciata dalla sua originaria giustificazione funzionale, concretandosi lo stesso nel mero riconoscimento di un arrotondamento economico con finalità prevalentemente assistenziali[395]. È evidente che qui si darebbe luogo all’attribuzione dell’indennità sostitutiva, non potendosi avere per definizione il preavviso lavorato.
Questa fase del rapporto pone anche un secondo e diverso ordine di problemi, ovvero se il legittimo esercizio della facoltà di recesso presupponga che il dipendente malato continui ad essere assente dal servizio o se invece esso possa aversi dopo il superamento del comporto, malgrado la intervenuta ripresa del lavoro da parte del dipendente. Nella giurisprudenza della Cassazione si è andata affermando la discutibile tesi per cui l’avvenuto rientro al lavoro non impedirebbe il recesso, potendo ben concedersi all’impresa un certo spatium deliberandi occupato dai tempi tecnici per gli accertamenti sulla posizione del dipendente, ed essendovi soltanto un’esigenza di tempestività, concetto più largo di quello di immediatezza valevole per la giusta causa, dovuta alla necessità di non lasciare il rapporto in uno stato di permanente risolubilità[396]. Infatti, il recesso non necessariamente deve intervenire contestualmente al superamento del comporto, né presuppone la perdurante assenza dal lavoro, ma, per non lasciare il rapporto in un’innaturale situazione di risolubilità in contrasto con il regime della stabilità, in applicazione dei criteri di correttezza e buona fede, deve essere comunicato nello spazio di tempo necessario per valutare convenientemente nel suo complesso la serie di episodi morbosi. In tal modo il datore di lavoro potrà valutare se gli stessi integrino la fattispecie legittimante ed accertare la convenienza della protrazione del rapporto nonostante le numerose assenze dal lavoro. La riammissione in servizio ed il prolungato, mancato esercizio della facoltà di recesso possono valere come rinuncia del datore di lavoro per comportamento concludente. Riguardo all’onere della prova, la Suprema Corte ha evidenziato che spetta al giudice del merito valutare se il ritardo risulti o meno idoneo a concretizzare una rinuncia al licenziamento, con una valutazione che, se congruamente e logicamente motivata, si sottrae al sindacato del giudice di legittimità. Il giudice dovrà tener conto delle caratteristiche organizzative e dimensionali dell’impresa, della maggiore o minore intermittenza delle assenze, delle modalità cui si accompagna[397].
Quale che sia il soggetto onerato, è essenziale stabilire se la tempestività debba essere verificata con riferimento alla malattia nel corso o all’esito della quale è stato superato il periodo di comporto, oppure con riferimento all’ultima assenza valutata dal datore di lavoro ed alla distanza temporale che separa quest’ultima dall’atto espulsivo. Tale soluzione avrebbe l’effetto che ogni, pur breve, nuova assenza per malattia “rimetterebbe in termini” il datore di lavoro, salvo però, con il decorrere del tempo, il proporzionale spostamento in avanti del termine esterno e la conseguente inutilizzabilità delle assenze più lontane. È evidente che solo la prima opzione interpretativa risulta idonea ad evitare quell’innaturale situazione di soggezione in cui si troverebbe il lavoratore[398]. Resta inteso che la tacita rinuncia non è configurabile ove nell’intervallo tra il superamento del comporto e l’adozione del licenziamento siano continuate le assenze per malattia, sì da doversi ritenere che il lavoratore non abbia mai ripreso l’attività lavorativa[399], salva la legittimità e decisività della regolamentazione eventualmente dettata dalla contrattazione collettiva, come di fatto accaduto per i settori metalmeccanico e commercio[400].
È frequente che i contratti collettivi prevedano un’ulteriore garanzia per il lavoratore la cui malattia venga a protrarsi oltre il periodo di comporto: la possibilità di essere collocato, a sua richiesta, in aspettativa, non retribuita per un certo tempo, così da evitare la risoluzione del rapporto. Si realizza così una sospensione consensuale del lavoro e dello stipendio, della durata di qualche mese, nella speranza per il lavoratore di porsi in condizione di riprendere il lavoro prima della nuova scadenza[401]. Si configura in tal caso sostanzialmente un ampliamento del periodo di comporto, inteso come periodo di inibizione del licenziamento, a richiesta del lavoratore interessato.
Trattandosi di un istituto non imposto dalla legge e di origine contrattuale, è evidente che la sua disciplina dipende interamente dalle previsioni dei singoli contratti collettivi[402].
Capitolo III
Malattia e sicurezza
Sommario: 3.1 L’obbligo di sicurezza alla luce dei principi costituzionali: il diritto all’integrità fisica – 3.1.1 «Personalità morale» e dignità della persona – 3.2 Le fonti dell’obbligo di sicurezza – 3.3 Norma generale e norme speciali: titolarità, ambito di applicazione e contenuto dell’obbligo di sicurezza – 3.4 La natura dell’obbligo di sicurezza – 3.5 Il contenuto dell’obbligo di sicurezza nell’interazione fra norma generale e d.lgs. n. 81/2008 – 3.6 L’azione di adempimento dell’obbligo di sicurezza
3.1 L’obbligo di sicurezza alla luce dei principi costituzionali: il diritto all’integrità fisica
L’inserimento dell’art. 2087 c.c. nelle norme del codice civile sancì l’esistenza di un’obbligazione di sicurezza del lavoro a carico dell’imprenditore ed il corrispondente diritto soggettivo dei lavoratori alla tutela dell’integrità psicofisica[403].
Le innovazioni di rilievo consistono nell’autonomia dell’obbligazione di sicurezza e nella stessa ampiezza di quest’ultima. Il datore di lavoro, infatti, «è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatore di lavoro».
L’obbligo di sicurezza, letto alla luce del valore giuridico della persona, esprime, come riconosciuto dalla migliore dottrina, un dovere generale di astensione e porta con sé l’idea che “la tutela sostanziale di un valore della persona in quanto tale consista essenzialmente negli effetti dell’azione inibitoria, e cioè in un ripristino dell’altrui non facere, e nella reintegrazione del comando giuridico che si ottiene attraverso obblighi positivi”[404].
Questa riflessione consente di cogliere un’importante evoluzione della tutela giuridica della persona: dal dovere di astensione, proprio della responsabilità aquiliana, alla logica del facere, propria del rapporto obbligatorio[405].
L’idea di persona, nell’originario impianto del codice civile, era in realtà difficile da rintracciare[406], poiché nell’universo giuridico immaginato dal legislatore si trova l’individuo o, meglio, «la massa amorfa degli individui. Non le persone. […]. Non la persona con i suoi valori»[407].
Anche nella Relazione al codice viene rifiutata la concezione di persona come “atomo disperso … staccato dall’organismo sociale, portatore di interessi privati in opposizione all’interesse pubblico e di diritti individuali naturali preesistenti allo Stato”[408].
La lettura evolutiva dei profili “personalistici” del codice civile è avvenuta grazie all’avvento della Costituzione[409], che ha consentito di superare la limitativa concezione umana che emergeva dal modello prefigurato dal legislatore del 1942[410].
In verità nel Libro V del codice, nel quale si colgono chiaramente i segni del modello corporativo e sul quale si sono concentrate le azioni demolitrici del legislatore e della Corte costituzionale, emerge che una “qualche concessione alla persona sembrava essere stata fatta”[411].
È in tale libro che è contenuto l’unico riferimento alla “personalità morale” che abbia trovato posto nel codice civile: l’art. 2087[412]. Ed è sempre in questa disposizione che è contenuto il “secondo” riferimento all’integrità fisica già comparsa nell’art. 5 cod. civ.
Proprio le potenzialità espresse dall’art. 2087 c.c. impongono di verificare come i valori personalistici della Costituzione possano essere collegati a tale disposizione[413].
La «integrità fisica» di cui all’art. 2087 cod. civ. ha il proprio referente costituzionale nell’art. 32 Cost.[414].
In primo luogo occorre rilevare come il profilo fisico della persona non può essere disgiunto da quello psichico: l’integrità della persona è sia fisica che psichica e tali profili sono entrambi considerati nella definizione costituzionale di salute[415].
In secondo luogo, il rapporto fra salute e integrità psico-fisica è di genus a species[416]: la prima esprime un “valore ampio e dinamico strettamente dipendente dal suo rapporto con l’ambiente (naturale, familiare, di lavoro ecc.)”[417], la seconda è un “valore statico da proteggere e da salvaguardare”[418].
Su queste basi si può affermare che l’art. 32 della Cost. ha operato una “modifica tacita” dell’art. 2087 cod. civ. mutando il concetto di integrità fisica con quello di salute, come era già avvenuto, secondo l’elaborazione dottrinaria, per l’art. 5 cod. civ.[419].
Il precetto espresso dall’art. 32 Cost. “può essere pienamente inteso solo se inserito nel più ampio contesto di tutela della persona umana delineata principalmente dagli artt. 2 e 3 Cost.”. La salute infatti “non è un valore a sé stante”, ma “concorre con altri valori fondamentali in rapporto di reciproca integrazione e condizionamento”[420] ed il significato dell’art. 32 Cost. può essere pienamente colto solo se compreso nel contesto della tutela della persona umana, osservando il “legame inscindibile che lega la salute ad una piena realizzazione sia della libertà che dell’eguaglianza”[421].
Molteplici sono i significati che la salute può assumere, si consideri in particolare la definizione di salute adottata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità con il Congresso di Ottawa del 1986: “la salute non è semplicemente assenza di malattia, ma lo stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”[422].
Nel contesto tracciato è indiscutibile che la salute è un diritto inviolabile della persona[423], collocandosi dunque nel nucleo dei diritti inviolabili[424] fondato dall’art. 2 Cost.
Un aspetto sul quale occorre soffermarsi è rappresentato dalla formulazione dell’art. 32 Cost. In tale disposizione è difficile “distinguere fra il contenuto del diritto e gli strumenti di attuazione del diritto stesso” e “parallelamente non potrà esistere una nozione astratta di tutela della salute che non implichi la predisposizione di mezzi e risorse necessarie”[425].
Il diritto alla salute, per potersi realizzare pienamente, necessita non solo di proiettarsi nella dimensione risarcitoria ma esige anche soluzioni rimediali che ne garantiscano l’effettivo godimento e che inibiscano l’insorgenza di comportamenti offensivi o che siano in grado di paralizzare tali comportamenti una volta posti in essere, limitando ragionevolmente gli effetti pregiudizievoli per la salute umana.
La salute dunque “è un valore complesso” che presuppone “una tutela articolata e differenziata”[426].
Nei rapporti con i terzi la tutela della salute risulta caratterizzata da un obbligo o dovere di astensione, ma quando la persona è parte di un accordo negoziale si è in presenza di “un vero e proprio diritto soggettivo a che la controparte adotti tutte le opportune cautele che risultano imposte dall’obbligo di protezione accessorio alla prestazione contrattuale principale”[427].
Nel diritto del lavoro non è necessario ricorrere alla categoria degli obblighi di protezione, poiché si è in presenza di un obbligo principale sancito dall’art. 2087 cod. civ[428].
Muovendo da tale impostazione non può negarsi che nell’ambito del rapporto di lavoro la tutela prioritaria idonea a garantire la salute del lavoratore è rappresentata dall’azione di adempimento.
Questo non significa trascurare che la tutela effettiva della salute “è affidata alla convergenza di una serie molteplice di azioni e strumenti diversi e non da un unico ed assorbente meccanismo di garanzia”[429].
In relazione alla garanzia della salute e della sicurezza della persona che lavora, accanto ai rimedi che possono essere azionati dal lavoratore in sede giurisdizionale a tutela della propria salute, esiste un complesso apparato prevenzionistico che si intreccia con la tutela repressiva prevista dal diritto penale comune[430].
In conclusione si può affermare che nell’art. 2087 cod. civ. si materializza il diritto alla salute quale diritto inviolabile della persona il cui contenuto può essere definito solo avendo riguardo agli strumenti predisposti dall’ordinamento giuridico per l’attuazione del diritto stesso[431].
3.1.1 « Personalità morale » e dignità della persona
L’altro bene tutelato dall’obbligo di sicurezza è la personalità morale che trova una naturale collocazione nel nucleo dei diritti inviolabili della persona espresso dall’art. 2 Cost.[432].
È proprio quest’ultima disposizione che, “affiancando all’inviolabilità dei diritti il riferimento all’uomo […] esprime una garanzia per quei valori che costituiscono il suo nucleo primario ed essenziale, per quegli interessi talmente vicini alla sua sfera dell’essere che la loro lesione implicherebbe attentato alla dignità umana”[433].
La lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2087 cod. civ. consente di attribuire rilevanza centrale alla dignità della persona che lavora, come valore giuridico e come fondamento dei diritti inviolabili ex art. 2 Cost.[434]. La dignità è stata intesa come “posizione complessiva di un individuo come persona e dunque come membro di aggregati sociali; onde la menomazione di essa si riverbera necessariamente sulla sfera della personalità nel suo complesso e si risolve in un attentato alla libertà morale”[435].
Importanti sono i richiami alla dignità umana contenuti in altre disposizioni costituzionali: nell’art. 3 Cost. ove il principio di eguaglianza si svolge nella direzione della “pari dignità sociale” ed è orientato al “pieno sviluppo della persona umana”; nell’art. 41, comma 2°, Cost. in cui la dignità umana è rappresentata come limite alla libertà di iniziativa economica privata[436].
Orbene la personalità morale, osservata nel nuovo sistema di valori personalistici e solidaristici[437] espressi dalla Costituzione, rivela una sorta di attrazione selettiva per il principio di eguaglianza e per il valore della dignità umana richiamato dagli artt. 3, comma 1°, 36, comma 1 ° e 41, comma 2°, nei quali appare inscindibile il legame fra libertà e dignità come qualità insopprimibili della persona[438].
È quindi opportuno chiarire il legame fra dignità e libertà: la dignità è uno degli attributi della libertà; la persona potrà invocare il rispetto della propria dignità ma il principio di dignità non potrà essere invocato per circoscrivere la libertà della persona[439]. La dignità dunque è “bene giuridico distinto dai diritti e dalle libertà fondamentali, che ne definiscono, invece, lo specifico e puntuale ambito di realizzazione”[440].
Le coppie libertà/dignità ed eguaglianza/dignità si rivelano per l’interprete utili chiavi di indagine per osservare il rapporto di lavoro attraverso l’obbligo di tutelare la personalità morale, che assume la veste di una norma generale del sistema giuslavoristico rivelandosi il tramite per introiettare nel rapporto di lavoro il valore costituzionale della dignità[441].
Il diritto alla personalità morale è dunque diritto alla protezione della personalità, diritto allo svolgimento della personalità, diritto all’integrità personale che non si traduce necessariamente in diritto alla salute[442].
Una volta accertato che il diritto alla salute e il diritto alla personalità morale appartengono al nucleo dei diritti inviolabili della persona debbono farsene discendere importanti conseguenze ricostruttive sul piano della concorrenza di tali diritti con gli altri di rango costituzionale e, in particolare, con la libertà di iniziativa economica privata sancita dall’art. 41 Cost.[443].
Occorre quindi portare l’attenzione sulla formulazione del secondo comma di quest’ultima disposizione, in base al quale la libertà di iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana[444], che rappresentano limiti esterni alla libertà di iniziativa economica privata.
Secondo un diffuso orientamento deve escludersi la possibilità di ritenere inviolabili diritti come la proprietà e il diritto di iniziativa economica privata che “sono nella titolarità dell’uomo ma sono estranei alla sfera del suo essere umano, quindi alla sua personalità”[445].
A risultati non dissimili si perviene seguendo l’impostazione secondo cui l’art. 2 Cost., nel riconoscere il valore giuridico della persona, esprime un dovere giuridico di astensione nei confronti di essa, giacché può concludersi che l’art. 41, comma 2°, Cost. ha come scopo quello di predeterminare espressamente il rapporto tra il valore giuridico della persona e la libertà economica[446].
Deve tuttavia essere chiaro che la composizione del contrasto tra i valori costituzionali considerati non può definirsi aprioristicamente, non essendo ammesso il «sacrificio assoluto e definitivo del valore che passa in secondo ordine», essendo invece preferibile parlare di una provvisoria attenuazione di garanzia di un valore rispetto ad un altro, che può essere conseguita sul terreno dell’interpretazione[447].
3.2 Le fonti dell’obbligo di sicurezza
Il tessuto normativo su cui si fonda l’obbligo di sicurezza è reso particolarmente complesso dalla presenza dello stesso in una pluralità di fonti concorrenti che vanno dall’art. 2087 cod. civ. alla legislazione speciale prevenzionistica degli anni cinquanta, dalla legislazione di derivazione comunitaria fino alle competenze del legislatore regionale in materia di «tutela e sicurezza del lavoro» con il rischio di una frammentazione della tutela giuslavoristica[448].
Su tale eterogeneità delle fonti è intervenuto il legislatore con il d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81, che ha la finalità di operare il riordino ed il coordinamento delle norme vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro in un «unico testo» (art. 1) e che contiene peraltro significative innovazioni. Questo provvedimento non ha operato una completa integrazione della disciplina previgente, essendovi una pluralità di norme che sono rimaste all’esterno del decreto.
In via preliminare deve sottolinearsi che l’art. 2087 cod. civ. deve essere inteso come norma generale che, proprio in quanto tale, pone il problema del rapporto con la disciplina di derivazione comunitaria e con quella residualmente vigente degli anni cinquanta, oggi parzialmente confluite nel citato d.lgs. n. 81/2008.
Il rapporto della norma codicistica con questa legislazione può essere descritto in termini di genus ad speciem[449].
La norma speciale ha la funzione di regolare «in modo diverso, rispetto al diritto comune, solo il quid pluris che la qualifica rispetto alla norma generale, la quale continuerebbe a riguardare quella parte della fattispecie comune alle due norme»[450]. Pertanto la norma speciale non deroga a quella generale, escludendola per incompatibilità, ma «si limita a dettarne un’applicazione specifica, motivata da esigenze specialistiche ratione materiae, personae, loci»[451].
Le norme speciali operano dunque come specificazioni o proiezioni della norma generale, che le orienta verso la proiezione finalistica rappresentata dalla tutela della persona[452].
La dottrina è concorde nell’affermare che l’art. 2087 cod. civ. è norma di apertura e di chiusura del sistema, connotata da una irriducibile funzione prevenzionale, che integra la disciplina di derivazione comunitaria e che fonda un obbligo di elevata intensità e di particolare rigore per il datore di lavoro. Tuttavia altrettanto frequentemente non è in grado di coglierne le implicazioni concrete[453].
Quello fra norma generale e norme speciali è dunque un sistema circolare: la norma generale imprime una particolare direzione alle norme speciali offrendone un criterio imprescindibile di inquadramento; le norme speciali arricchiscono di una serie di specificazioni l’obbligo di sicurezza, specificazioni che rinvigoriscono la portata prevenzionale dell’obbligo e ne proiettano l’essenza in una pluralità di contesti (es: particolari caratteristiche dell’ambiente di lavoro, del titolare dell’obbligo, delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa)[454].
Il quadro ora tratteggiato può essere raffigurato come un insieme di tre cerchi concentrici: quello esterno, rappresentato dalle norme speciali, indirizzato verso una dimensione strettamente pubblicistica ma che esercita una funzione di rafforzamento della tutela in tema di sicurezza e salute dei lavoratori, specificando il contenuto dell’obbligo previsto dalla norma generale e contribuendo ad individuarlo; quello intermedio, rappresentato dalla norma codicistica, che a sua volta avvolge il terzo cerchio, rappresentato dal contratto di lavoro, e che fa filtrare in quest’ultimo, attraverso un’operazione selettiva, le norme del primo cerchio[455].
In tema di sicurezza sul lavoro le indicazioni sovranazionali si sono incessantemente succedute nel corso degli ultimi anni, in misura ragguardevole[456].
Sicché il diritto comunitario può ritenersi una fonte di importanza strategica per l’individuazione dei contenuti dell’obbligo di sicurezza.
Peraltro «la protezione della salute umana» deve essere considerata come elemento ineludibile dell’attuazione delle politiche e delle attività della Comunità (art. 152 del Trattato che istituisce la Comunità europea).
Considerando l’attuale formulazione dell’art. 137 del Trattato che istituisce la Comunità europea deve osservarsi che la Comunità sostiene e completa l’azione degli Stati membri in tema di «miglioramento dell’ambiente di lavoro, per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori»[457].
Su tale materia il Parlamento europeo ed il Consiglio, mediante direttive approvate secondo la procedura legislativa ordinaria, previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni, possono adottare le prescrizioni minime applicabili progressivamente, tenendo conto delle condizioni e delle normative tecniche presenti in ciascuno Stato membro.
Un grande rilievo ha assunto la direttiva 89/391/CE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro, recepita in Italia mediante il d.lgs. n. 626/1994, sulla quale si è poi innestata l’imponente produzione normativa comunitaria successiva[458].
La portata prevenzionale dell’obbligo di sicurezza trova conferma nella disciplina di derivazione comunitaria, contrassegnata da imponenti e complessi apparati normativi che operano per un arricchimento non solo quantitativo dell’obbligo, ma anche qualitativo[459].
In particolare, da tutta la legislazione di derivazione comunitaria in materia di sicurezza sul lavoro[460] è possibile trarre un principio: la violazione degli obblighi di prevenzione è rilevante in quanto tale, non essendo necessario, per aversi la reazione dell’ordinamento giuridico, che la violazione di tali obblighi si traduca in un evento lesivo della salute del lavoratore.
Ciò per la semplice ragione che nel momento stesso in cui l’evento lesivo si è irrimediabilmente consumato, la tutela prevenzionale lascia la scena a quella assicurativa obbligatoria (eventualmente anche a quella assicurativa comune) e a quella risarcitoria (nonché ai diritto penale comune)[461].
Altra fonte dell’obbligo di sicurezza si trova nella disciplina predisposta dal legislatore nel corso degli anni cinquanta del secolo scorso, la quale aveva istituito un imponente apparato prevenzionistico.
Questa complessa normativa si è contraddistinta per una preponderanza di disposizioni eccessivamente dettagliate che hanno progressivamente rivelato la propria rigidità rispetto alla complessità del fenomeno che pretendevano di governare e la propria obsolescenza rispetto ai profondi mutamenti dei processi produttivi e dei modelli organizzativi delle imprese, considerata l’emersione di nuovi fattori di rischio per la salute e la sicurezza dei lavoratori[462].
La profonda innovazione normativa rappresentata dalla legislazione di derivazione comunitaria e, in particolare, dal d.lgs. n. 626/ 1994 è stata una occasione mancata per mettere ordine in questa risalente normativa, che è invece rimasta per gran parte a lungo vigente, con qualche residuo che, anche dopo il d.lgs. 81/2008, continua a trascinarsi in un quadro normativo nel frattempo profondamente mutato[463].
La trattazione delle fonti si rivelerebbe incompleta se non si tenesse conto della riforma del Titolo V della Cost. (legge cost. n. 3/2001), che ha attribuito alla potestà legislativa concorrente di Stato e Regioni la materia della «tutela e sicurezza del lavoro»[464]. Tuttavia, l’area della salute e sicurezza del lavoro è quella che meno si presta a discipline differenziate su base regionale. Ciò sia per il suo essere diretta espressione di diritti fondamentali della persona, garantiti dalla Costituzione, che richiedono nei loro tratti sostanziali un’applicazione uniforme su tutto il territorio nazionale, sia per lo stretto legame con l’apparato sanzionatorio penale per i casi di violazione, sia infine per l’ampia produzione di direttive comunitarie in materia, per la trasposizione delle quali sul piano interno sussiste una responsabilità primaria da parte dello Stato[465].
Posto che anche le Regioni, nelle materie di loro competenza, sono tenute ad attuare le norme di derivazione comunitaria (art. 117, 5° comma, Cost.) rimane «pur sempre lo Stato centrale, nella qualità di interlocutore primario dell’Unione europea, il garante ultimo, nei confronti degli organi dell’Unione, dell’adempimento degli obblighi comunitari»[466]. La mancata trasposizione da parte delle Regioni degli obblighi comunitari può peraltro dar luogo al provvisorio potere sostitutivo statale, ex art. 117, 5° comma, ultima parte, Cost., potere esercitato proprio in tema di sicurezza del lavoro, mediante l’inserimento di c.d. «clausole di cedevolezza» nei più recenti decreti legislativi attuativi di norme europee[467].
Più in generale è da osservare che la giusta valorizzazione delle specificità territoriali deve tener conto della tendenziale vocazione universalistica dei diritti civili e sociali, in quanto diritti delle persone prima che delle comunità locali[468]. La soluzione proposta non preclude del resto la possibilità di interventi da parte delle Regioni nella materia qui considerata[469].
3.3 Norma generale e norme speciali: titolarità, ambito di applicazione e contenuto dell’obbligo di sicurezza
L’interazione tra norma generale e norme speciali sul piano della titolarità dell’obbligo e dell’ambito di applicazione è di particolare importanza. Qui le norme speciali svolgono una funzione confermativa e chiarificatrice di impostazioni in parte già tracciate dalla giurisprudenza: l’individuazione del datore di lavoro secondo una accezione sostanziale, la generalizzata applicazione dell’obbligo di sicurezza senza riguardo al tipo di attività svolta dal datore di lavoro o alle particolari tipologie negoziali del rapporto di lavoro, l’operatività dell’obbligo di sicurezza in aree diverse dal contratto di lavoro, il legame fra responsabilità del datore di lavoro e funzioni prevenzionali svolte dagli “ausiliari”[470].
La prima questione che emerge dalle norme speciali del d.lgs. 81/2008 riguarda la titolarità dell’obbligo di sicurezza e consiste nel riferimento testuale contenuto nell’art. 2087 cod. civ. all’obbligo gravante su «l’imprenditore».
La dottrina ormai da lungo tempo ritiene che il suddetto riferimento testuale non possa precludere l’applicazione dell’art. 2087 cod. civ. al datore di lavoro non imprenditore e propone un’interpretazione evolutiva ed estensiva della disposizione, diretta a modificare l’impostazione corporativa che influenzò la codificazione[471].
Infatti la limitazione dell’art. 2087 cod. civ. ai soli imprenditori è tale da compromettere «quel rapporto di reciproca integrazione»[472] fra la disposizione del codice e la disciplina prevenzionistica che, fin dalla sua prima impronta regolativa, ha individuato come figura responsabile il datore di lavoro (imprenditore e non imprenditore).
Adottando l’interpretazione restrittiva si avrebbe un effetto a dir poco singolare: mentre l’art. 2087 cod. civ. si applicherebbe solo agli imprenditori, la disciplina prevenzionistica dovrebbe applicarsi ai datori di lavoro (imprenditori e non imprenditori) negandosi dunque il carattere «aperto» e di «chiusura» unanimemente riconosciuto all’art. 2087 c.c.[473].
L’art. 2087 cod. civ. si applica pertanto ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori e senza distinzioni concernenti il tipo di attività svolta.
Il d.lgs. n. 81/2008 individua la titolarità degli obblighi di sicurezza facendo riferimento ad una pluralità di figure: il datore di lavoro, il dirigente, il preposto, i lavoratori in senso generale, i progettisti, i fabbricanti, i fornitori, gli installatori, i noleggiatori e i concedenti in uso di attrezzature, il medico competente[474].
Nel settore dei cantieri temporanei o mobili vengono poi individuate ulteriori figure di soggetti obbligati: il committente, il responsabile dei lavori, il coordinatore per la progettazione, il coordinatore per l’esecuzione, il datore di lavoro appaltatore[475].
Si tratta di una complessa partizione degli obblighi la cui mancata osservanza comporta, per i rispettivi titolari, l’applicazione di sanzioni penali[476].
Rispetto al quadro accennato si distinguono le figure del responsabile del servizio di prevenzione e protezione e degli addetti al medesimo servizio che svolgono importanti funzioni di cooperazione con il datore di lavoro e con gli altri debitori della prevenzione concernenti l’individuazione dei fattori di rischio presenti nell’ambiente di lavoro, l’elaborazione di misure di prevenzione e protezione e di programmi di informazione e formazione dei lavoratori (artt. 31-34). Tali figure non sono soggette ad obblighi penalmente rilevanti, pur potendo la loro negligenza assumere rilevanza sul piano civilistico.
Un rilievo centrale nel modello prevenzionistico assume la figura del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (artt. 47-50), titolare di fondamentali diritti di controllo, di informazione, di promozione delle necessarie misure di prevenzione e protezione, cui viene attribuita la facoltà di fare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure adottate dal datore di lavoro o dai dirigenti non siano idonee a garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori.
Ricalcando la definizione già contenuta nel d.lgs. n. 626/ 1994[477] il legislatore, con il d.lgs. n. 81/2008, individua il datore di lavoro nel settore privato nel soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, nel soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa (art. 2, comma 1°, lett. b).
I requisiti della titolarità del rapporto di lavoro e della responsabilità dell’impresa non sono cumulativi ma alternativi[478].
Possono quindi cogliersi due distinte accezioni di datore di lavoro: una “formale” che fa riferimento alla titolarità del rapporto di lavoro; una “sostanziale”, improntata al principio di effettività dei poteri.
Nelle pubbliche amministrazioni l’art. 1, comma 2° d.lgs. n. 165/2001[479] stabilisce che per datore di lavoro si intende «il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa». Si aggiunge inoltre che «in caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l’organo di vertice medesimo» (art. 2, comma 1°, lett. b).
I dirigenti pubblici ai quali spettano poteri di gestione sono, ai fini della sicurezza sul lavoro, equiparati al datore di lavoro ed hanno dunque piena autonomia nelle loro decisioni[480].
Va sottolineato che la giurisprudenza di legittimità ha sovente ripartito le responsabilità penali per violazione delle norme prevenzionistiche nel settore pubblico, distinguendo tra carenze strutturali, addebitabili ai vertici dell’ente, e mancanze derivanti dall’ordinario funzionamento delle strutture, addebitabili, secondo il principio di effettività delle funzioni, agli organi subordinati con precise competenze[481].
È pertanto chiara l’esigenza di distinguere tra indirizzo politico e responsabilità nella gestione amministrativa, avendo cura di verificare l’effettiva attribuzione di poteri gestionali[482].
In base al citato art. 2, lett. b) il datore di lavoro nelle amministrazioni pubbliche può essere individuato anche nel funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale[483].
Sul piano soggettivo l’ambito di applicazione dell’art. 2087 cod. civ. riguarda il lavoro subordinato[484], sebbene più recenti tendenze dottrinarie esprimano una forte propensione ad estendere l’obbligo di sicurezza a qualunque rapporto di lavoro[485] trovando non trascurabili conferme in giurisprudenza[486]. Lo stesso legislatore ha già lanciato segnali nel senso di una generalizzata applicazione dell’obbligo di sicurezza ai rapporti di lavoro non subordinato, in particolare prevedendo l’estensione del d.lgs. n. 626/1994 e del d.lgs. n. 494/1996 «in quanto compatibili con le modalità della prestazione lavorativa» ai soci lavoratori di cooperativa (art. 2 1. n. 142/2001) e stabilendo che al lavoratore a progetto si applichi il d.lgs. n. 626/1994 «quando la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi di lavoro del committente» (art. 66 d.lgs. n. 276/2003)[487].
In linea con la direttiva n. 89/391 CEE il d.lgs. n. 81/2008 adotta una definizione ampia ed estesa di lavoratore[488] operando una sintesi fra le previsioni della legislazione degli anni cinquanta e quelle del d.lgs. n. 626/1994[489] ed introducendo significative innovazioni.
Secondo la nuova formulazione per lavoratore deve intendersi «la persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico e privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari » (art. 2, lett. a).
Quindi il decreto si applica «a tutti i lavoratori e lavoratrici, subordinati e autonomi nonché ai soggetti ad essi equiparati» (art. 3. comma 4°) con alcune specificazioni in parte già presenti nel quadro normativo previgente.
Sul piano oggettivo il d.lgs. n. 81/2008[490] trova applicazione in tutti i settori di attività privati e pubblici e a tutte le tipologie di rischio (art. 3, comma 1°) confermando l’esteso e tendenzialmente globale ambito oggettivo di applicazione già previsto dal d.lgs. n. 626/ 1994[491].
3.4 La natura dell’obbligo di sicurezza
L’esame delle posizioni soggettive dei lavoratori non può prescindere da una riflessione sulla natura del dovere di sicurezza, quale configurato dalle norme costituzionali e soprattutto dall’art. 2087 c.c.[492].
In merito alla qualificazione giuridica delle situazioni soggettive derivanti dall’art. 2087 c.c., la dottrina giuslavoristica ha espresso orientamenti divergenti principalmente riconducibili da un lato alle tesi c.d. «contrattualiste», dall’altro a quelle extracontrattuali, anche se non sono mancati orientamenti volti a contemperare i profili pubblicistici e privatistici desumibili dalla norma in esame[493] .
In particolare, un’autorevole interpretazione ha messo in evidenza il carattere «bifrontale» dell’art. 2087 c.c., configurandosi il diritto alla salute sul lavoro come diritto della personalità ed al contempo come diritto di matrice contrattuale[494].
I tentativi di collocare la norma in questione in uno schema puramente contrattuale-privatistico o in uno di tipo puramente pubblicistico non sono soddisfacenti. Se da un lato la previsione contenuta nell’art. 2087 c.c. ha una operatività ulteriore rispetto ai confini segnati dall’esistenza di un vincolo contrattuale, in virtù dell’interesse generale ad essa sotteso, dall’altro «… è solo introducendo quella tutela nell’ambito della relazione contrattuale, e vincolandone l’esplicazione all’intima logica di questa, che si consegue il risultato di garantire al lavoratore subordinato una reale posizione differenziata di tutela»[495], tramite il riconoscimento di un autonomo diritto soggettivo in capo al lavoratore.
Nonostante ciò l’art. 2087 c.c. non può essere relegato in un ambito riguardante le sole relazioni negoziali derivanti dall’esistenza di un contratto di lavoro subordinato.
A tale conclusione si può pervenire sia attraverso la considerazione che il dovere di sicurezza ex art. 2087 c.c. è imposto «nell’esercizio dell’impresa» ed è collocato nella sez. I, del Capo I, del Titolo II, c.c., accanto alla definizione di imprenditore ed alle condizioni generali per svolgere attività produttive[496], sia dall’assetto complessivo degli interessi protetti.
Prescindendo dalla ripartizione, operata dalla dottrina, tra diritti assoluti e diritti relativi, si può affermare più semplicemente che il diritto alla salute ed alla integrità psico-fisica è una norma di carattere generale, rispondente ad un interesse della collettività, che trova positivo riconoscimento in fonti diverse del nostro ordinamento (costituzionali, legislative, contrattuali)[497].
Si può pertanto ritenere che il dovere di sicurezza ex art. 2087 c.c. sia per certi versi preesistente alla disciplina contrattuale e si ponga come condizione per il legittimo svolgersi dell’iniziativa economica privata (art. 41, 2° comma, Cost.)[498].
D’altro lato la tutela posta dalla norma in esame trova proprio nel contratto di lavoro subordinato il suo sviluppo più incisivo, dal momento che dovrà esplicarsi secondo i connotati tipici di quest’ultimo, in ragione dei più penetranti e specifici obblighi di cura posti a carico del datore di lavoro[499].
La soluzione qui prospettata, valorizzando la generale portata preventiva contenuta nell’art. 2087 c.c. mira a ridurre il divario esistente tra lavoratori «ai quali è garantito l’esercizio dei diritti della persona (e della salute) nei luoghi di lavoro e quelli ai quali non è assicurata alcuna tutela»[500]. Divario ora attenuato dall’estensione dell’ambito di applicazione soggettivo della disciplina prevenzionistica operato dal d.lgs. n. 81/2008 (c.d. Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro).
Ciò risulta avvalorato da quella parte della giurisprudenza[501] e dalla stessa legislazione prevenzionale che, seppur con elementi di ambiguità, non limita la disciplina ivi contenuta al lavoro dipendente[502].
3.5 Il contenuto dell’obbligo di sicurezza nell’interazione fra norma generale e d.lgs. n. 81/2008
Gli obblighi gravanti sul datore di lavoro nell’ambito del d.lgs. n. 81/2008 sono oggetto di una dettagliata codificazione.
L’art. 17 d.lgs. n. 81/2008 individua anzitutto gli obblighi che il datore di lavoro non può delegare: si tratta dell’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi e di elaborare conseguentemente il relativo documento e dell’obbligo di nominare il responsabile del servizio di prevenzione e protezione.
Il successivo art. 18 individua una cospicua serie di adempimenti cui è tenuto il datore di lavoro e, nell’ambito delle attribuzioni e competenze effettivamente conferite, il dirigente.
Occorre ora procedere al confronto degli obblighi prevenzionistici con la disposizione codicistica.
L’individuazione del contenuto dell’obbligo di sicurezza ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. può essere correttamente operata considerando tale disposizione come una proiezione della diligenza ex art. 1176 cod. civ., quale regola dell’adempimento, da valutarsi indubbiamente «con riguardo alla natura dell’attività esercitata» (art. 1176, comma 2°, cod. civ.)[503].
In questa prospettiva devono essere interpretati i tre criteri indicati dall’art. 2087 cod. civ. per individuare le misure necessarie: la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica[504].
Solo in relazione al criterio della particolarità del lavoro ha senso sottolineare l’intima connessione di questo con le caratteristiche concrete dell’organizzazione aziendale, mentre l’esperienza e la tecnica sono i c.d. criteri esterni sulla base dei quali individuare le misure preventive[505].
Per quanto concerne questi ultimi la «esperienza» viene generalmente identificata con le misure e gli accorgimenti già adottati dal datore di lavoro che abbiano dimostrato una specifica capacità preventiva e protettiva, mentre la «tecnica» indica il criterio del costante adeguamento dell’organizzazione al progresso scientifico e tecnologico[506].
In relazione ai tre criteri indicati dalla norma generale si rivela particolarmente proficua l’interazione con la disciplina speciale.
Tali criteri trovano infatti una specifica proiezione nell’obbligo del datore di lavoro di effettuare la valutazione di tutti rischi, ora disciplinato dagli artt. 17 e 28-30 (Titolo I, capo III, sezione II) del d.lgs. n. 81/2008.
In base alla nuova disciplina, che conferma in linea di massima l’impianto precedente[507], il datore di lavoro deve valutare tutti i rischi «anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro».
Inoltre, il datore deve valutare tutti rischi riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui (art. 28, comma 1°, d.lgs. n. 81/2008) «anche» quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004[508] e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal d.lgs. 26 marzo 2001 n. 151, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all’età e alla provenienza da altri paesi. Su questo aspetto il legislatore, pur nell’ambito di una disciplina dedicata alla tutela della salute (intesa come stato di completo benessere fisico, mentale e sociale), ha voluto tracciare una linea prevenzionale diretta ad eliminare sul nascere alcuni dei fattori che favoriscono nell’ambiente di lavoro la diffusione di soprusi, vessazioni e contegni potenzialmente lesivi della dignità della persona[509].
La valutazione dei rischi impone pertanto al datore di lavoro di individuare in concreto le caratteristiche della propria realtà organizzativa al fine di predisporre per la medesima il più adeguato modello di prevenzione[510].
Peraltro, la circostanza che il decreto abbia individuato il proprio campo di applicazione in relazione a «tutte le tipologie di rischio» (art. 3, comma 1°) evoca l’operatività del principio di precauzione[511], espressamente codificato nell’art. 174, comma 2°, Trattato UE, anche in tema di sicurezza sul lavoro e indica che i titolari dell’obbligo di sicurezza non possono sottrarsi a valutare i rischi potenziali per la salute, anche in assenza di univoche indicazioni medico-scientifiche[512].
Il complessivo tenore degli obblighi prevenzionistici, cui è tenuto il datore di lavoro in base al d.lgs. n. 81/2008, è tale da consentire di individuare con precisione e completezza il contenuto dell’obbligo di sicurezza[513].
Alla determinazione concreta del contenuto dell’obbligo di sicurezza concorre l’art. 15 del d.lgs. 81/2008 (con formula analoga all’abrogato art. 3 d.lgs. n. 626/1994), il quale prevede una lunga elencazione di “misure generali di tutela”[514] che si prestano ad essere intese come criteri generali dell’intero sistema della sicurezza sul lavoro delineato dal decreto, cui il datore di lavoro deve conformare il proprio comportamento[515].
In relazione al criterio della tecnica indicato dall’art. 2087 cod. civ. occorre rimarcare che il costante adeguamento delle misure di prevenzione al progresso tecnologico percorre l’intero impianto della disciplina prevenzionale e contraddistingue la stessa tecnica di formulazione degli adempimenti[516].
Facendo leva su tale criterio una parte della dottrina ritiene di individuare nell’art. 2087 cod. civ. il c.d. principio della «massima sicurezza tecnologicamente possibile »[517].
La formula, in sé neutra, non appare condivisibile ove la si intenda come un obbligo chiamato a porsi oltre la regola della diligenza ex art. 1176 cod. civ. e dunque verso l’assoluta indeterminatezza[518].
Al di là delle formule utilizzate, l’affermazione generalmente condivisa in dottrina è quella secondo cui l’art. 2087 esprime la regola della diligenza ex art. 1176 cod. civ. ed è fondamentale per il corretto inquadramento della fattispecie.
Il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile e quello della sicurezza ragionevolmente praticabile sono stati al centro di un ampio dibattito dottrinario[519]. Al riguardo la questione cruciale appare rappresentata dalle modalità attraverso le quali l’obbligo di sicurezza si attua nel rapporto di lavoro e, dunque, dall’adempimento dell’obbligo. La riflessione deve pertanto concentrarsi sulla dimensione dinamica dell’attuazione dell’obbligo, considerando che questo ha un’unica proiezione finalistica: tutelare (e non solo rispettare) la salute, la sicurezza e la personalità morale del lavoratore.
Per sdrammatizzare la stessa contrapposizione fra sicurezza massima e sicurezza ragionevole è necessario mettere in luce la priorità logica e giuridica dell’azione di adempimento rispetto alla tutela risarcitoria, perché solo nel momento dell’adempimento è possibile realizzare quell’opera di concretizzazione dell’obbligo di sicurezza in grado di proiettarlo finalisticamente verso la tutela della persona[520].
L’obbligo di sicurezza non ha dunque un contenuto indeterminato, anzitutto perché l’art. 2087 cod. civ. è norma generale, costituita da una fattispecie e da un comando, e non una clausola generale nella quale invece non è individuabile un modello di decisione precostituito da una fattispecie normativa astratta[521].
In secondo luogo, anche a voler continuare ad usare la formula della massima sicurezza tecnologicamente possibile, occorre rimarcare che questa deve essere resa compatibile con la regola della diligenza, che impone di valutare il contenuto dell’obbligo in relazione alle fonti che lo determinano e che, come costantemente afferma la giurisprudenza, non consente di raffigurare un «obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno»[522].
3.6 L’azione di adempimento dell’obbligo di sicurezza
L’inadempimento del debitore quale atto lesivo dell’interesse del creditore, rileva di per se stesso, anche quando non cagioni al creditore un danno, ossia perdite patrimoniali misurabili in denaro[523]. Occorre dunque distinguere l’inadempimento, inteso come mancata realizzazione dell’interesse del creditore, dal danno, che concerne le conseguenze economiche negative che l’inadempimento produce nella sfera del creditore. Su questo versante appare utile chiarire che un conto è il verificarsi della lesione dell’interesse del creditore (inadempimento) altro è valutare le conseguenze negative della lesione e la loro entità[524].
Con specifico riguardo al contratto di lavoro subordinato il datore di lavoro ha l’obbligo di tutelare la salute e la personalità morale del lavoratore. Non si tratta del semplice mantenimento dello status quo ma della garanzia di una “aspettativa”[525], tanto rilevante da aver persino contribuito a costituire la situazione presupposto per la nascita del credito[526].
Affermare che il datore di lavoro ha l’obbligo di adottare “le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore” non può significare che attraverso il rimedio risarcitorio i beni considerati dalla norma possano ricevere tutela.
È l’azione di adempimento il rimedio predisposto dall’ordinamento per garantire al lavoratore la soddisfazione del diritto alla salute e alla personalità morale[527].
L’azione di adempimento dell’obbligo di sicurezza deve essere osservata in relazione alla disciplina dell’esecuzione forzata, vale a dire che l’obbligazione inadempiuta deve avere ad oggetto una prestazione comunque suscettibile di esecuzione forzata in forma specifica.
Quindi non è condivisibile l’idea che possa configurarsi una infungibilità generalizzata degli atti dell’imprenditore e pertanto si deve ammettere la coercibilità in forma specifica dell’adempimento dell’obbligo di sicurezza[528].
Queste conclusioni richiedono ovviamente particolare cautela, perché è la valutazione della concreta fattispecie che consente di apprezzare se l’obbligo di sicurezza sia fungibile.
Nondimeno deve ammettersi che al diritto alla salute e alla personalità morale del lavoratore non può essere contrapposta l’autonomia del soggetto passivo, evocando una visione astratta dell’autonomia privata (nemo ad factum praecise cogi potest)[529].
Su questo terreno è necessario operare una valutazione comparativa della pretesa del creditore-lavoratore subordinato e della libertà di cui è titolare il debitore-datore di lavoro e verificare il contemperamento dei valori considerati.
La valutazione comparativa non deve essere identificata con un semplice bilanciamento tra i valori di rango costituzionale, valutando la prevalenza dell’uno o dell’altro. Per questo motivo è preferibile parlare non di soccombenza di un valore costituzionale rispetto ad un altro, ma di momentanea attenuazione della garanzia di un valore costituzionale in relazione ad un altro. Date queste premesse e considerata la preminenza dei diritti fondamentali della persona del lavoratore saranno i poteri datoriali ad uscirne momentaneamente affievoliti[530].
Acclarata la supremazia dei diritti del lavoratore, per risolvere il delicato profilo delle concrete modalità attraverso le quali l’obbligo di sicurezza deve trovare attuazione, si pone l’esigenza di operare una valutazione comparativa tra posizioni contrattuali contrapposte[531], che dovrà compiersi nella concreta dinamica di una determinata fattispecie, ricorrendo al criterio della buona fede oggettiva[532] anche sul piano dell’interpretazione, ex art. 1366 cod. civ., del contratto di lavoro e degli obblighi che ne discendono[533] quale «criterio di valutazione dell’attività esplicata dalle parti ai fini della concreta realizzazione del contenuto delle rispettive posizioni di diritto e di obbligo»[534].
L’obbligo di sicurezza deve essere esaminato anche in relazione alla tutela collettiva, in particolare riguardo al diritto di azione riconosciuto al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza ai sensi dell’art. 50, comma 1°, lett. o) del d.lgs. n. 81/2008. La citata disposizione prevede, infatti, che il r.l.s. può «fare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure di prevenzione e protezione dai rischi adottate dal datore di lavoro o dai dirigenti e i mezzi impiegati per attuarle non siano idonei a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro» con formulazione identica all’ora abrogato art. 19 d.lgs. 626/1994[535].
La disposizione è interpretata considerando che il riferimento alle autorità competenti riguardi anche l’autorità giudiziaria e la sua formulazione è ritenuta tale da comprendere sia la facoltà del r.l.s. di agire ai sensi dell’art. 28 Stat. lav., in caso di comportamenti del datore riconducibili a quest’ultima fattispecie, sia l’azione, ammessa in via d’urgenza, diretta a condannare il datore di lavoro a conformarsi alle regole prevenzionistiche violate[536].
Importante è mettere in luce che l’azione collettiva «non esclude che i lavoratori uti singuli possano agire in giudizio per ottenere l’adozione da parte del datore di lavoro delle misure idonee a tutelare la propria integrità fisica, ai sensi dell’art. 2087 c.c.»[537].
In effetti, la legittimazione dei lavoratori a far valere il diritto alla sicurezza era stata già ammessa, anche se non in modo unanime, dalla dottrina e dalla giurisprudenza in relazione alle rappresentanze sindacali ex art. 9 st. lav.[538]; mettendo a fuoco il rapporto di quest’ultima disposizione con l’art. 2087 cod. civ., al fine di individuare «situazione soggettive azionabili sino all’imposizione coercitiva delle misure “idonee” e “necessarie” a garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro»[539].
Il discorso non sarebbe completo se non si tenesse conto che il lavoratore, di fronte all’inadempimento dell’obbligo di sicurezza, ha la possibilità di avvalersi dell’eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 cod. civ.
Questa disposizione attribuisce alla parte, nell’ambito dei contratti a prestazioni corrispettive, la facoltà di sospendere l’adempimento se l’altra parte non esegue o non offre di eseguire la prestazione e ciò anche nel caso d’inesattezza quantitativa o qualitativa della prestazione[540].
L’eccezione di inadempimento esprime un «potere di autotutela che ha per effetto quello di legittimare la sospensione dell’esecuzione della prestazione da parte del contraente non inadempiente fino a quando l’altro contraente non adempia la propria obbligazione»[541].
II rifiuto di adempimento ex art. 1460 cod. civ., che può essere opposto sia in sede giudiziale sia in sede extragiudiziale, è una legittima reazione al contegno del creditore e l’eccipiente non perde il diritto alla controprestazione[542].
La funzione dell’eccezione di inadempimento è stata rinvenuta nella garanzia di «eguaglianza delle posizioni delle parti nell’esecuzione del contratto»[543].
Il punto sul quale occorre prestare attenzione è che l’eccezione di inadempimento è «rimedio autonomamente esercitabile in funzione dell’interesse del creditore»[544] che non ha pertanto una funzione strumentale rispetto agli altri rimedi contro l’inadempimento e in particolare rispetto alla risoluzione del contratto[545] né una funzione di coazione all’adempimento[546].
Il rischio di concepire l’eccezione di inadempimento in via strumentale è quello di condizionare l’esercizio del potere di autotutela ai medesimi requisiti richiesti per l’esperimento di altri rimedi, in particolare per la risoluzione, restringendo così notevolmente l’area di applicazione dell’eccezione ex art. 1460 cod. civ., in considerazione del requisito della gravità (rectius: della non scarsa importanza) dell’inadempimento richiesto invece dalla legge solo in caso di risoluzione per inadempimento (art. 1455 cod. civ.)[547].
Fatto salvo il limite della buona fede, espressamente codificato dall’art. 1460 c.c., la parte ha la facoltà di sospendere l’esecuzione della prestazione se l’altra parte non esegue la controprestazione e ciò sia in caso di inadempimento, inesatto adempimento, inadempimento non grave[548].
Nel quadro descritto è certamente da ammettere che di fronte all’inadempimento del datore di lavoro il lavoratore può rifiutare, in tutto o in parte, di eseguire la prestazione fin quando il datore non adempia ai propri obblighi contrattuali, come avviene nel caso di rifiuto di svolgere mansioni inferiori[549] o in quello, appunto, di inadempimento dell’obbligo di sicurezza[550], qui conservando il lavoratore, che abbia comunque offerto la prestazione conforme al contratto, il diritto alla retribuzione[551].
Conclusioni
L’assenza del lavoratore causata dallo stato di malattia, in presenza di patologie che costituiscono un impedimento alla normale prestazione lavorativa, crea un conflitto tra le fondamentali esigenze di efficienza produttiva delle aziende ed il principio della tutela della salute individuale e collettiva.
Questa tipologia di sospensione del rapporto di lavoro è oggetto di un’attenta disciplina, in considerazione della grande rilevanza sociale, economica e sindacale che essa assume.
La protezione del lavoratore non deve però assurgere a un livello tale da determinare una situazione di paralisi per le imprese. Per questo motivo è sempre più forte la tendenza che ritiene necessario indebolire le tutele dei lavoratori per assicurare la sopravvivenza del sistema. Nonostante questa corrente di stampo neoliberistico, l’ordinamento giuslavoristico è rimasto perfettamente in grado di governare con equilibrio l’esigenza di garantire tutela e promozione ai soggetti effettivamente svantaggiati e quella di sanzionare chi delle tutele abbia abusato. Questo è possibile purché si rifugga da un uso anomalo degli strumenti di protezione apprestati a tutela della parte effettivamente debole del rapporto da parte di chi a tale tutela non aveva diritto.
In alcuni casi, infatti, la visita di controllo e il certificato medico non consentono di verificare con certezza la veridicità dello stato di malattia del lavoratore.
Questo avviene perché vi sono alcune patologie che non sono accertabili con esami strumentali, ma esclusivamente attraverso l’anamnesi del paziente, il quale potrebbe aver tratto in inganno il medico accentuando la sintomatologia o sottacendogli l’anticipata remissione della stessa per fini non meritevoli di tutela.
Ne è esempio la sindrome ansioso-depressiva, che è una delle motivazioni più usate (ed abusate) per giustificare le assenze per malattia. Su questa patologia di origine psicologica è opportuno ricordare che la diagnostica psichiatrica più aggiornata distingue tra «depressione del tono dell’umore» o «sindrome ansiosa generica» e «depressione maggiore». Solo quest’ultima può costituire impedimento rilevante per la sospensione del rapporto di lavoro per periodi di molte settimane o mesi, infatti il relativo protocollo terapeutico impone un trattamento con specifici psicofarmaci antidepressivi sotto il controllo costante dello specialista. In assenza di tali circostanze la diagnosi potrebbe ritenersi sospetta.
Merita di essere segnalato, a questo proposito, che non può attribuirsi valore probatorio alle dichiarazioni del terapeuta fondate soltanto su quanto riferitogli dal paziente. Infatti, nella relazione medica su di una sindrome di depressione reattiva, spesso accade che il medico riporti quanto il paziente gli ha riferito sulle circostanze nelle quali la sindrome stessa si è manifestata. L’attendibilità di questa parte del referto, così come della deposizione testimoniale che venga acquisita a conferma della dichiarazione scritta, è evidentemente limitata al fatto storico del colloquio intercorso con il paziente, mentre essa non può estendersi al contenuto del racconto fatto dal paziente al terapeuta.
Allo scopo di prevenire queste situazioni, si deve ammettere la possibilità per il datore di lavoro di raccogliere prove sulla sussistenza di fatti assolutamente incompatibili con la patologia lamentata o comunque in contrasto con l’obbligo gravante sul lavoratore ammalato di evitare comportamenti che siano di ostacolo alla più sollecita guarigione.
Dall’indagine condotta è emerso, inoltre, che vi è un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale sulla risoluzione del rapporto di lavoro determinata da malattia del lavoratore.
La normativa di riferimento è l’art. 2110 cod. civ., il quale detta regole che, in quanto speciali, prevalgono sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa che sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali.
La distinzione principale è tra il licenziamento intimato durante il periodo di comporto e quello intimato per superamento dello stesso.
Nel primo caso il giudice, quando accerta il difetto di giustificazione del licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, lo dichiara illegittimo e applica la tutela reintegratoria attenuata, così come previsto dall’art. 18 Stat. Lav., comma 7, novellato dalla legge n. 92 del 2012. Tale licenziamento, cosiddetto ingiustificato qualificato, è annullabile e non nullo.
Qualora, invece, il licenziamento sia motivato da ragioni estranee allo stato di malattia, come nel caso di recesso per g.m. oggettivo o soggettivo e per riduzione del personale, il provvedimento sarà provvisoriamente inefficace. Costituiscono un’eccezione la giusta causa e la cessazione integrale dell’attività dell’impresa, perché in queste ipotesi il licenziamento è immediatamente efficace.
Nel secondo caso ciascuna delle parti contrattuali può recedere dal contratto al termine del periodo di comporto, come stabilito dall’art. 2118 cod. civ.
La situazione da cui derivano i maggiori problemi interpretativi non è quella della malattia unica e di lunga durata, per la quale è previsto il comporto secco, ma quella della malattia plurima e frazionata. Rispetto a tale ipotesi si è preso in considerazione l’intervento delle Sezioni Unite per dirimere il contrasto sorto in giurisprudenza tra chi sosteneva che per questo tipo di malattie fosse applicabile il comporto secco e chi sosteneva che il lavoratore poteva essere licenziato per giustificato motivo obiettivo. La soluzione cui è pervenuta la Corte, che permette al giudice di sostituirsi con il giudizio di equità, in mancanza di previsione espressa delle parti di una clausola di sommatoria, non ha risolto tutti i contrasti. Lo dimostra una recentissima sentenza della Cassazione, n. 18678, 4 settembre 2014, la quale ha ritenuto legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, nonostante non fosse stato superato il periodo di comporto.
Quest’ultimo, dunque, è sicuramente elemento di valutazione fondamentale per la prosecuzione del rapporto di lavoro, ma non si applica a tutti i casi di malattia. Infatti, le assenze per malattia che avvengono a «macchia di leopardo» e «costantemente agganciate» ai giorni di riposo danno luogo a una prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile per la società, rivelandosi la stessa inadeguata sotto il profilo produttivo e pregiudizievole per l’organizzazione aziendale, tale da giustificare il licenziamento.
La sentenza della Corte di Cassazione n. 18678/2014 è una decisione che certamente farà discutere e che preoccuperà molti lavoratori che dovranno porre estrema attenzione alle cc.dd. “assenze tattiche”. Questo fenomeno accade quando il dipendente «in odore» di licenziamento si procura una certificazione medica compiacente che, di conseguenza, blocca il licenziamento.
Tali assenze potranno determinare la perdita del posto di lavoro, anche se non si è superato il numero di quelle consentite dall’ordinamento e dal CCNL.
Se le assenze sono dovute a malattia che derivi da condizioni morbigene esistenti nell’ambiente di lavoro di cui il datore debba considerarsi responsabile ex art. 2087 cod. civ., deve escludersi il computo delle stesse dal comporto. Sul datore di lavoro, infatti, gravano diversi obblighi di sicurezza affinché sia garantita l’integrità psicofisica del lavoratore.
Le questioni principali relative agli obblighi di sicurezza riguardano il contrasto tra norma generale e norme speciali. In merito alla titolarità dell’obbligo di sicurezza è legittimo ritenere che, nonostante l’art. 2087 cod. civ. faccia riferimento solo all’imprenditore, la normativa in materia sia applicabile anche ai datori di lavoro che imprenditori non sono.
Un altro aspetto su cui la dottrina giuslavoristica ha espresso orientamenti divergenti concerne la natura dell’obbligo di sicurezza. Da un lato vi sono le tesi c.d. «contrattualiste», dall’altro quelle extracontrattuali, anche se non sono mancati orientamenti volti a contemperare i profili pubblicistici e privatistici desumibili dalla norma in esame. In tal caso l’orientamento preferibile, proprio a causa della natura dei diritti coinvolti, è quello secondo cui l’art. 2087 cod. civ. ha carattere «bifrontale», configurandosi il diritto alla salute sul lavoro come diritto della personalità ed al contempo come diritto di matrice contrattuale.
Nonostante l’adozione, in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, del d.lgs. n. 81/2008, e successive modificazioni ed integrazioni, la disciplina risulta essere ancora poco organica, essendovi una pluralità di norme che sono rimaste all’esterno del decreto.
Al fine di rendere più omogenea la disciplina si auspica pertanto un intervento del legislatore per rendere meno lacunosa la normativa in materia.
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Note
[1] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 3.
[2] Su tale norma v. L. Montuschi, in Commentario della Costituzione a cura di Branca, sub art. 32 (comma 1), Bologna-Roma, 1976, p. 146 ss., e, più di recente, Alpa, Salute (diritto alla), in Nss. Dig. It, App., vol. VI, Torino, 1986, p. 913 ss. V. anche i volumi collattanei Tutela della salute e diritto privato, a cura di Busnelli e Breccia, Milano, 1978, e Il diritto alla salute, a cura degli stessi AA., Bologna, 1979.
[3] Così R. Del Punta, in op. ult. cit., ove si riferisce particolarmente a quelle teoriche che valorizzano la connessione fra salute e tutela dell’ambiente naturale, richiamando: Patti, La tutela civile dell’ambiente, Padova, 1979; D’Angelo, L’art. 844 codice civile e il diritto alla salute, in Tutela della salute e diritto privato, cit., p. 401 ss.; Ponzanelli, Libertà di iniziativa economica e tutela della salute, ne Il diritto alla salute, p. 174 ss.
[4] Cfr. Poletti Di Teodoro, Il diritto alla salute dallo Stato liberale alla riforma sanitaria, ne Il diritto alla salute, cit., p. 1 ss.
[5]V. Busnelli-Breccia, Tutela della salute e diritto privato, Premessa, X-XI, Milano, 1978, che hanno notato come il limite di tale concezione non stava tanto nei suoi connotati pubblicistici in sé considerati, quanto nella direzione della tutela, ossia nel fatto che anche all’interno di tale
tradizionale visuale di intervento lo Stato si preoccupava «non tanto della salute
come interesse della collettività da proteggere in quanto tale, ma piuttosto della
non-salute come limite o ostacolo all’assolvimento delle prestazioni a cui ogni cittadino dovrebbe essere tenuto nel quadro di un assetto ispirato a principi di efficienza produttiva… (Cosicché) la mancanza dì ogni traccia di una considerazione della salute nella sfera dei rapporti privati è proprio il riverbero naturale del modo in cui il problema era affrontato nella sfera dei rapporti tra il cittadino e lo Stato ». Sulla scarsa considerazione assunta dall’interesse alla salute nell’ambito del codice civile, v. Ponzanelli, op. cit., p. 141.
[6] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 6.
[7] V. Mortati, La tutela della salute nella Costituzione italiana, in Riv. Inf. e mal prof., 1961, 1.
[8] Su cui v., in generale, A. Barbera, in Commentario della Costituzione, cit., sub art 2 spec. p. 65 ss., e ivi per ulteriori riferimenti dottrinali. Sul rilievo della salute nell’ambito dei diritti della personalità, v. da ultimo Scalisi, Il valore della persona nel sistema e i nuovi diritti della personalità, Milano, 1990.
[9] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII., pag. 7.
[10] Cfr. in particolare Pezzini, Il diritto alla salute: profili costituzionali, in Dir. e soc., 1983, 21, qui p. 31. Per una chiara individuazione delle due fattispecie configurate dall’art. 32 (la prima che vincola le fonti di produzione ad un dato indirizzo politico, la seconda che istituisce, separatamente dalla prima, un diritto soggettivo), v. Tesauro, L’azione sanitaria nel quadro delle libertà costituzionali ed cittadino, in Rass. Amm. sanità, 1972, 1, qui p. 2. Insiste sul carattere della posizione giuridica in esame anche Caravita, La disciplina costituzionale della salute, in Dir. e soc., 1984, 21, qui p. 23. Per un accenno al carattere «diffusivo» e a più dimensioni del diritto alla salute, v. Berti, Interpretazione costituzionale, Padova, 1987, p. 395.
[11] Cfr., sul punto, Luciani, Il diritto costituzionale alla salute, in Dir. e soc., 1980, 769, qui p. 778.
[12] Sui «diritti sociali» come diritti di partecipazione ai benefici della vita associata, in conseguenza dell’esercizio da parte dello Stato della sua funzione moderatrice delle disparità sociali, v. M. Mazziotti, voce Diritti sociali, in Enc. Dir., vol. XII, Milano, 1964, p. 802 ss., qui p. 804. Sulla derivazione degli stessi dai noti processi di trasformazione dello Stato oligarchico-liberale e sulla connessione fra essi ed il principio di eguaglianza sostanziale, v. Luciani, A proposito del «diritto alla salute», in Dir. e soc., 1979, 408 ss. Ritiene del tutto superato questo profilo Alpa, op. cit., p. 914, a cui R. Del Punta, op.cit., obietta che la valorizzazione del diritto alla salute come diritto soggettivo non comporta l’obliterazione della valenza pubblicistica dello stesso.
[13] Cfr. in particolare Pezzini, op. cit., p. 25 ss.; v. anche Caravita, op. cit., p. 22 ss.; Luciani, Il diritto costituzionale alla salute, cit., p. 770 ss.
[14] Cfr. Caravita, op. cit, p. 24.
[15]V. Pezzini, op. cit, p. 28 ss., ed anche pp. 55 e 76; Caravita, op. cit, p. 27 ss.; Luciani, op. ult., cit, spec. pp. 778-779. Per la piena rilevanza privatistica del diritto alla salute, con diverse implicazioni, v. vol. Tutela della salute e diritto privato, e Il diritto alla salute, citt.; v. pure ALPA, Salute (diritto alla), cit., p. 915, e Bessone-Roppo, Diritto soggettivo alla «salute», applicabilità diretta dell’art. 32 della Costituzione ed evoluzione della giurisprudenza, in Pol. dir., 1974, p. 767. Per una rassegna su vari aspetti del problema, v. anche Alpa-Bessone, Atipicità dell’illecito, II, Milano, 1981, p. 5 ss. In Tutela della salute e diritto privato v. la parziale autocritica di Rescigno, La tutela della salute e il danno alla persona, VII-VIII, rispetto alla posizione assunta nel Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1975, p. 207.
[16] Cfr. Alpa, op. ult cit, p. 914.
[17] V. ad es. Perlingieri, Il diritto alla salute come diritto della personalità, in Rass. dir. civ., 1982,1020. Ma v. in fondo anche Pezzini, op. cit., p. 71 ss., che va alla ricerca di una nozione sintetica nella quale possano fondersi le pretese di « astensione » e di « prestazione », ritrovandola in una configurazione del diritto in oggetto come diritto fondamentale (all’elemento costitutivo della persona), con i caratteri della originarietà, inviolabilità e assolutezza. Nello stesso ordine di idee, volendo superare la dicotomia fra « diritti di difesa » e « diritti a prestazione », v. Caravita, op. cit., pp. 28-29. Per la proposta di un diverso inquadramento quale diritto « della persona », e nel contempo « della personalità », v. Lega, op. cit, pp. 52-56.
[18] In tale prospettiva v. De Cupis, I diritti della personalità, in Tratt. di dir. civ. e comm. di Cicu e Messineo, Milano, 1959, p. 102 ss.
[19] In particolare, sul problema dei danni alla persona, ove sono stati superati i tradizionali criteri di risarcimento del danno, che non davano rilevanza autonoma al bene della salute individuale, ma lo ponevano come strumentale rispetto alla capacità di lavoro del soggetto, v. Busnelli, Diritto alla salute e tutela risarcitoria, in Tutela della salute e diritto privato, cit., p. 515 ss.; Alpa, I1 danno biologico, Padova, 1987; Bargagna e Busnelli (a cura di), La valutazione del danno alla salute, Padova, 1988.
Assai più arditi sono stati i tentativi di costruire un vero e proprio diritto soggettivo all’ambiente, concepito come proiezione naturale del diritto alla salute: oltre agli AA. citt. retro, nt. 7, v. Luciani, op. ult. cit., p. 784 ss., e Caravita, op. cit., p. 32 ss. In giurisprudenza v., per tutte, Cass. n. 5172 del 1979, cit.
In generale sull’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia, v. Ceccherini, Loi, Santilli, L’art. 32 nella giurisprudenza costituzionale, in Tutela della salute e diritto privato, cit., p. 53 ss., nonché, più sinteticamente, Barile, op. cit, p. 372 ss. Sulla necessità costituzionale di una tutela risarcitoria del danno biologico v. da ultimo, con puntuali riferimenti ai precedenti, Corte Cost. 18 luglio 1991 n. 356, in G.U. n. 29 del 24 luglio 1991 (su cui v. anche infra, nt. 106).
[20] Su questa tendenza, v. A. Barbera, op. cit, p. 67 ss. e 101 ss.; Barile, op. cit., pp. 67-68; Pace, op. cit, p. 15 ss. Con particolare riferimento alla tutela dei diritti fondamentali all’interno dell’impresa, secondo un’istanza sostenuta da un noto filone dottrinale sin dagli anni ’50, v. Crisafulli, Diritti di libertà e poteri dell’imprenditore, in Riv. giur. lav., 1954, I, 78; Natoli, Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro, Milano, 1955, spec. p. 68 ss.; Lombardi, Potere privato e diritti fondamentali, Torino, 1967, p. 108 ss. Per una recente rivisitazione della problematica in una particolare prospettiva, v. Zoli, La tutela delle posizioni «strumentali» del lavoratore, Milano, 1988, spec. p. 131 ss.
[21] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII., pag. 22.
[22] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII., pag. 22.
[23] Cfr., in tal senso, Pezzini, op. cit., p. 22 ss.
[24] V. Pergolesi, Diritto costituzionale, II, Padova, 1963, p. 1963.
[25] Si veda ad esempio la definizione di Prodi, voce Salute/Malattia, in Enc. Einaudi, vol. XII, Torino, 1981, p. 422: «stato ottimale corrispondente a funzioni filogenteticamente stabilite, che nell’uomo comprendono anche funzioni logiche, affettive, relazionali, e implicano sistemi interpersonali e strutture sociali»; o quella di Lega, Il diritto alla salute in un sistema di sicurezza sociale, I ed., Roma, 1952, p. 16: «Stato di benessere, fisico e morale, che proviene dall’equilibrio di tutti gli organi e di tutte le funzioni del corpo umano, tale da permettere il normale svolgimento, sotto un punto di vista biofisiologico, della vita umana in relazione alle diverse condizioni di ambiente (cosmico, sociale, familiare) nel quale l’uomo vive». Così anche Melino, in Lineamenti di igiene del lavoro, II ed., Roma, 1981, p.1, per il quale la salute consiste non in una condizione isolata o fine a se stessa, ma piuttosto nell’adeguamento continuo della persona alle variazioni inerenti all’ecologia individuale e collettiva, cioè alle innumerevoli possibilità di contaminazione, di aggressioni, di rapporti o di strutture sociali che, agendo in senso negativo sull’organismo, richiedono necessariamente meccanismo di adattamento.
[26] Così Lauricella, Dizionario medico, IV ed., Firenze 1987, vol. II, p.9. Ponendosi d’altra parte l’accento sul fatto che la salute non è una condizione statica, ma uno stato di equilibrio instabile, si è affermato che può definirsi malattia «una situazione dinamica in cui viene alterato temporaneamente o definitivamente il normale equilibrio dell’organismo; quindi una condizione abnorme caratterizzata dalla presenza di danni organici o di disturbi funzionali, localizzati o generalizzati, ad andamento evolutivo verso un risultato che può essere: la conclusione del processo morboso cioè la guarigione, ovvero l’adattamento, ovvero l’aggravamento dello stato morboso sino all’esito infausto». V. Castellino, Relazione, ne La malattia del lavoratore subordinato e le cure idrotermali: aspetti clinici e giurisprudenziali, atti del convegno di Marino del 30 giugno 1987, Roma, 1988, p. 21 ss., qui pp. 22-23.
[27] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII., pag. 25.
[28] V. Castellino, op. cit., p. 23.
[29] V. ancora Castellino, ivi.
[30] V. Lauricella, op. cit., p. 9-10.
[31] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII., pag. 25.
[32] Così G. Amorth, La malattia…, cit., p.11, secondo cui “nell’ambito del diritto del lavoro la correlazione fondamentale dell’alterazione dello stato di salute concerne l’incapacità al lavoro: la malattia acquista rilievo solo quando provochi tale incapacità”.
Lo stesso schema risulta seguito anche ai fini dell’individuazione delle condizioni di erogazione dell’indennità di malattia. Secondo G. Dondi, L’indennità…, cit., p. 38 nota 16, la sostanziale analogia di posizione fra datore di lavoro ed ente previdenziale si desume dall’art. 2110 c.c. e l’identità di condizioni di rilevanza della malattia nel rapporto di lavoro e riguardo all’indennità trova conferma nell’art. 2, l. n. 33 del 1980.
Su un piano più generale, ritiene che “la traslazione della sopportazione o prestazione del rischio di tali avvenimenti riguardanti la persona del prestatore (ossia, degli avvenimenti di cui agli artt. 2110 e 2111 c.c. n.d.r.) trova la stessa giustificazione che la traslazione dei rischi coperti dalle assicurazioni sociali (…)” F. Santoro Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1981, p. 221.
[33] Così A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 130.
[34] È classico l’esempio del raffreddore che non giustifica l’assenza dell’impiegato, ma che potrebbe giustificare quella dell’operaio edile. Cfr. in questo senso G. Dondi, L’ indennità di malattia dopo la riforma sanitaria, Bologna, 1981, cit., p. 42.
Al fatto che è sufficiente l’incapacità al lavoro specifico si può collegare l’orientamento disposto a considerare lo svolgimento di altra attività lavorativa in costanza di malattia come circostanza non idonea, di per sé, a rendere l’assenza ingiustificata (fermo restando che una circostanza del genere è suscettibile di essere giudicata sulla base di parametri diversi). V. al riguardo, tra le altre decisioni giurisprudenziali, Cass. 16 giugno 1976, in Rgl, II, pp. 409 ss. (che ad esempio sottolinea l’esigenza che non venga compromessa la guarigione o la convalescenza); Cass. 26 gennaio 1981, in Dl, 1982, II, pp. 94 ss. (dove è accentuato il riferimento al dovere di fedeltà ex art. 2105 c.c.); Cass. 17 giugno 1983, n. 4179, in Rgl, 1984, II, p. 381; Cass. 14 aprile 1987, n. 3704, in Gc, 1987, I, p. 2774.
Su questi aspetti, più recentemente v. I. Marimpietri, La «categoria» giurisprudenziale della fedeltà aziendale, in FI, I, 1990, specie c. 997 s.
[35] Così A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 132.
[36] Cfr. H. Goerke, L’importanza della professione e del posto di lavoro del malato per il medico, in L. Premuda (a cura di), Lavoro e malattia. Prospettive storiche e attuali, Padova, 1975, p. 34.
[37] G. Dondi, L’indennità…, cit., p. 41.
[38] Gli strumenti informativi previsti dalla legge di riforma sanitaria (come il libretto sanitario personale), già insufficienti, hanno ricevuto, infatti, una scarsa applicazione. V. su tali strumenti M. PersianI, V. Bellini, P. Rossi, Il servizio sanitario nazionale, Bologna, 1979, pp. 73 ss. Per la constatazione della loro insufficienza e per proposte di un sistema informativo all’altezza delle esigenze, v. la Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di lavoro nelle aziende (cosiddetta “Commissione Lama”), Senato della Repubblica, Doc. XXII- bis n. 2, agosto 1989. V. anche Cass. 11 febbraio 1985, n. 1158, in FI, c. 1710 ss., che sottolinea come le certificazioni mediche vengano rilasciate anche sulla base di insufficienti informazioni sugli impegni del lavoratore.
[39] Così A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 135.
[40] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 45.
[41] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 45.
[42] Così M. Tatarelli, La malattia nel rapporto di lavoro, Padova, 1993, p. 39.
[43] Così Introna, L’invalidità temporanea di malattia, Roma, 1988, 69.
[44] La nozione di invalido civile è dettata dall’art. 2 della legge 118/71, dall’art. 6 del d.lgs. 509/88, dall’art. 5 della legge 124/98: “Sono mutilati e invalidi civili i cittadini affetti da minorazioni congenite o acquisite, anche a carattere progressivo, compresi gli irregolari psichici per oligofrenia di carattere organico o dismetabolico, insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali, che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore ad 1/3 o, se minori di anni 18 che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età. Sono esclusi gli invalidi per cause di guerra, di lavoro, di servizio, nonché i ciechi e i sordomuti soggetti ad altre leggi”.
[45] Così legge 30 marzo 1971, n. 118, che ha istituito la pensione di inabilità.
[46] Così A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 162.
[47]V., al riguardo, le considerazioni di R. Bentivegna, Inabilità temporanea nelle malattie professionali, stato di impregnazione e stati subclinici: quale concetto di malattia?, in Rass. Med. Lav., 1986, pp. 155 ss., utili anche per la riflessione in tema di malattia comune. V. anche F. Caridnale Ciccotti, Il danno oggetto di indennizzo nell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, in L’evoluzione tecnologica e l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, Milano, 1988, p. 44 s., a proposito della capacità della medicina preventiva di accertare alterazioni iniziali della condizione del lavoratore.
[48] Così A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 162.
[49] In particolare A. Pandolfo, ne La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 163, rileva che, relativamente a questa tipologia di fattispecie, è opportuno sottolineare come gli stessi confini di essa possano variare a seconda del modo più o meno rigoroso di intendere l’impedimento materiale del lavoro. E’ emersa in qualche decisione giurisprudenziale la tendenza a disattendere il certificato medico che attesta l’incapacità al lavoro, con la negazione della sufficienza dell’infermità in atto a giustificare l’astensione dal lavoro. V. In questo senso Pret. Milano 3 febbraio 1989 e Pret. Torino 19 gennaio 1989 (ord.), in Ridl, 1989, II, pp. 298 ss., con nota di R. Del Punta, Malattia e incapacità al lavoro del dipendente: una piccola svolta giurisprudenziale?, pp. 302 ss., nonché Pret. Parma e Trib. Milano 6 ottobre 1989, in Ridl, 1990, II, rispettivamente pp. 404 ss. e 414 ss.; così anche App. Milano 20 settembre 1970, in Mgl, 1971, p. 170, che non considera giustificata l’assenza in un caso in cui il lavoratore era affetto da congiuntivite.
A parte aspetti particolari delle predette decisioni, in linea di principio è innegabile che il giudice sia abilitato a far prevalere la sua valutazione circa la compatibilità, o meno, della condizione del lavoratore con l’attività lavorativa. Il problema non è questo, quanto piuttosto quello di stabilire i criteri che lo stesso è tenuto a seguire nel decidere al riguardo.
Vi è la necessità di tener conto dei riflessi che la protrazione dell’impegno lavorativo potrebbe avere sull’evoluzione della malattia, ma anche di altri elementi. L’impossibilità della prestazione non è da intendere in modo assoluto, dovendosi considerare la gravosità, se non la penosità, del lavoro svolto in condizioni alterate. La stessa salvaguardia della dignità del lavoratore è in grado di incidere sulla possibilità della prestazione, posto che non si può pretendere che al fine di rendere la prestazione il lavoratore si sottoponga a modalità di lavoro capaci di sacrificare tale valore.
Sulle decisioni richiamate sopra, possono vedersi anche I. Malagugini, Sul controllo giudiziale dell’idoneità della malattia a giustificare l’assenza; R. D’Isa, Ancora sui controlli di malattia, in Ridl, 1990, III, rispettivamente pp. 26 ss. e 99 ss.
[50] Così A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 164.
[51] Non ritiene che questi costituiscano un problema R. Del Punta, Scritti giuridici…, cit., p. 30, “(…) posto che un ragionevole periodo di convalescenza dovrebbe essere normalmente compreso nella prognosi iniziale della malattia, o nell’eventuale prolungamento di questa”.
[52] A queste ipotesi, si può aggiungere fra le altre anche R. Scognamiglio, Relazione in La malattia del lavoratore…, cit., p. 33, secondo cui perché ci sia rilevanza giuridica “(…) deve ricorrere una malattia, nell’accezione tecnica che sopra sì è formulata (ossia, una malattia che impedisce di
attendere all’attività lavorativa, n.d.r.), e non una qualsiasi affezione che per la sua scarsa
entità non determini alcun obiettivo impedimento alla attività lavorativa (nel senso altresì che la prosecuzione del lavoro possa compromettere la guarigione o provocare un aggravamento del male)”.
[53] Così A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 164.
[54] Cfr. come M. Dell’Olio, intervento in La malattia del lavoratore…, cit., p. 94, sottolinei che “(…) l’impossibilità della prestazione lavorativa, o meglio l’incompatibilità con questa, oltreché dal processo morboso come tale può anche derivare dall’esigenza di misure terapeutiche, a loro volta comportanti l’allontanamento dal luogo di lavoro”.
[55] Così A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 169.
[56] Cfr., per ipotesi del genere, R. Scognamiglio, Diritto del lavoro, Napoli, 1990, p. 419.
[57] Cfr. P. Iettino, La malattia…, cit., p. 2, che fa un lungo elenco di malattie non costituenti ostacolo alla normale attività lavorativa.
[58] Sembra invece che P. Ichino, voce Malattia del lavoratore in EGT, 1988, p. 2, riconduca anche tale esigenza alla sospensione per malattia quando tratta del “caso del lavoratore che, pur non essendo infermo, deve sottoporsi a controlli medici periodici per la prevenzione di una malattia e non può” farlo se non durante l’orario di lavoro”.
Sull’esclusione delle prestazioni idrotermali destinate a prevenire una malattia non ancora insorta, v., da ultimo, Corte cost 16 ottobre 1990 n. 459 (ordinanza).
[59] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 111.
[60] Sui quali Di Maio, L’esecuzione del contratto, Milano, 1967, p. 367 ss.; Breccia, Diligenza e buona fede nell’attuazione del rapporto obbligatorio, Milano, 1968, p. 55 ss.; Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto. Milano, 1969, p. 367 ss.; Natoli, La regola della correttezza e l’attuazione del rapporto obbligatorio, in Studi sulla buona fede, Milano, 1975, p. 126 ss.; BIANCA, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., 1983,1, p. 207 ss.
[61] La tempestività della comunicazione dell’assenza al datore di lavoro va commisurata sempre alle concrete e particolari circostanze. V. Cass. 9 ottobre 1998, n. 10036, che non ha ritenuto rispettato il dovere di diligenza, nel caso di un impiegato, assente per depressione ansiosa, che recatosi in una località esotica per consiglio del neuropsichiatra, aveva tentato, senza riuscirvi, di comunicare un cambiamento di albergo con mezzi non sufficientemente sicuri: un telegramma, non pervenuto al datore di lavoro, anziché una telefonata.
[62] Inoltre, secondo Cass. 7 maggio 2013, n. 10552, rientra tra i normali obblighi di correttezza e diligenza nello svolgimento del rapporto di lavoro anche quello che fa carico al lavoratore di assicurarsi che impedimenti nell’espletamento della prestazione, seppur legittimi, non arrechino al datore di lavoro un pregiudizio ulteriore, per effetto di inesatte comunicazioni che generino un legittimo affidamento in ordine alla effettiva ripresa della prestazione lavorativa. In applicazione di tale principio la Suprema Corte ha confermato la decisione impugnata, che aveva ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare per assenza ingiustificata dal lavoro per il tempo previsto dal contratto collettivo, nei confronti di un lavoratore che, pur temporaneamente impossibilitato per ragioni di salute all’espletamento della prestazione, non aveva rispettato il termine di ripresa del lavoro indicato nel certificato di malattia inviato al datore, ma quello indicato in altro certificato non inviato.
[63] In tal senso v. Cass. 26 marzo 1984, n.1977, in Giust. Civ., 1984, I, p.2170, per la quale, pur in assenza di prescrizioni contrattuali espresse, il lavoratore deve comunicare la malattia tempestivamente secondo correttezza e buona fede; nel caso si è legittimato in licenziamento di un pilota che, comunicando la propria malattia nell’imminenza del volo, aveva provocato notevoli disservizi.
[64] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 112.
[65] Ad es. Greco, Il contratto di lavoro, cit., pp.338-339; successivamente, Delitala, Il contratto di lavoro, cit., p. 289, nel senso della necessità di una comunicazione immediata della malattia, a pena di licenziamento in tronco, salvi giustificati motivi di impedimento.
[66] Previsione contenuta nell’art.39 del contratto collettivo 9 maggio 1936 per il settore del commercio dei prodotti dell’alimentazione.
[67] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 113.
[68] A prescindere dall’effettiva sussistenza dell’impedimento e della prova eventualmente fornita dal lavoratore in altro modo o in diverso momento: P. Ichino, Il contratto di lavoro, cit., p. 89 (v. anche R. Del Punta, La sospensione del rapporto di lavoro, cit. p. 131 ss.).
[69] Così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag.1104.
[70] Art.2, 2° comma, d.l. n.663/1979.
[71] Per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, però, l’art. 71, 2° comma, d.l. 26 giugno 2008, n. 112, convertito in l. 6 agosto 2008, n. 133 (come modificato dall’art. 17, 23° comma, lett. b, d.l. 1 luglio 2009, n. 78, convertito in l. 3 agosto 2009, n. 102) stabilisce che: «Nell’ipotesi di assenza per malattia protratta per un periodo superiore a dieci giorni, e, in ogni caso, dopo il secondo evento di malattia nell’anno solare l’assenza viene giustificata esclusivamente mediante presentazione di certificazione medica rilasciata da struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale».
[72] Non costituiscono modalità di comunicazione equipollenti la trasmissione via fax (valida ai soli fini del rispetto del termine di invio, previsto per consentire l’effettuazione di visite mediche di controllo) o le comunicazione telefoniche (cui non è attribuito alcun valore): così circolare INPS 25 luglio 2003, n. 136.
[73] Per l’individuazione del medico curante v. circolare INPS 28 gennaio 1981, n. 14. Nel caso in cui il lavoratore si ammali durante un soggiorno all’estero v. le circolari INPS 25 luglio 2003, n. 136 e 6 settembre 2006, n. 95 bis.
[74] Art. 2,1°comma,d.l. n.663/1979, sul punto modificato dal 149° comma dell’art.1, l.30 dicembre 2004, n.331. A meno che l’invio telematico risulti impossibile: nel qual caso l’obbligo continuerà a gravare sul lavoratore.
[75] Così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag.1105.
[76] V. la circolare INPS 31 gennaio 2011, n. 21.
[77] Sulla distinzione tra certificato di malattia (contenente diagnosi e prognosi) e attestato di malattia (privo di diagnosi) cfr. l’art. 7, 1° comma, lett. a) e b), d.p.r. 26 marzo 2008. In generale sulle novità introdotte dall’art. 25, l. n. 183/2010, cfr. R. Lonero, I certificati di malattia on line, in M. Tiraboschi (a cura di), Collegato Lavoro – Commento alla legge 4 novembre 2010, n. 183, Milano, 2010, p. 142.
[78] In questi termini cfr. la circolare esplicativa del Ministero per la pubblica amministrazione e l’innovazione e del Ministero del lavoro n. 4/2011 del 18 marzo 2011, la quale precisa altresì che il lavoratore (cui è fatto, comunque, obbligo di fornire, se espressamente richiesto dal datore di lavoro, il numero di protocollo identificativo del certificato di malattia comunicatogli dal medico) può chiedere copia cartacea del certificato e dell’attestato di malattia, e che nel caso in cui il medico non proceda all’invio on line del certificato di malattia (ad esempio, perché impossibilitato a utilizzare il sistema il sistema di trasmissione telematica o nel caso di certificati rilasciati dalle strutture ospedaliere), ma rilasci la certificazione e l’attestazione di malattia in forma cartacea, il lavoratore deve presentare l’attestazione al proprio datore di lavoro e, ove previsto, il certificato di malattia all’INPS secondo le modalità tradizionali.
La stessa circolare chiarisce, poi, che per i tre mesi successivi alla sua pubblicazione è riconosciuta comunque la possibilità per il datore di lavoro del settore privato di chiedere al proprio lavoratore l’invio, secondo le modalità vigenti (destinate in futuro a essere superate), della copia cartacea dell’attestazione di malattia rilasciata dal medico al momento dell’invio telematico della certificazione di malattia o successivamente scaricata dal lavoratole dal sito dell’INPS. Al termine del periodo transitorio il datore di lavoro non potrà più richiedere al proprio lavoratore l’invio della copia cartacea dell’attestazione di malattia, ma dovrà prendere visione delle attestazioni di malattia dei propri dipendenti avvalendosi esclusivamente dei servizi resi disponibili dall’INPS.
[79] Così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag.1106.
[80] Così M. Tatarelli, La malattia nel rapporto di lavoro privato e pubblico, cit. p.64-65.
[81] Così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag.1105.
[82] Sulla distinzione fra comunicazione e certificazione v. Cass, 21 marzo 1997 n. 2494.
[83] Così si è espressa Cass, 15 maggio 1993, n.5544.
[84] V. Art.2 6° comma d.l. n.663/1979.
[85] Infatti, l’omissione dell’invio del certificato di prosecuzione impedisce, al pari del mancato invio del certificato d’inizio della malattia, l’attività di accertamento dell’ente previdenziale: Cass., 30 agosto 1991, n. 9250.
[86] V. Circolare INPS 4 agosto 1997, n.182.
[87] Peraltro, l’invio telematico dei certificati di malattia è destinato a far venir meno, in buona parte, le questioni collegate al ritardato invio della certificazione, che rimarranno attuali nelle residuali ipotesi in cui il lavoratore deve continuare a inviare la certificazione cartacea (ad esempio, in caso di certificati rilasciati dalle strutture ospedaliere o quando il medico è impossibilitato all’invio on line). La riflessione è di A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, cit., p. 364
[88] Sulle visite di controllo si veda O. Mazzotta, Accertamenti sanitari…, cit., specie pp. 7 ss.; L. De Felice, La tutela della persona del lavoratore, in Quaderni dir. lav. rel. ind., n. 6, 1989, pp. 127 ss.
[89] Così A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 382.
[90] Così G. Suppiej, Il potere direttivo dell’imprenditore e i limiti derivanti dallo Statuto dei lavoratori, in RIdl, 1972, p. 16. In senso conforme, sembra anche R. Del Punta, Studi giuridici…, cit., p. 119. V. anche A. Natoli, Assenze per malattia del lavoratore e poteri di accertamento del datore di lavoro, in DI, 1976,1, p. 38. Secondo G. Amorth, La malattia…, cit., p. 95, la facoltà del datore sarebbe l’altra faccia dell’obbligo di buona fede gravante sul lavoratore.
[91]Nell’impostazione di P. Ichino, Malattia…, cit., p. 3, la facoltà del datore di lavoro di controllare lo stato di impedimento del lavoratore è considerata come misura compensativa della parziale inversione dell’onere della prova di cui il lavoratore fruirebbe per essere vincolato ad esibire solo il certificato del medico curante.
[92] Così A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 383.
[93] Così A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 384.
[94] Considerando non plausibile un’azione giudiziaria di accertamento negativo della malattia, R. Del Punta, Scritti giuridici…, cit., p. 106, ipotizza che il datore possa contestare de facto l’accertamento del medico di controllo sanzionando direttamente l’assenza del lavoratore con conseguente apertura di una fase giudiziaria da parte di quest’ultimo.
[95] Così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag.1113.
[96] Comunque assicurate anche se il controllo è effettuato, con il consenso del dipendente, tramite accertamento tecnico preventivo ex. Art. 696, 1° comma, c.p.c.: Trib. Milano, 2 Ottobre 2006, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2007, p.156.
[97] La violazione dell’art. 5 st. lav. (e non solo del 1° comma: così, invece, P. Ichino, Il contratto di lavoro, cit., p. 91) rende inutilizzabile l’accertamento irregolarmente effettuato e costituisce illecito penale (art. 38 st. lav.): incapperebbe, perciò, in tale responsabilità non solo il datore di lavoro che svolgesse accertamenti diretti sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio di un suo dipendente, ma anche il datore di lavoro che a tal fine si rivolgesse a soggetti non autorizzati.
[98] Così R. Del Punta, op. ult. cit. p. 177, che argomenta anche ex art. 2, d.m. 15 luglio 1986; in senso conforme cfr. anche I. Malagugini, I controlli delle assenze per malattia dei lavoratori subordinati alla luce della l. 11 novembre 1983, n. 638 e dei recenti rinnovi contrattuali, in Lav. ’80, 1984, p.11, e L. De Angelis, Il diritto alla salute nella crisi: i controlli della malattia nel lavoro subordinato, in Foro it., 1984, I, c. 2887, i quali, peraltro, riconoscono che il testo normativo parrebbe chiaro nel senso di ammettere la scelta.
Contra, con puntuali argomenti testuali, F. Santoni, Sulla legittimità dei controlli delle assenze per malattia dei lavoratori nella disciplina della l. 11 Novembre 1983, n. 638, in Riv. It. Dir. Lav., 1985, II, p. 80 (a commento di Pret. Firenze, 3 luglio 1984) il quale sostiene, invece che il richiedente (incluso il datore di lavoro) ha la “diretta disponibilità del singolo nominativo” (cioè può scegliersi il medico).
[99] D.M. 28 maggio 2001; INPS Circ. 13 novembre 2001, n. 199.
[100] Sui limiti intrinseci della visita medica, sia perché demandata a medici generici, sia perché di fatto limitata “alla verifica della presenza del lavoratore presso il domicilio eletto e della congruità della prognosi del medico curante rispetto alla diagnosi” cfr. P. Ichino, op. ult. cit. pag. 92.
[101] Art.5, d.l. n- 463/1983; art.4, d.m. 15 luglio 1986.
[102] Il cui fondamento va ricercato nei principi generali di correttezza e buona fede, che impongono al lavoratore un dovere di cooperazione (Cass., 23 novembre 1999, n. 13006, in Informazione Previd., 2000, p.823) che verrebbe violato in caso di comportamenti strumentali o negligenti.
[103] Così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag.1117.
[104] Incluso il licenziamento: Trib. Milano, 23 ottobre 2002, in Giust., 2003, p. 2326; Trib. Voghera, 7 marzo 1983, in Notiziario giur. Lav., 1983, p. 152; Pret. Venezia Mestre, 13 agosto 1982, in Orient. Giur. Lav., 1983, p. 248; Pret. Casteggio, 4 dicembre 1981, in Dir. Lav. 1983, II, p. 35.
[105] Cass., 21 maggio 1986, n. 3384, in Mass. Giur. Lav., 1986, p. 508.
[106] Così Ichino P., Il contratto di lavoro, vol. III, Tratt. Cm. 2003, pag. 95.
[107] Così Ichino P., Il contratto di lavoro, vol. III, Tratt. Cm. 2003, pag. 96.
[108] Cass. 23 novembre 1999, n.13006, n. 4774.
[109] Cosi Corte Cost., 26 gennaio 1988, n. 78.
[110] Così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag.1118.
[111] Cass., 23 luglio 1998, n. 7254.
[112] Cosi Cass., 23 novembre 1999, n. 13006, in Informazione previa., 2000, p. 823, che precisa altresì che la cooperazione, letta con il parametro della buona fede, non può condurre a obblighi onerosi, bensì a un obbligo di diligenza ragionevole e proporzionata alla situazione tutelata, risolvendosi, perciò, nella disponibilità al controllo.
[113] Così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag.1118.
[114] Così, espressamente, Cass., 9 novembre 2002, n. 15773, ma, in precedenza, cfr. già Cass., 30 gennaio 2002, n. 1247.
[115] Sulla necessità del carattere obiettivo dell’impedimento, ai fini della giustificazione dell’assenza, v. Cass. 4 gennaio 2002 n. 50, NGL, 2002, p. 206.
[116] Circa le modalità di applicazione di questa sanzione, si discute se il datore di lavoro possa procedere direttamente alla trattenuta dell’indennità posta a carico dell’istituto previdenziale: in senso negativo v. Cass. 4 giugno 1996 n. 5185, RIDL, 1997, II, p. 134, con nota di G. Martinucci, In tema di decadenza dal trattamento economico di malattia per assenza del lavoratore dal domicilio nelle c.d. fasce orarie di reperibilità.
[117] C. Cost. 26 gennaio 1988 n. 78, FI, 1988, I, c. 2152 e RIDL, 1988, II, p. 305, con commento di R. Del Punta, Note sull’incostituzionalità della normativa sulle «fasce orarie» di reperibilità.
[118] Cass., 2 agosto 2004, n. 14735, in Lavoro e giur., 2005, p.80.
[119] Tale situazione si verifica in caso di concomitanza di visite mediche (ad esempio presso il medico di fiducia che riceva solo nelle fasce orarie di reperibilità, Cass., 29 novembre 2002, n. 16966), prestazioni sanitarie (si pensi alla coincidenza temporale di un ciclo di cure mediche praticate al di fuori dell’abitazione del dipendente, Cass., 6 aprile 2006, n. 8012, in Lavoro e giur., 2006, p.769, con nota di G. Mannacio, Sull’assenza giustificata alla visita fiscale per i controllo sulla malattia) o accertamenti specialistici, purché il lavoratore dimostri: l’impossibilità di effettuare tali visite in orario diverso da quello corrispondente alle fasce orarie di reperibilità (Cass., 20 febbraio 2007, n. 3921; Cass. 23 novembre 2004, n. 22065, in Mass. Giur. Lav., 2005, p.62), il carattere dell’indifferibilità della visita medica o del trattamento terapeutico, oppure l’indispensabilità (in senso parzialmente attenuato Cass., 23 dicembre 1999, n. 14503, in Informazione previd., 2000, p. 819, che mitiga l’indispensabilità, ammettendo che le modalità prescelte dal lavoratore per effettuare la visita ritenuta indifferibile fossero, se non indispensabili, le sole ragionevolmente praticabili).
Rientra nelle ipotesi giustificabili la presenza di una seria e valida ragione socialmente apprezzabile (quale la prestazione di un servizio volontario di centralinista presso la sede di un’associazione privata di pubblica assistenza, Cass., 30 marzo 1990, n. 2604, in Mass. Giur. Lav., 1990, p. 285), la cui dimostrazione spetta sempre al lavoratore.
Giustificata è inoltre l’assenza che deriva dallo stato di necessità (si pensi al ricovero ospedaliero) o da cause di forza maggiore(Cass., 17 novembre 1993, n. 11358, in Riv. It. Dir. Lav., 1994, II, p. 734, con nota di M. Palla, Contrattazione collettiva e oneri aggiuntivi per il lavoratore in malattia), che ricomprende potenzialmente tutti i casi in cui il lavoratore sia in grado di provare che, un qualsivoglia serio motivo di assenza (aggravamento della malattia, nuovo sintomo, necessità di un controllo sul decorso della malattia) o di indisponibilità alla visita di controllo gli abbia impedito di rendersi reperibile (Cass., 19 marzo 1996, n. 2337, cit.; Cass., 3 febbraio 1996, n. 922; Cass., 21 ottobre 1995, n. 10965, in Mass. Giur. Lav., 1996, p. 62.).
[120] V. Cass., 14 luglio 1994, n. 6579, che individua il caso del lavoratore assentatosi dal proprio domicilio durante la fascia oraria di reperibilità per accompagnare la moglie, priva di patente di guida, a fare la spesa; Cass., 2 marzo 2004, n. 4247, lavoratore assentatosi per recarsi nell’ambulatorio del proprio medico per il controllo della pressione arteriosa, in mancanza di prova dell’urgenza e indifferibilità della misurazione e della dimostrazione che le modalità prescelte alla scopo fossero in concreto le solo ragionevolmente praticabili; infine Cass., 12 gennaio 1994, n. 266, in Giur. It., 1995, I, 1, c. 488, lavoratore assentatosi per recarsi presso il proprio medico curante per la rimozione di alcuni punti di sutura praticati in occasione di un intervento chirurgico oppure per il periodico controllo dell’evoluzione dell’affezione morbosa e della prescrizione farmacologica.
[121] Soltanto in relazione a questo fatto l’attestazione, provenendo da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, fa fede fino a querela di falso. Per un caso in cui è stata ritenuta non coperta dall’efficacia probatoria dell’atto pubblico la valutazione del medico del servizio ispettivo circa l’atteggiamento minaccioso con cui un lavoratore aveva rifiutato la visita di controllo, v. Cass. 24 gennaio 1992 n. 773, RIDL, 1993, II, p. 303, con nota di R. Del Punta, Attestazione di un fatto oggettivo e valutazione del medesimo nel referto del servizio medico ispettivo.
[122] A favore del mero giudizio sullo stato di salute cfr. P. Ichino, Il contratto di lavoro, cit., p. 97. Per la tesi estensiva cfr., invece, A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, cit., pp. 383-391.
[123] Immediatezza svalutata da Trib. Parma, 14 gennaio 2000, in Riv. Crit. Dir. Lav., 2000, p. 409, secondo cui il lavoratore che non abbia eccepito nulla «seduta stante» può sempre agire giudizialmente per contestare le risultanze della visita medica di controllo.
[124] Cass., 1 febbraio 1999, n.844.
[125] Sulla necessità di un certificato completo (ai fini, in particolare, del conseguimento dell’indennità di malattia), v. Dondi, op. cit., p. 53
[126] In realtà la produzione di un certificato falso può essere valutata sotto tre ottiche diverse, che peraltro non si escludono a vicenda: quella della falsità come sintomo evidente della arbitrarietà dell’assenza (in questo caso la sanzione è per l’assenza ingiustificata: v. in particolare Cass. 19 luglio 1985, n. 4283, in Giust., civ., 1986, I, 126, con nota di Ghinoy), quella dell’inadempimento formale come tale, e quella, che pare privilegiata dalla giurisprudenza, delle ripercussioni che l’atto dell’alterazione o della contraffazione produce nella relazione fiduciaria fra lavoratore e datore di lavoro.
In questa terza prospettiva si ritiene che si giustifichi, nell’ipotesi, un licenziamento per giusta causa: v. Cass. 5 febbraio 1985, n. 816, ivi, 1986, I, 1339, ritenendosi giustamente rilevante, ai fini, la mera falsificazione, e non anche l’idoneità del certificato a ledere la pubblica fede, che è richiesta solo ai fini penali; Pret. Milano 5 marzo 1981, in Orient. giur. lav., 1981, 712 (s.m.); Trib. Vicenza 28 ; febbraio 1981, ivi, 1098; Pret. Pavia 29 settembre 1980, in Not. giur. lav., 1980, 1343; Pret. Napoli 3 luglio 1979, in Foro it., 1980, I, 3123; Pret. Monza 28 I febbraio 1977, in Orient. giur. lav., 1977, 589 (invio di certificati non corrispondenti ad effettive visite); Pret. Vercelli 9 marzo 1976, in Not. giur. lav., 1976, 360 (falsificazione della data). Si registrano però anche conclusioni diverse e in qualche misura opinabili: Cass. 1° marzo 1985, n. 1784, in Notiz. giurispr. lav., 1985, 534, ha escluso la configurabilità della giusta causa, data la grossolanità e perciò la riconoscibilità del falso; così Cass. 15 dicembre 1975, n. 4119, in Not giur. lav., I 1976, 270, ha ritenuto che la grossolanità del falso e il turbamento psichico del dipendente dovuto alla malattia della madre fossero elementi idonei ad attenuare la gravità del fatto e perciò ad escludere la risolubilità del rapporto; Cass. 29 novembre 1982, n. 6494, infine, in un caso in cui il certificato era stato contraffatto per nascondere lo stato di detenzione, ha affermato che il giudice di merito avrebbe dovuto accertare se l’azione fosse o meno giustificabile per ragioni di riservatezza. È palese in queste due ultime decisioni l’influsso della giurisprudenza penale, la quale tende in generale ad escludere la configurabilità del reato qualora il falso realizzato, per la mancanza di idoneità ingannatoria, non realizzi l’offesa richiesta dalla norma incriminatrice (cfr. ad es. Cass. pen. 3 luglio 1984, in Giust. pen., 1984, II, 548, con nota di Dinacci; Cass. 21 giugno 1983, ivi, 287). È certo, peraltro, che la valutazione ai fini penali (ex artt. 481, o addirittura 479 e 480 c.p.) ed ai fini civili operano su piani del tutto diversi (cfr. Ghinoy, nota, cit. supra), e che l’insussistenza del reato non esclude che nel fatto possano ravvisarsi gli estremi della giusta causa.
[127] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 155.
[128] Per casi di questo genere, v. Pret. Milano 21 agosto 1984, in Orient. giur. lav., 1984, 1129; Pret. Milano 17 luglio 1984, in Lav. prev. oggi, 1984, 2174, per il caso di un lavoratore sofferente di lombaggine ed epatopatia che aveva partecipato, vincendoli, ai campionati nazionali di culturismo; Pret. Lucca 2 aprile 1981, in Giust. civ., 1981, 1791; Pret. Viareggio 25 giugno 1973, in Foro it., 1973,1, 3233, in un caso nel quale il lavoratore era stato assente per un anno per una malattia nervosa ed il CTU aveva poi accertato che essa era durata per soli cinque mesi e che il soggetto aveva coadiuvato un familiare in diverse attività. Per conclusioni di segno favorevole al lavoratore, v. invece App. Milano 12 dicembre 1974, in Mass. giur. lav., 1975, 582; Pret. Milano 23 luglio 1973, in Foro it., 1973, I, 3220.
[129] In tal senso, v. Ichino, Diritto alla riservatezza etc., cit., pp. 95-96.
[130] Come esempi di questo indirizzo, v. Pret. Milano 3 febbraio 1989, cit. che, sollecitato in tal senso dalla parte imprenditoriale (che agiva in giudizio in seguito ad impugnazione del provvedimento disciplinare in sede amministrativa da parte della lavoratrice), non ha negato la sussistenza della distorsione al dito mignolo denunciata dalla lavoratrice medesima, ma ha escluso, nonostante il diverso parere di tre successivi medici dell’USL, che tale infermità potesse cagionare un impedimento al suo lavoro di centralinista; Pret. Torino 19 gennaio 1989, ivi, che ha concluso nello stesso senso traendo argomento dalla osservazione dell’aspetto e del comportamento del lavoratore nel corso dell’udienza, di discussione del suo ricorso ex art. 700 c.p.c., in costanza dell’allegata malattia; Trib. Milano 6 ottobre 1989, in Riv. it. dir. lav.,1990, II, 414,che ha ritenuto ingiustificata — con conseguente legittimità del licenziamento – l’assenza dal lavoro di un operaio per più di un anno motivata con uno strappo muscolare di modesta entità, non potendo tale infermità determinare, malgrado le difformi certificazioni mediche, un apprezzabile impedimento al lavoro per più di qualche giorno; Pret. Milano 26 giugno 1989, ivi. 644, nel caso di una malata scoperta mentre esercitava la prostituzione. Interessante anche il caso deciso da Pret. Parma 27 giugno 1989, ivi, 404, che ha ritenuto legittimo il licenziamento per assenze ingiustificate intimato ad una lavoratrice assunta obbligatoriamente come invalida civile che, malgrado l’adibizione a mansioni confacenti alle sue condizioni, aveva effettuato prolungate assenze per malattia giustificate dallo stesso disturbo (ipoacusia sensoriale) che già le aveva consentito di ottenere l’avviamento, e già non ritenuto tale da integrare uno stato di incapacità dall’INPS, dall’INAIL e dal collegio medico ex art. 20 1. n. 482 del 1968.
[131] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 156.
[132] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 157.
[133] Orientamento consolidato: Cass., 4 aprile 1997, n. 2953, cit.; Cass., 17 novembre 1989, n. 4913, in Foro it., 1990, I, c. 1284; Cass., 5 settembre 1988, n. 5027, in Dir. Lav., 1988, II, p. 371. In dottrina cfr., per tutti, R. Del Punta, La sospensione del rapporto di lavoro, cit., p. 153 ss., e P. Ichino, Il contratto di lavoro, cit., p. 98, particolarmente nota 218 (e ivi ulteriori riferimenti dottrinali e giurisprudenziali).
[134] Cass., 1 luglio 1986, n. 4347, in Notiziario giur. Lav., 1987, p. 155; Cass., 14 dicembre 1985, n. 6349, in Mass. Giur. Lav., 19886, p. 202 (che addirittura esclude l’attendibilità degli accertamenti sanitari di cui all’art. 5, 3° comma, st. lav. perché condotti esclusivamente nella fase acuta della malattia); Cass., 20 aprile 1984, n. 2620, in Notiziario giur. Lav., 1984, p. 457, e in Dir. Lav., 1985, II, p. 219.
[135] Cass., 11 maggio 200, n. 6045; Cass., 22 maggio 1999, n. 5000; Cass., 14 settembre 1993, n. 9523, Cass., 5 novembre 1987, n. 8124, in Notiziario giur. Lav., 1987, p. 761.
[136] Ad esempio, Cass., 24 gennaio 1992, n. 773, in Riv. It. Dir. Lav., 1993, II, p. 303, con nota di R. Del Punta, Attestazione di un fatto oggettivo e valutazione del medesimo nel referto del servizio medico ispettivo, ha negato il carattere di prova privilegiata alle dichiarazioni del medica circa l’impossibilità di effettuare il controllo, in quanto corrispondenti a valutazioni soggettive dell’atteggiamento assunto dal lavoratore.
[137] Così quando vi siano singolari coincidenze tra l’inizio della malattia e vicende concernenti il rapporto di lavoro (un caso emblematico è proprio quello delle malattie «diplomatiche», definite in P. Milano 16 ottobre 1996, sulla quale v. nota di Ichino, Sulla sindrome ansioso-depressiva conseguente alla comunicazione del licenziamento, q. Riv., 1997, II, 138. Con tale espressione si intendono quelle malattie che si manifestano improvvisamente, in singolare coincidenza con certi momenti «critici» del rapporto di lavoro e hanno lo scopo di ritardare l’effetto risolutivo di un licenziamento, di sospendere un trasferimento, di consentire al «malato» di dedicarsi temporaneamente ad altra attività o di andarsene in vacanza pur in assenza di ferie autorizzate, etc. Così Cass. 3 maggio 2001, n. 6236, con nota di Stefano Bartalotta, in RIDL, II, 2002, p. 345), plateali incongruenze fra la diagnosi e la prognosi oppure tra la diagnosi o la prognosi e gli accertamenti diagnostici o le terapie prescritte dal medico(v. P. Ichino, op. ult. cit., p. 100 ss. In giurisprudenza cfr. Cass., 5 maggio 2000, n. 5622, in Riv. It. Dir. Lav., 2000, II, p. 695.), inspiegabili ritardi tra l’inizio della malattia e la certificazione medica, comportamenti del lavoratore incompatibili con il dichiarato stato di malattia (come lo svolgimento di altra attività lavorativa oppure di attività ludiche o di svago, che richiedano un impegno fisico tale da contrastare con la malattia e da attestare il buono stato di salute, così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag.1132).
[138] L’ordinaria tipizzazione delle cause sospensive non esclude, peraltro, che, pur in assenza di specifica previsione legale o contrattuale, l’obbligazione di prestare l’attività lavorativa possa essere sospesa (senza conseguenze penalizzanti) quando l’adempimento comporterebbe il sacrificio di interessi di rango superiore rispetto all’interesse sotteso al rapporto obbligatorio: possono sovvenire in proposito gli esempi di C.M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni (Art. 1218-1229), seconda ed., in Commentario del Codice Civile, a cura di A. Scialoja-G. Branca, Bologna-Roma, 1979, p. 119 (lavoratore «momentaneamente colpito da grave turbamento morale per l’accadimento di eventi socialmente apprezzabili (morte di congiunti stretti, serio corso pericolo di morte violenta, ecc.) »). Nella medesima ottica (e con ulteriori esempi) cfr. P. Perungieri, Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento (Artt. 1230-1259), ibidem, Bologna-Roma, 1975, p. 455.
[139] Così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag.1060.
[140] Non sono mancate originali riletture degli eventi sospensivi, considerati non estranei alla causa del contratto di lavoro, ma riconducibili al suo contenuto assicurativo (P. Ichino, II contratto di lavoro, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu-F. Messineo, III, Milano, 2003, pp. 10-11; ID., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, I, Milano, 1984, p. 73 ss.) o innestati nel sinallagma genetico del medesimo (M. Cinelli, I permessi nelle vicende del rapporto di lavoro, Milano, 1984,p. 203 ss., con specifico riferimento, appunto, ai permessi). In proposito cfr., però, le diffuse perplessità di R. Del Punta, La sospensione del rapporto di lavoro, cit., p. 397 ss. (incline a preservare una nozione tradizionale di causa del contratto, pur nella consapevolezza che « negli istituti sospensivi di più recente generazione sembra essersi consumato un tendenziale scivolamento dalla necessità alla libertà »: Id., La sospensione della prestazione di lavoro, in A. Vallebona [a cura di], I contratti di lavoro, I, Trattato dei contratti, diretto da P. Rescigno-E. Gabrielli, Torino, 2009, pp. 815-816), condivise anche da L.Calafà, Congedi e rapporto di lavoro, Padova, 2004, p. 123 ss. (e soprattutto p. 143 ss.).
[141] Così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag.1061.
[142] V., tra i primi, L. Mengoni, Note sull’inadempimento involontario dell’obbligazione di lavoro, in Riv. Trim. dir. proc, civ., 1950, p. 270 ss.; G. F. Mancini, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Milano, 1957, p. 47; e, in seguito, M. J. Vaccaro, La sospensione del rapporto di lavoro, Napoli, 1983, p. 7 ss.
[143] V. G. Smuraglia, op. cit., p. 238 ss.; G. Amorth, La malattia nel rapporto di lavoro, Padova, 1974, p. 19, soprattutto nota 42 (che utilizza il concetto in relazione a malattie che, pur non incidendo sulla capacità lavorativa, tuttavia rilevano come causa di giustificazione delle assenze perché richiedono l’allontanamento dalla collettività per ragioni di profilassi); P. Ichino, Il contratto di lavoro, cit., p. 6 ss. (e ivi ulteriori indicazioni bibliografiche), cui aderisce G. Zino Grandi, La sospensione del rapporto, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, vol. XXIV, Il lavoro subordinato, a cura di F. Carinci, t. II, Il rapporto individuale di lavoro; costituzione e svolgimento, coordinato da A. Perulli, Torino, 2007, p. 491; T. Renzi, Caratteri generali, in Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. Carinci, II, Il rapporto di lavoro subordinato: costituzione e svolgimento, a cura di C. Cester, seconda ed., Torino, 2007, p. 1598. Di « inesigibilità della prestazione di lavoro » parla anche M. Rusciano, voce Sospensione del rapporto di lavoro (cause di), in Enc. giur. Treccani, XXX, Roma, 1993, p. 3.
[144] Secondo un’ormai datata disputa dottrinale: R. Del Punta, La sospensione del rapporto di lavoro, cit., p. 39 (e ivi riferimenti bibliografici alle contrapposte posizioni di Torrente e Mengoni); e soprattutto A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 37 ss.; di recente cfr. anche T. Schiavone, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, in Riv. it. dir. lav., 2010,1, p. 153 ss.
[145] Così R. Del Punta, op. ult. cit., pag. 41.
[146] Così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag.1062.
[147] Così G. Suppiej, Il rapporto di lavoro (costituzione e svolgimento), cit., p. 350.
[148] Così G. Smuraglia, La persona del prestatore nel rapporto di lavoro, cit., p. 238 ss.
[149] Cosi P. Ichino, op. cit., p. 11, il quale, in replica a quanti hanno dubitato della necessità di importare « categorie sfornite di un riscontro normativo nel nostro sistema » (ad esempio, R. Del Punta, op. ult. cit., p. 42), precisa altresì che « del diritto di cittadinanza » del concetto di inesigibilità nel nostro ordinamento « non può dubitarsi, ove venga inteso nel senso qui proposto, cioè come sinonimo di delimitazione contrattuale dell’estensione dell’obbligazione in riferimento a determinate possibili sopravvenienze ».
[150] Non dalla osservazione secondo cui «laddove l’impossibilità inerisce alla persona il giudizio in merito alla rilevazione di essa non può essere di mero fatto, ma è anche, necessariamente, un giudizio di valore» (così R. Del Punta, La sospensione del rapporto di lavoro, cit., p. 43). Non dall’asserita connotazione meramente empirica del concetto di esigibilità (v. R. DeL Punta, op. ult. cit., p. 42) e nemmeno dall’asserita estraneità al nostro ordinamento della categoria dell’inesigibilità.
[151] V. M. Rusciano, voce Sospensione del rapporto di lavoro (cause di), cit., p. 3, parla di « mancanza imputabile di una prestazione possibile [che] non provoca le normali conseguenze dell’inadempimento contrattuale ».
[152] Così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag.1065.
[153] Così A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 259.
[154] Diritto alla conservazione del posto e facoltà di licenziare liberamente non sono conciliabili. La previsione del primo esclude la seconda. D’altro canto, non si vede quale principio potrebbero stabilire le fonti richiamate nel secondo comma che non sia quello della sospensione del rapporto nel “periodo” ivi indicato. Ciò è evidente per i contratti collettivi e gli usi. Qualora questi disciplinino la malattia, il differimento del diritto di recedere ex art. 2118 si avrà come riflesso dei periodi di conservazione del posto definiti. In assenza di determinazioni contrattuali o di usi in tal senso, il giudice non potrà che determinare il periodo per il quale è equo conservare il posto al lavoratore ammalato. Anche in tale ipotesi, quindi, l’incidenza sull’art. 2118 sarà riconducibile in primo luogo ad una fonte esterna all’art. 2110 (anche se, nell’ipotesi dell’equità, si tratta di una fonte che in tanto può intervenire in quanto abilitata dallo stesso art 2110). In questo senso, il capoverso dell’art. 2110 rende esplicito – e, in questo modo, ribadisce – un principio già implicito in norme o decisioni che stabiliscono periodi di conservazione del posto. La riflessione è di A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 260.
[155] Qui il licenziamento dell’impiegato è considerato, ma solo per stabilire che, laddove la malattia superi il periodo di conservazione del posto e il principale licenzi, sono dovute le indennità di licenziamento (v. l’art. 6 del r.d.l. del 1924).
[156] Quelle richiamate sono le formule adottate nei contratti per i settori edile e metalmeccanico.
[157] Così A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 260.
[158] Nel senso dell’applicazione dell’art. 2110 al lavoratore in prova, ma con l’effetto aggiuntivo della sospensione del decorso del termine massimo della prova, v. Cass. 10 ottobre 2006, n. 21698.
[159] Sull’inesistenza, invece, di un dovere di assentarsi dal lavoro, v. A. Pandolfo, op.cit., p. 257; ma con la necessaria e condivisibile precisazione che se il malato non vuole astenersi dal lavoro (o vuole rientrare al lavoro prima della scadenza della prognosi), il datore di lavoro (responsabile ex.2087) può rifiutarne la prestazione senza essere considerato in mora.
[160] Così Tatarelli M. in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Torino, 2013, p. 518.
[161] Si tratterà più diffusamente del comporto al cap. II.
[162] Cass., 10 febbraio 1995, n. 1169, in Mass. Giur. Lav., 1995, 66; Cass., 10 aprile 1996, n. 3351, in Giust. Civ. mass., 1996, 539; Cass., 16 giugno 1998, n. 6001, ivi, 1998, 1332. La conclusione si fonda su due rilievi: l’art. 2110 c.c. non prevede eccezioni al computo nel comporto di qualsiasi malattia; malattia ed infortunio sono oggetto di pari tutela da parte dell’art. 2110 c.c. anche per quanto concerne il potere demandato alle parti sociali di determinazione del periodo di comporto, per cui la diversità dei sistemi di accertamento delle due fattispecie non è di ostacolo ad una loro considerazione unitaria ad opera della contrattazione collettiva al fine. Cass., 28 marzo 2011, n. 7037, in Giust. Civ. mass., 2011, 476, ha precisato che la computabilità delle assenze dovute ad infortunio deve essere invece esclusa – come per le malattie imputabili – quando l’evento non solo sia dovuto a fattori di nocività insiti nelle mansioni o presenti sul luogo di lavoro, quindi sia collegato allo svolgimento dell’attività, ma il datore di lavoro risulti anche responsabile della violazione dell’art. 2087, con conseguente imputabilità dell’impossibilità della prestazione al comportamento della parte destinataria della stessa.
[163] Secondo Cass., 1 settembre 2006, n. 18911, in Giust. Civ. mass., 2006, 9, non incide sulla legittimità del recesso la circostanza che, successivamente all’intimazione sia emerso da un giudizio cui il datore di lavoro non abbia partecipato, il cui esito, quindi, sia a lui inopponibile, che alcune assenze, denunciate come dovute a malattia, costituivano in realtà infortunio di lavoro, come tali non computabili alla stregua del contratto collettivo; infatti, poiché il licenziamento produce effetto nel momento in cui il lavoratore riceve l’intimazione, la verifica delle condizioni che lo legittimano deve essere compiuta con riferimento al momento di perfezionamento del negozio unilaterale.
[164] Così Tatarelli M. in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Torino, 2013, p. 519.
[165] Cass., 31 gennaio 2012, n. 1401; Cass., 7 febbraio 2011, n. 2971, in Notiziario giurispr. Lav., 2011, 202; Cass., 28 gennaio 2010, n. 1861, in Riv. Critica dir. lav., 2010, 580.
[166] Così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag. 1142.
[167] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 399.
[168] V. la classica definizione di Messineo (voce Contratto, dir. priv., in Enc. Dir., vol. IX, Milano, 1961, p. 784 ss., qui p. 911): il nesso di corrispettività «consiste nell’interdipendenza, o causalità reciproca, fra le due prestazioni e fra la due obbligazioni, per cui ciascuna parte non è tenuta alla propria prestazione, se non sia dovuta, ed effettuata, la prestazione dell’altra; l’una prestazione è il presupposto indeclinabile dell’altra».
[169] Così, R. Del Punta, op. ult. cit., p. 516.
[170] Così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag.1144.
[171] Come ricorda anche Corte Cost., 4 marzo 2008, n. 47.
[172] Cfr. Amoroso G. – V. Di Cerbo- A. Maresca, Diritto del lavoro, 2013, pag. 1018.
[173] E non un obbligo sostitutivo autonomo del datore di lavoro, osserva M. Persiani, op. loc.. ult. cit. (cui adde R. Del Punta, op. ult., cit., p. 509, il quale ragiona, peraltro, a margine non della contrattazione collettiva, ma dello stesso art. 2110, 1° comma, cc.).
[174] V. Treu, Onerosità e corrispettività nel rapporto di lavoro, Milano, 1968, p. 195 ss., alle cui argomentazioni si sono poi uniformati, sia pure, a volte, con alcuni distinguo: L. Zoppoli, La corrispettività nel contratto di lavoro, Napoli, 1991, p. 113 ss.; G. Perone, Retribuzione, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, p. 46 ss.; A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, cit., p. 318 ss. e (in replica alla tesi « previdenziale » di V. Simi, Erogazioni del datore di lavoro e sicurezza sociale, in Studi in onore di A. Asquini, Padova, 1965, V, p. 2241 ss.) soprattutto p. 325 ss.; R. Del Punta, op. ult. cit., p. 402 ss. (in base al rilievo che la qualificazione retributiva « si inserisce perfettamente nella struttura causale dell’istituto »: p. 461); P. Ichino, Il contratto di lavoro, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu-F. Messineo, II, Milano, 2003, pp. 148-150.
[175] Non possono, invece, essere corrisposti trattamenti economici e indennità economiche per malattia per periodi successivi alla cessazione del rapporto di lavoro a tempo determinato: art. 5, 2° comma, d.l. n. 463/1983.
[176] Secondo la prassi amministrativa, v. circolare INPS 15 luglio 1996, n. 147.
[177] Così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag.1150.
[178]Nel caso in cui il lavoratore a tempo determinato nei dodici mesi immediatamente precedenti non possa far valere periodi lavorativi superiori a trenta giorni, il trattamento economico e l’indennità di malattia sono concessi per un periodo massimo di trenta giorni nell’anno solare. In tal caso l’indennità economica di malattia è corrisposta, previa comunicazione del datore di lavoro, direttamente dall’INPS (art. 5,3° comma, d.l. n. 463/1983).
[179] Così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag.1151.
[180] Per ulteriori approfondimenti v. la circolare INPS 28 giugno 1993, n. 145, che distingue, in particolare, a seconda che il periodo massimo indennizzabile sia stato raggiunto nell’anno di insorgenza della malattia o nell’anno successivo.
[181] Così la circolare INPS 6 settembre 2006, n. 95 bis, rilevando che l’art. 6, 2° comma, 1. n. 138/1943 «precisa che l’indennità non è dovuta per le giornate in cui il lavoratore ammalato percepisce dal datore di lavoro un trattamento economico, non integrativo della indennità di malattia, di importo pari o superiore a quello previdenziale». Nel caso di lavoratori italiani operanti all’estero l’indennità viene calcolata su una retribuzione convenzionale annualmente stabilita con decreto ministeriale (attualmente cfr. il d.m. 3 dicembre 2010).
[182] Cfr. Amoroso G. – V. Di Cerbo- A. Maresca, Diritto del lavoro, 2013, pag. 1012.
[183] Cass., 15 dicembre 1997, n. 12673.
[184] App. Torino, 26 novembre 2001, in Giur. piemontese, 2003, p. 46.
[185] Cioè agli operai agricoli (quindi, esclusi i dirigenti e gli impiegati) (art. 1, 10° comma, d.l. 10 gennaio 2006, n. 2, convertito con modificazioni dalla legge 11 marzo 2006, n. 81), ai lavoratori assunti a tempo determinato per i lavori stagionali, agli addetti ai servizi domestici e familiari, ai lavoratori disoccupati o sospesi dal lavoro che non usufruiscono del trattamento di Cassa integrazione guadagni, agli iscritti alla gestione separata (art. 1, 788° comma, 1. n. 296/2006), ai lavoratori dipendenti non agricoli con contratto di lavoro a tempo parziale (V. la circolare INPS 3 marzo 2010, n. 30), ai lavoratori dipendenti da impresa assoggettata a procedura fallimentare, quando il datore di lavoro non è in grado di corrispondere le retribuzioni (la prassi amministrativa esclude, invece, che possa essere posta a carico del Fondo di garanzia l’indennità di malattia a carico dell’INPS che il datore di lavoro avrebbe dovuto anticipare (V. la circolare INPS 15 luglio 2008, n. 74)).
[186] Cass., 28 agosto 2000, n. 11296.
[187] Cass., 20 maggio 1991, n. 5639, in Foro ti., 1991,1, e. 2376; Trib. Grosseto, 2 luglio2003, in Lavoro e giur., 2004, p. 91; Trib. Treviso, 12 gennaio 1993, in Informazione previdenziale., 1994, p. 1004 (secondo cui la messa in mora del datore di lavoro interrompe la prescrizione anche nei confronti dell’INPS); Trib. Milano, 20 aprile 1988, in Lav. ’80, 1988, p. 984; in senso contrario Pret. Busto Arsizio, 19 gennaio 1990, in Orient. giur. lav., 1990, p. 207. Pret. Torino, 18 aprile 1991, in Dir. e prat. lav., 1991, p. 2086, distingue, invece, tra la quota integrativa a carico del datore di lavoro (soggetta al termine di prescrizione annuale) e l’indennità dovuta per il periodo di carenza.
[188] Nonché, in caso di incidenti provocati dalla circolazione di autoveicoli, dalla compagnia di assicurazione del lavoratore e, in virtù del d.p.r. 18 luglio 2006, n. 254, anche da quella dell’assicurato.
[189] L’INPS, invece, ferma restando l’esperibilità in astratto dell’azione surrogatoria in presenza di patologie riconducibili, in base alle dichiarazioni rese dall’assicurato, a possibili situazioni di mobbing, si mostra restio ad avviare un’autonoma procedura di recupero per i casi di malattia semplicemente additati come mobbing e privi di un accertamene giudiziale di responsabilità del datore di lavoro, ritenendo che la prova del nesso causale tra il pregiudizio subito e la malattia sia particolarmente ardua (circolare INPS 6 settembre 2006, n. 95 bis).
[190] Così M. Persiani e F. Carinci, Trattato di diritto del lavoro a cura di M. Martone, Volume IV, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 2012, pag.1156.
[191] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 547.
[192] Così Mazziotti, op. ult. loc. cit.
[193] V., nello stesso senso, Vaccaro, op. cit., pp. 222-223. Per quanto riguarda la gratifica natalizia, peraltro, c’è anche il problema se il datore possa detrarre o no dal dovuto il rateo di tredicesima eventualmente corrispostogli dall’ente previdenziale: in senso affermativo v. Cass. 7 ottobre 1965, n. 2082, in Dir. lav., 1966, II, 137, con nota critica di Persiani.
[194] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 549.
[195] Cfr. Vaccaro, op. cit., p. 221.
[196] Su tale norma, v. Vallebona, Il trattamento di fine rapporto, cit. p. 76 ss.; G. Santoro Passarelli, op. cit., p. 127 ss.; Pera, voce Trattamento di fine rapporto; cit., p. 852 ss.; Vaccaro, op. cit., p. 229 ss.
[197] Cass. 9.9.1981, n. 5061, in Foro It. Rep. 1981, voce lavoro (rapporto di) , n.586.
[198] Trib. Milano, 22.11.1975, in Orient. Giur. Lav.,1976, p.115.
[199] In argomento, v. Ghinoy, Mansioni assegnabili al lavoratore, in Giust. civ., 1984, 11, 245, qui pp. 260-262.
[200] V. Corte Cost. 6 maggio 1963, n. 66, in Foro il., 1963,1, 854.
[201] V. Ghiera, La giurisprudenza sulle ferie dei lavoratori e la funzione extra-legislativa della giurisprudenza costituzionale, in Dir. lav., 1974, I, 343, spec. p. 351. Nello stesso ordine di idee, v. Ballestrero, op. ult. cit., p. 375.
[202] Cfr. Corte Cost. n. 66 del 1963, cit.: « … il diritto del lavoratore alle ferie annuali soddisfa allo scopo di proteggerne le energie psico-fisiche, e… la ragione della sua affermazione sussiste pur quando non, si sia completato un anno di lavoro: potrebbe, in tal caso, ammettersi un bisogno minore, ma non escludersi del tutto che la necessitò esista ».
[203] Così Ichino, L’orario di lavoro e i riposi, in questo Commentario, sub art. 2107-2109, cit., p. 190.
[204] V. Cass. 5 aprile 1982, n. 2078, in Giust. civ., 1982,1, 1477; Pret. Monza 26 febbraio 1976, in Riv. giur. lav., 1977, II, 924 (s.m.); Pret. Rho 30 ottobre 1974, in Orient. giur. lav., 1975, 92. In dottrina, nello stesso senso, v. Ichino, op. ult. cit, pp. 177-178, che ricorda puntualmente come in tal senso si pronunci, sebbene lasciando poi ai singoli Stati larghi margini di possibili differenziazioni applicative, anche l’art. 5 u.c. della convenzione OIL n. 132 del 1970, secondo il quale, «alle condizioni che saranno stabilite da parte dell’autorità competente o dall’organismo appropriato in ciascun Paese, le assenze dal lavoro per motivi indipendenti dalla volontà del prestatore interessato, così come le assenze per malattia, infortunio o maternità, devono essere computate nel periodo di servizio» ai fini della maturazione del diritto al riposo annuale. Tale conclusione sembra definitivamente confermata dalla sentenza della Corte Costituzionale, n. 616 del 1987, sull’effetto sospensivo della malattia sulle ferie già iniziate, alla luce di quanto sottolineato dalla Corte circa la frustrazione, che altrimenti si avrebbe, dell’esigenza che sta dietro alle stesse.
[205] Tale posizione è sostenuta da Ichino, Malattia, assenteismo e giustificato motivo di licenziamento, cit., qui p. 281, e voce Malattia, cit., p. 7; Vaccaro, op. cit., p. 220. In senso contrario, Riva Sanseverino, op. ult. cit., pp. 383-384; Pandolfo, op. ult. cit., p. 316.
[206] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 555.
[207] V. infatti Vaccaro, op. ult. cit., p. 228. Tenta invece di evitare questa conseguenza, ma senza passare per la premessa di cui nel testo e quindi alla fine con scarsa persuasività, Ichino, voce Malattia, loc. cit.
[208] Art.10, 2°co., l. 28. 2. 1953, n. 86.
[209] Così Ichino, voce Malattia del lavoratore, EGT, p. 7.
[210] Sulle dimissioni in dottrina v. per tutti A. LevI, Dimissioni del lavoratore, in Dig. Comm., Torino, 261.
[211] Su di un caso di apposizione illegittima del termine, nel quale si discuteva se la cessazione di fatto dello scambio di prestazioni contrattuali potesse configurare un consenso tacito circa la cessazione del rapporto, v. Cass. 11 dicembre 2001 n. 15628, GC, 2002, I, p. 658: «per la configurabilità di una risoluzione del rapporto … per mutuo consenso, è necessario che sia accertata — sulla base del lasso di tempo trascorso dalla conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalle parti medesime e di eventuali circostanze significative — una chiara e certa volontà comune delle parti medesime di porre fine a ogni rapporto». Nello stesso senso, con una precisazione circa l’irrilevanza della riserva mentale non espressa dal lavoratore, v. Cass. 29 marzo 1995 n. 3753, RIDL, 1996, II, p. 127, con nota di L. Calafà, Il valore risolutivo del silenzio protratto.
[212] Così G. amoroso, Estinzione del rapporto in Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale a cura di G. S. Passarelli, Milano, 2009, p. 939.
[213] In questo modo A. Vallebona, I contratti di lavoro in Trattato dei contratti diretto da P. Rescigno ed E. Gabrielli, II, 2009, Torino, p. 1868.
[214] Mazzotta, op. cit., 633.
[215] Contenuta nella l. n. 604/1966, ampiamente ritoccata dalla l. n. 108/1990.
[216] Forfetariamente predeterminato in un’indennità di modeste dimensioni.
[217] Così A. Vallebona, I contratti di lavoro in Trattato dei contratti diretto da P. Rescigno ed E. Gabrielli, II, 2009, Torino, p. 1878.
[218] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 247.
[219] V. ,in tal senso, Mazzotta, Accertamenti sanitari etc., cit., p. 29.
[220] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 247.
[221] In generale, sui modelli di relazione fra legge e contratto collettivo, e in particolare sulla tecnica dell’«integrazione per rinvio», v. per tutti Mariucci, La contrattazione collettiva, cit., p. 64 ss.
[222] V., ad es., il d.P.R. 14 luglio 1960, n. 1032 di recezione del c.c.n.l. 24 luglio 1959 per gli operai edili, parte I, artt. 35-36, e parte II, artt. 30-31; il d.P.R. 16 gennaio 1961, n. 100, di recezione dei c.c.n.l. 25 luglio 1958 e 29 settembre 1958 per l’industria chimica e chimico-farmaceutica, parte I, artt. 34-35, e parte II, artt. 28-30; il d.P.R. 2 gennaio 1962, n. 481, di recezione del c.c.n.l. 28 giugno 1958 per i dipendenti di imprese commerciali, titolo XIII.
[223] Cfr. l’art. 7, comma 3, l. n. 741.
[224] V. ad es., Cass. 28 marzo 1986, n. 2222, in Notiz. Giurispr. Lav., 1987, 15, a proposito delle clausole relative ala durata del periodo di prova.
[225] V. ad es., Cass., 28 gennaio 1997, n. 860, Riv. Infortuni, 1997, II, 37, che sottolinea come la nozione di malattia di cui all’art. 2110 non sia vincolante per l’autodeterminazione sindacale; Id., 12 ottobre 1988, n. 5501, Orient. Giur. Lav. 1989, 166. Per un caso, relativo al c.c.n.l. 28 marzo 1987 per i dipendenti di aziende commerciali, in cui i periodi di comporto per malattia e per infortunio sono stati ritenuti distinti e non cumulabili, v. però Id., 10 giugno 1993, n. 6478, Riv. It. Dir. lav., 1994, II, 723.
[226] Sull’assicurazione contro la TBC (storicamente la prima contro malattie non professionali), v. Rossi, Le prestazioni economiche, in Trattato di previdenza sociale, diretto da Bussi e Persiani, III, Padova, 1977, p. 507 ss.
[227] V. art. 10 della l. 28 febbraio 1953 n. 86.
[228] Così art. 9 della l. 14 dicembre 1970 n. 1088 (come sostituito dall’art. 10 della l. 6 agosto 1975 n. 419.
[229] Così P. Ichino, Il contratto di lavoro, cit., pag. 76.
[230] V. Cass. 8 agosto 1983, n. 5296, in Giust. Civ., 1984, I, 166.
[231] V. Trib. Milano 14 febbraio 1977, in Riv. Giur. Lav., 1977, II, 450. Per un altro caso nel quale si è rigettata la domanda di un lavoratore che pretendeva di detrarre dalle assenze ordinarie per malattia i giorni di cura contro la TBC, v. Pret. Milano 14 marzo 1977, ivi, 451.
[232] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 353.
[233] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 354.
[234] V. Trib. Milano 24 febbraio 1982, in Lav. ’80, 1982, 470.
[235] Cfr. in argomento Pandolfo, La malattia etc., cit., p. 249 ss.
[236] V. in tal senso, Cass. 9 novembre 1982, n. 5905, in Giust. Civ., 1983, I, 1544; Trib. Roma 3 marzo 1980, in Notiz. Giurispr. lav., 1980, 193, confermata da Cass. 7 settembre 1981, n. 5054, ivi, 1982, 38, peraltro con la precisazione che non si computa, ai fini, il periodo di preavviso, ove non lavorato. Peraltro, per Cass. 28 gennaio 1976 n. 264, in Riv. Giur. Lav., 1976, II, 656, l’eventuale disposizione contrattuale che imponga di fare riferimento alla sola anzianità maturata all’inizio della malattia non viola il comma 3 dell’art. 2110.
[237] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 250.
[238] Il c.c.n.l. 18 gennaio 1987 per l’industria metalmeccanica prevede, per i lavoratori con anzianità di servizio fino a tre anni, fra tre e sei anni, e oltre sei anni, un comporto rispettivamente di sei, nove e dodici mesi, così recitano art. 19 parte operai e art. 14 parte impiegati. Gli scaglioni previsti sono invece cinque nel c.c.n.l. 18 dicembre 1986 per gli impiegati, commessi e ausiliari delle aziende di credito (art. 82): il comporto è di sei mesi per i dipendenti con anzianità fino a cinque anni, di otto mesi fra cinque e dieci anni, di dodici mesi fra dieci e quindici anni, di quindici mesi fra quindici e vent’anni, di diciotto mesi sopra i venti anni. Il collegamento con l’anzianità è particolarmente stretto nel c.c.n.l. 19 marzo 1987 per il personale impiegatizio, subalterno e ausiliario delle casse di risparmio (art. 78), che riconosce un mese di comporto per ogni anno di servizio del dipendente, fra un minimo di sei ed un massimo di venti mesi.
[239] Come per il c.c.n.l. 22 febbraio 1987 per il settore tessile e abbigliamento (art. 51), che prevede un comporto di tredici mesi per tutti i lavoratori.
[240] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 251.
[241] Così infatti Pandolfo, La malattia etc., cit., p. 195.
[242] V., in tal senso, Cass. 4 dicembre 1985, n. 6080, in nome della specialità della norma rispetto all’art. 2110. Prima del codice civile, per quanto riguarda gli operai, un diritto alla conservazione del posto era stato assicurato solo dai contratti collettivi (al massimo si arriva a sei mesi): cfr. Greco, op. cit., p. 339 ss.
[243] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 254.
[244] V., infatti il c.c.n.l. delle casse di risparmio, ove si precisa che per l’ultimo periodo oggetto del cumulo ai fini della sommatoria ivi prevista, non può essere applicato un trattamento meno favorevole di quello della legge sull’impiego privato.
[245] Come il contratto metalmeccanico che non prevede alcun comporto frazionato.
[246] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 255.
[247] Si esprime così il c.c.n.l. del settore commercio, che prevede un limite di 180 giorni nell’ambito di un anno solare.
In altre ipotesi la formulazione della clausola può dar effettivamente adito a qualche dubbio. Accade con la norma del c.c.n.l. per il personale impiegatizio delle casse di risparmio, la quale stabilisce che «si cumulano per intero anche i periodi di assenza per malattia o infortunio verificatisi nei quattro mesi precedenti». Una previsione analoga è quella del c.c.n.l. per le aziende di credito, con la differenza che il cumulo arriva sino ai sei mesi precedenti.
[248] V. Pret. Milano 5 febbraio 1983, in Notiz. Giurispr. Lav., 1983, 153; Pret. Novara 26 novembre 1987, ivi, 1987, 756, valutandosi legittimo un licenziamento, in via di equità, malgrado il non superamento del comporto; Pret. Roma 2 novembre 1988, in Riv. It. Dir. lav., 1989 II, 309; Pret. Salerno 8 giugno 1990, in Notiz. Giurispr. Lav., 1990, 392. Per il c.c.n.l. del settore credito, la tesi criticata è stata accolta anche da Cass. 15 aprile 1991, n. 4007, ivi, 1991, 52, che ha censurato una sentenza di merito per non aver fatto ricorso all’equità.
[249] V. Trib. Milano 15 febbraio 1984 e 27 gennaio 1984, in Notiz. Giurispr. Lav., 1985, 59. Nel senso che è pacifico che trattasi di comporto per sommatoria, v. Pret. Roma 6 novembre 1985, ivi, 206; Pret. Palermo 9 aprile 1982, in Dir. lav., 1983, II, 22. Di recente, questa tesi è stata confermata da Cass. 17 maggio 1987, n. 3849, in Notiz. Giurispr. Lav., 1987, 756.
[250] V. Trib. Bologna 9 maggio 1984, ivi, 1985, II, 18, a riforma di Pret. Bologna 9 maggio 1983, ivi, 464, che aveva accolto l’opposta tesi; Pret. Firenze 16 giugno 1982, in Giust. Civ., 1982, I, 2502. Per la tesi pro-datore, v. anche Pret. Torino 12 marzo 1976, in Not. Giur. Lav., 1976, 362. Si è ulteriormente precisato che il termine «precedenti» va calcolato a partire dall’inizio dell’ultima malattia, e non dalla fine di esse, come sostenuto dalla parte lavoratrice: v. Pret. Roma 1° giugno 1983, in Notiz. Giurispr. Lav., 1983, 464.
Sulla questione particolare della computabilità a ritroso dell’arco temporale del comporto per sommatoria, nel senso di tener conto di assenza verificatesi in epoca antecedente alla stipulazione del contratto collettivo v., specie in relazione al c.c.n.l. del 13 marzo 1983, Cass. 9 settembre 1988, n. 5131, in Orient. Giur. Lav., 1988, 1083; Cass. 27 agosto 1987, n. 7067, ivi, 1988, 529; Pret. Milano 19 luglio 1985, ivi, 1985, 841; Trib. Milano 14 settembre 1985, ivi, 1170; e, in relazione al c.c.n.l. chimico del 1979, Cass. 11 novembre 1986, n. 6623; v. pure Pret. Roma 4 gennaio 1985, in Lav. ’80, 1985, 652, in relazione al c.c.n.l. edile del 6 luglio 1983. In senso contrario, v. Pret. Milano 12 dicembre 1983, in Orient. Giur. Lav., 1984, 487, in un caso in cui il lavoratore aveva fatto assenze solo prima del 1° giugno 1983; Pret. Roma 2 maggio 1985, in Lav. ’80, 1985, 952, per il c.c.n.l. 15 ottobre 1983 dei dipendenti di imprese di pulizia; Pret. Roma 5 gennaio 1985, ivi, 953, per il c.c.n.l. 6 luglio 1983 per l’industria dei laterizi.
[251] Così F. Carinci in Diritto del lavoro, III, cit., pag. 1652.
[252] Cass. 9 agosto 1996, n. 7381, NGL, 1996, 811; Cass. 13 luglio 1995, n. 7672, NGL, 1995, 838; Cass. 4 giugno 1992, n. 6809, DPL, 1992, 2265; Cass. 27 agosto 1987,n . 7067, OGL, 1988, 529; Cass. 27 marzo 1986, n. 2190, DPL, 1986, 1872.
[253] V. ad es., l’art. 19 parte operai e l’art. 14 parte impiegati del c.c.n.l. metalmeccanico privato del 18 gennaio 1987; l’art. 15 parte impiegati e l’art. 19 parte operai del c.c.n.l. metalmeccanico a P.P.S.S del 24 gennaio 1987.
[254] V., ad es., l’art. 50 del c.c.n.l. 17 dicembre 1985 per i dipendenti di farmacie private.
[255] V., ad es., i successivi c.c.n.l. per le aziende commerciali (da ultimo, l’art. 57 del c.c.n.l. 18 marzo 1983).
[256] Cass., 1° giugno 1983, n. 3735.
[257] Cass., 30 giugno 1986, n. 3675, in Giust. Civ. mass., 1983, 6; Cass., 3 gennaio 1984, n. 569, in Giust. Civ., 1984, I, 1494; Cass., 18 novembre 1982, n. 6224, in Giust. Civ. mass., 1982, 10, che ha inteso 15 mesi pari a 465 giorni, rapportando i giorni alla durata dell’anno (365 + 1/4), anziché pari a 450 giorni, assumendo a base la durata media del mese.
[258] Cass., 2 agosto 1999, n. 8358, in Giust. Civ. mass., 1999, 1767; Cass., 22 luglio 1999, n. 7925, ivi, 1999, 1699.
[259] Ove l’ultimo giorno del periodo di comporto preceda un giorno non lavorativo (cada, per esempio, di venerdì in regime lavorativo di settimana corta) il comporto stesso può ritenersi superato solo con l’assenza dal lavoro per malattia nel primo giorno lavorativo successivo: Cass., 10 febbraio 1993, n. 1657, in Mass. Giur. Lav., 1993, 359.
[260] Cass., 10 luglio 1984, n. 4032, in Riv. It. Dir. lav., 1985, 49; T. Milano, 26 marzo 1991, in Orient. Giur. Lav., 1991, 405, secondo cui le assenze infragiornaliere sono incomputabili quando la durata del comporto sia stabilita in giorni, senza previsione di conteggi ad ora.
[261] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 357.
[262] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 358.
[263] V. in tal senso, Cass. 7 febbraio 1991, n. 1254; 26 febbraio 1990, n. 1459; 22 febbraio 1990, n. 1337; 27 aprile 1987, n. 4080, a proposito di un caso di comporto per sommatoria; 25 febbraio 1987, n. 2027; 27 gennaio 1987, n. 758; 16 gennaio 1987, n. 339; 2 dicembre 1986, n. 7136; 7 novembre 1986, n. 6544; 15 marzo 1986, n. 1797; 29 giugno 1985, n. 3902; 9 maggio 1985, n. 2913; n. 2388 del 1985, cit.; Trib. Torino 24 gennaio 1990, in Giur. Piem., 1990, 108; Trib. Bari 18 dicembre 1982, cit.
[264] Cfr., ad es., Cass. n. 758 del 1987 e n. 339 del 1987.
[265] Nel senso che questi giorni dovrebbero in generale essere esclusi dal computo, v. Pret. Milano 4 novembre 1983, in Orient. Giur. Lav., 1984, 124; Pret. Pozzuoli 12 maggio 1980, in Foro it., Rep. 1981, voce Lavoro, rapporto, n. 1806.
[266] Cfr., ad es., Pret. Milano 16 novembre 1979, in Orient. Giur. Lav., 1979, 1464.
[267] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 359.
[268] Ma può naturalmente esservi anche una previsione espressa: cfr. Cass. 27 ottobre 1986, n. 6310.
[269] Cfr. Pret. Forlì 18 dicembre 1981, in Foro it., 1982, I, 840.
[270] V. Cort. Cost. 30 dicembre 1987, n. 616, cit.
[271] V. Cass. 30 agosto 1983, n. 5504; Cass. 5 luglio 1968, n. 2277, in Riv. Dir. lav., 1969, II, 249; Cass. 28 giugno 1954, n. 2233, in Riv. Giur. Lav., 1955, II, 14, con nota contraria di Buccisano, Diritto alle ferie e licenziamento ad nutum. In senso contrario, v. anche P. Sandulli, voce Ferie dei lavoratori, in Enc. Dir. vol. XVII, Milano, 1968, p. 179 ss., qui p. 197. Per l’opinione prevalente circa il fatto che la violazione del diritto alle ferie può dare luogo soltanto ad un «diritto secondario» del lavoratore, avente ad oggetto la c.d. «indennità sostitutiva», v. invece Ichino, L’orario di lavoro e i riposi, cit., pp. 194-195.
[272] V. Cass. 30 marzo 1990, n. 2608, in Giust. Civ., 1990, I, 2907, con nota critica di R. Del Punta, Ferie e comporto per malattia, che ha ritenuto che il periodo di comporto sia interrotto, per un tempo corrispondente alla durata delle ferie, dalla richiesta del lavoratore di fruire di queste ultime, che il datore di lavoro deve concedere anche in costanza di malattia, con la conseguenza di cui si dice criticamente nel testo a proposito dell’invalidazione del licenziamento intimato per la scadenza del comporto.
[273] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 360.
[274] Cfr., ad esempio, il contratto per l’industria della gomma del luglio 1988, art. 40: “Nel caso di interruzione del servizio per le cause di cui al presente articolo (ossia, per infortunio e malattia professionale, n.d.r.), il lavoratore, non in prova, ha diritto alla conservazione del posto fino alla guarigione clinica o alla stabilizzazione”.
Accostabile a questa risulta anche la formula in cui il periodo di conservazione del posto a seguito di malattia professionale viene individuato indirettamente. V. l’art. 18 disciplina speciale, parte prima, del c.c.n.l. industria metalmeccanica, che in caso di malattia professionale prevede “(…) un periodo pari a quello per il quale il lavoratore percepisca l’indennità per inabilità temporanea prevista dalla legge” (l’art. 68 T.U. prevede che l’indennità venga erogata fino a quando dura l’inabilità).
[275] Così A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 308.
[276] Cfr. l’art. 28 c.c.n.l. per le imprese edili dell’ottobre 1987, che prevede un comporto di nove mesi per la malattia professionale (e fino a quando dura l’inabilità per l’infortunio sul lavoro). V. anche il c.c.n.l. per le aziende del terziario (art. 77), che a favore dei lavoratori non in grado di riprendere il lavoro a causa di un infortunio o di una malattia professionale prevede un’aspettativa di centoventi giorni oltre il comporto.
[277] Che l’art. 2110 si riferisca anche alle malattie professionali, appare non discutibile. Con l’espresso riferimento all’infortunio, esso già si pone sul terreno degli eventi legati al lavoro; l’espressione “malattia” è generica. La riflessione è di A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 308, nota 187.
[278] Così A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 308.
[279] Cfr. P. Greco, Il contratto…, cit., p. 341.
Per la determinazione del danno alla salute, v. ora M. Poletti, Danno alla salute e diritto del lavoro, in M. Bargagna e F.D. Busnelli (a cura di), La valutazione del danno alla salute, Padova, 1988, pp. 269 ss.
[280] Così A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 309.
[281] Così M. Napoli, La stabilità…, cit., p. 205.
[282] Il mantenimento del posto anche oltre i limiti del comporto è aspetto estraneo alla cura della malattia, ma il mantenimento dell’occupazione agevola il lavoratore nell’affrontare con maggiore tranquillità lo stato di malattia e la sua cura.
La conservazione del posto ha, inoltre, un valore di prevenzione del danno. La malattia impedisce l’attività lavorativa, ma se la conservazione del posto si protrae fino al momento della ricostituzione della capacità di lavoro, la lesione al “diritto al lavoro” risulta prevenuta. Altrimenti, se il lavoratore perde il posto prima di essere in condizione di riprendere l’attività, dalla lesione del “diritto alla salute” deriva anche quella al “diritto al lavoro”. La riflessione è di A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 309.
Questo modo di vedere si armonizza con gli orientamenti volti a valorizzare le forme di soddisfazione “reale” dell’interesse del creditore rispetto al risarcimento per equivalente. In questo senso, v. G. Ceccherini, Risarcimento del danno e riparazione in forma specifica, Milano, 1989, pp. 24 ss., dove anche il rilievo che l’emergere di interessi connessi a beni o valori attinenti alla persona induce motivi di rimeditazione del sistema di responsabilità (qui p. 55).
In giurisprudenza, cfr. Pret. Roma 22 luglio 1985, in Gc, 1986, I, p. 911, che si rifà all’orientamento secondo cui il datore, qualora la malattia derivi da condizioni morbigene presenti nell’ambiente di lavoro ed addebitabili al datore di lavoro, non può recedere per superamento del comporto, essendo a lui imputabile l’impossibilità della prestazione (nel caso di specie è stato comunque escluso il nesso eziologico fra condizioni di lavoro e aggravamento della malattia).
Detto orientamento risale a Cass. 4 giugno 1984, n. 3559, in Lav. 80, 1985, pp. 302 ss., che appunto considera impedita la facoltà di recesso di cui all’art 2110 c.c. quando la malattia sia stata provocata dalla nocività dell’ambiente con responsabilità dell’imprenditore.
[283] La definitiva compromissione della capacità lavorativa escluderà comunque il mantenimento del posto oltre il comporto. In questo caso, non ci si potrà che rifare al risarcimento per equivalente (che terrà conto del fatto che anche il lavoratore definitivamente impedito fruisce dell’ordinario trattamento di malattia). La riflessione è di A. Pandolfo, La malattia nel rapporto di lavoro, Milano, 1991, p. 310.
[284] Cass. 7 aprile 2011, n. 7946, DPL, 2012, 372 con nota di Cistaro; Cass. 28 marzo 2011, n. 7037; Cass. 8 marzo 2005, n. 4959, NGL, 2005, 478; Cass. 7 aprile 2003 n. 5413, NGL, 2003, 580; Cass. 18 aprile 2000, n. 5066, NGL, 2000, 604; Cass. 10 aprile 1996 n. 3351, NGL, 1997, 218.
[285] Cass. 7 aprile 2011, n. 7946; Cass. n. 7730 del 2004, cit.; Cass. 18 aprile 2000 n. 5066, NGL, 200, 604.
[286] Cass. 15 dicembre 1994, n. 10769; Cass. 23 aprile 2004, n. 7730, RCDL, 2004, 643, con nota di Civitelli, In tema di superamento del periodo di comporto e violazione dell’art. 2087 c.c.
[287] Così Amoroso G. – V. Di Cerbo- A. Maresca, Diritto del lavoro, 2013, pag. 1038.
[288] È quanto afferma la Corte di Cass. nella sentenza n. 6601 del 1995.
[289] Così le S.U. della Suprema Corte con la sent. 7 agosto 1998, n. 7755 MGL, 1998, 876, con nota di PapaleonI.
[290] Cass. 7 marzo 2005, n.. 4827, NGL, 2005, 494; Cass. 7 gennaio 2005, n. 239, ivi; Cass. 22 agosto 2003, n. 12362; Cass. 5 marzo 2003, n. 3245, AC, 2003, 909; in dottrina cfr. Meucci, Inosservanza dell’obbligo di sottrazione del lavoratore da mansione pregiudizievoli per la salute, illegittimità del licenziamento per superamento del comporto e reato di lesioni colpose, RCDL, 2002, 519.
[291] Cass. 7 novembre 2007, n. 23162.
[292] Cfr. Cass., S.U., n. 7750 del 1998, cit.
[293] Cfr. Dini, Inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore e responsabilità civile del datore, L. GIUR, 2002, 145.
[294] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 256.
[295] V. Riva Sanseverino, Diritto del lavoro, XIV ed., Padova, 1982, pp. 481-484, che collocava la nozione in oggetto in una zona di confine fra considerazioni obiettive e subiettive (cfr. infatti Pera, Eccessiva morbilità e accertamenti sanitari, cit., p. 312). Per opinioni di segno radicalmente diverso in merito alla nozione di g.m. obiettivo, v. però Napoli, La stabilità reale nel rapporto di lavoro, cit., p. 256 ss., e Mazziotti, Il licenziamento illegittimo, Napoli, 1982, p. 148 ss.
[296] Un esempio di tale orientamento è la tesi, tuttora prevalente, che risolve nel g.m. obiettivo il problema del diritto alla conservazione del posto del lavoratore in stato di detenzione: v. ad es. Cass. 29 novembre 1982, n. 6494, in Notiz. Giurispr. Lav., 1983, 19, e, in dottrina, Pera, La cessazione del rapporto di lavoro, Padova, 1980, pp. 94-95. Da segnalare che Cort. Cost. 5 aprile 1984, n. 90, in Foro it., 1984, I, 1187, ha ritenuto costituzionalmente legittima la non inclusione della carcerazione preventiva nelle cause di sospensione previste dall’art. 2110.
[297] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 257.
[298] Mai la giurisprudenza, com’è logico, ha richiesto la prova del «repêchage» (in dottrina cfr. FranceschinI, Prolungate assenze a carattere discontinuo e giustificato motivo di licenziamento, in Mass. Giur. Lav., 1978, 185).
[299] Per casi di accentuato frazionamento delle assenze, v. Pret. Napoli 24 settembre 1977, in Riv. Giur. Lav., 1977, II, 1066 (509 gg. in meno di 5 anni); Pret. Milano 20 gennaio 1976, in Orient. Giur. Lav., 1976, 156, rilevandosi che l’impresa, proprio a causa della frammentarietà delle assenze, non aveva potuto sostituire i malati con assunti a termine; Pret. Teramo 29 novembre 1975, ivi, 146, in un caso di continua rinnovazione dei certificati medici per brevi malattie. In generale, v. Pret. Rina 21 aprile 1976, in Riv. Giur. Lav., 1976, II, 502.
[300] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 258.
[301] V. ad es. Trib. Vicenza 3 febbraio 1979, in Orient. Giur. Lav., 1979, 265 (a riforma di Pret. Vicenza 30 gennaio 1978, ivi, 1978, 536), nel caso di un lavoratore che soffriva di una grave artrosi cronica e svolgeva mansioni nella quali poteva essere difficilmente sostituito. Per un caso in cui si è tenuto conto che le assenze si erano spesso verificate dopo i gironi festivi, v. Trib. Taranto 25 febbraio 1977, in Dir. lav., 1977, II, 401.
[302] Così, chiaramente, Pret. L’Aquila 21 maggio 1976, in Orient. Giur. Lav., 1976, 718; Pret. Lovere 7 dicembre 1975, ivi, 753; Pret. Viareggio 5 gennaio 1973, ivi, 349; contra, valendo solo i fatti verificatisi e non quelli probabilistici futuri, v. Trib. Taranto 25 febbraio 1977, cit.
[303] V. Trib. Milano 25 febbraio 1977, in Orient. Giur. Lav., 1977, 215.
[304] V. Cass. 29 dicembre 1977, n. 5752, in Mass. Giur. Lav., 1978, 185, con nota di Franceschini. Analogamente, v. Cass. 28 agosto 1979, n. 4707, in Foro it., 1980, I, 729.
[305] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 265.
[306] V., in tal senso, con conclusioni di norma favorevoli al lavoratore, Pret. Milano 11 febbraio 1980 e 19 dicembre 1979, cit. (la prima escludendo anche il ricorso all’equità); Pret. Biella 18 luglio 1979, in Orient. Giur. Lav., 1979, 1471; Pret. Venezia 21 giugno 1979, in Foro it., 1980, I, 732; Pret. Palermo 18 maggio 1978, ivi, 1978, I, 2379; Pret. Salerno 24 gennaio 1978, in Giur. It., 1978, I, 2, 313; Pret. Tivoli 25 ottobre 1976, in Foro it., 1977, I, 529; Pret. Rho 25 giugno 1976, in Giur. Mer., 1977, 11; Pret. Milano 5 maggio 1976, in Orient. Giur. Lav., di Galli; Trib. Torino 19 febbraio 1974, in Not. Giur. Lav., 1974, 334; Pret. Milano 21 luglio 1973, in Orient. Giur. Lav, 1973, 915.
È chiaro che, accettando in linea di principio la conseguenza della reiterabilità ad ogni malattia del comporto secco ove non affiancato da uno di sommatoria, l’eventuale presenza di clausole di quest’ultimo tipo non suscitava problemi di inquadramento teorico, rimanendo soltanto da applicare le medesime: per pronunce di illegittimità di licenziamenti che erano stati intimati per g.m. obiettivo nonostante il mancato esaurimento del comporto per sommatoria positivamente previsto, v. Pret. Milano 9 luglio 1979, in Orient. Giur. lav., 1979, 1133, e Pret. Milano 6 luglio 1979, ivi, 1129, per casi relativi al c.c.n.l. del commercio; Pret. Pavia 24 maggio 1979, ivi, 1127. Solo in un caso, a quanto consta (e solo in motivazione), è stata sostenuta l’assurda tesi che eventuali clausole di sommatoria sarebbero nulle perché diminutive del diritto del lavoratore ad un comporto per ciascuna singola malattia, che sarebbe assicurato dall’art. 2110: v. Pret. Palermo 18 maggio 1978, cit.; ma è evidente che l’eventuale correzione del comporto secco con uno frazionato si pone all’interno della valutazione globale affidata ai contratti collettivi circa la soglia di equilibrio fra gli interessi in gioco, e quindi anche circa le tecniche di individuazione di detta soglia, senza che tale valutazione possa essere censurata in nome di una malintesa volontà della norma legale sovraordinata.
[307] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 278.
[308] V., ad es., Pret. Palermo 3 febbraio 1975, in Orient. Giur. Lav., 1975, 452; Pret. Desio 20 novembre 1974, ivi, 449; Pret. Torino 18 maggio 1973, ivi, 1973, 914; e, più decisamente, Pret. Pavia 12 marzo 1969, ivi, 1969, 277; tutte cit. da Napoli, op. ult. cit., p. 356.
[309] Cfr. Zoli, Inadempimento e responsabilità per colpa del prestatore di lavoro, in Riv. Trim. dir. proc. Civ., 1983, 1269, qui p. 1286 ss.
[310] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 283.
[311] V. Cass. 29 marzo 1980, n. 2072, in Giust. It., I, 1438, con nota di ARDAU; 29 marzo 1980, n. 2083, in Giust. Civ., 1980, I, 1526, con nota di Carnevali; 29 marzo 1980, n. 2074, in Lav. prev. Oggi, 1980, 1206, con nota di Meucci, e in Mass. Giur. Lav., 1980, 419, con nota di Riva Sanseverino. Di quest’ultima A. v. anche, organicamente, il commento all’art. 2110, in Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna, 1986, p. 508 ss.
[312] Cfr. anche Cass. 3 luglio 1981, n. 4335, in Mass. Giur. Lav., 1982, 62: «Nella funzionalità della norma, come nel resto si più desumere dalla stessa espressione ‘caso di malattia’ usata in senso indeterminato e generalizzante, la malattia è considerata nella sua essenziale entità, senza alcuna possibilità di distinguere il tipo di malattie (malattia in atto, pluralità di malattie successive o di ricadute nella stessa malattia, malattia normale o anormale), che non assume alcuna rilevanza, mentre è considerato essenziale l’elemento temporale di essa, quale determinato dalla norma di rinvio».
[313] A ciò Cass. 20 novembre 1984, n. 5928 in Riv. It. Dir. lav., 1985, II, 461, ha aggiunto che l’esistenza di un collegamento necessario con il recesso ad nutum va esclusa anche perché l’art. 2110 valeva anche per rapporti – come quello a termine o a tempo indeterminato con patto di durata minima – nei quali il recesso era consentito solo per giusta causa.
[314] Questo specifico rilievo è forse un po’ partigiano, potendosi sostenere che la tutela della salute del lavoratore venga indirettamente a pesare anche nelle valutazioni sulla sussistenza del g.m. obiettivo, nella misura in cui spostava verso l’alto la soglia di tollerabilità massima delle assenze. Non sarebbe insomma giusto affermare che non si teneva in nessun conto quel valore, pur essendo vero, naturalmente, che oggetto di attenzione prevalente era l’interesse datoriale. Così intesa, l’osservazione delle S.U. è condivisibile: è la stessa conformazione della fattispecie che pone al centro della visuale quell’interesse; il lavoratore poteva negarne la lesione, senza però potersi attestare sulla trincea psicologicamente più facile e asettica del comporto, e dunque muovendo da una posizione di handicap pregiudiziale (anche perché a un’assenza per malattia corrisponde sempre, per definizione, un danno per la controparte). La riflessione è di Mazzotta, op. cit.,p. 25.
[315] Più in particolare, nel senso che la tesi del g.m. obiettivo disapplicherebbe l’art. 2110, nel quale la predeterminazione della durata della malattia ha un valore essenziale, v. Cass. 3 luglio 1980, n. 4232, in Notiz. Giurispr. Lav., 1980, 416.
[316] Sulla prevalenza dell’art. 2110 rispetto all’art. 1464, v. in particolare Cass. 15 aprile 1986, n. 2686. La giurisprudenza della S.C. (comprese le S.U.) è solita anche parlare di deroga dell’art. 2110 all’art. 1464.
[317] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 285.
[318] Mentre la prima delle due interpretazioni prospettate nel testo non ha mai avuto riscontro nella pratica, la seconda è stata sostenuta da una parte non trascurabile della giurisprudenza. La precisazione è di R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 286.
[319] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 287.
[320] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 288.
[321] Per questo rilievo, ma in senso critico, v. anche Pret. Milano 24 marzo 1981, in Orient. Giur. Lav., 1981, 736, per il quale l’autonomia rileva solo sotto il profilo sociale, e non giuridico, e Pret. Milano 22 gennaio 1981, in Lav. ’80, 1981, 509, che vede una contraddizione nel fatto di reintrodurre un’autonomia della fattispecie, che contemporaneamente si intende negare «quando si afferma che non v’è spazio per l’eccessiva morbilità se non in caso di superamento del periodo di comporto».
[322] Cfr. Cass. 16 gennaio 1984, n. 353.
[323] Per un caso in cui si è esclusa la sommatoria anche se il c.c.n.l. ENEL considerava «prosecuzione del periodo di malattia quella che non intervenga oltre 30 giorni dalla cessazione della malattia precedente», v. Pret. Sassari 26 gennaio 1983, in Rass. Giur. ENEL, 1983, 86. Correttamente, invece, Cass. 15 novembre 1986, n. 6765, ha censurato una decisione la quale aveva escluso che il disposto del c.c.n.l. minerario, che prevede la conservazione del posto per un periodo di dodici mesi nell’arco di diciotto, riguardasse anche il caso della pluralità di malattie brevi e reiterate.
[324] Infatti la sentenza n. 2074 ebbe a cassare una decisione di merito perché il giudice aveva omesso di valutare se la clausola del contratto era idonea a ricomprendere l’ipotesi, mentre la n. 2073 ne cassò una che aveva addirittura escluso la riferibilità all’eccessiva morbilità di una clausola espressa di sommatoria, parlando di «caso spurio e abnorme».
[325] In tal senso, v. Cass. N. 4963 del 1986 e n. 2865 del 1986, nonché Cass. n. 2432 del 1986, cit., e Cass. 24 giugno 1983, n. 4328, in Orient. Giur. Lav., 1984, 132, nelle quali vengono classificate quattro ipotesi: a) completa regolamentazione da parte del contratto collettivo; b) previsione del solo comporto secco ed esclusione espressa della frazionabilità: nullità e integrazione equitativa per l’arco temporale; c) previsione del comporto secco, ma senza esclusione della frazionabilità dello stesso: riferimento di tale comporto, ex artt. 1371 e 1374, all’arco temporale equitativamente ottenuto; d) assenza totale di regolamentazione : integrazione equitativa sia per il termine interno che per quello esterno. A parte le soluzioni contraddittorie accolte per il termine interno, è agevole notare che il trattamento dell’ipotesi b) e c) viene ad essere praticamente il medesimo. Nello stesso ordine di idee (nullità), v. Cass. 17 giugno 1983, n. 4181; Pret. Milano 12 ottobre 1981, in Lav. ’80, 1982, 169, che tuttavia non applica la sanzione non rinvenendo nel c.c.n.l. chimico una volontà negativa; Pret. Aversa 29 gennaio 1981, in Foro it., 1982, I, 843 (con nota di Silvestri), osservandosi che il contratto collettivo non può pretendere di non disciplinare l’eccessiva morbilità e nel contempo di sottrarla alle fonti sostitutive , incidendo sull’area applicativa dell’art. 2110; e, in dottrina, Fabbri, op. cit, pp. 172-173; Carnevali, op. cit., p. 1536; nonché Balestieri, «Eccessiva morbilità», interpretazione equitativa e clausole contrattuali di comporto: l’ultima parola all’interprete, in Riv. Giur. Lav., 1980, II, pp. 959.960, peraltro nell’ambito di una concezione che vede in questa l’unica ipotesi di equità, che non potrebbe invece aversi in caso di mero silenzio delle parti. Per la nullità, v. già Maresca, op. cit., p.814.
[326] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 292.
[327] Artt. 1 e 8 disp. prel. c.c.
[328] In tal senso, ed altresì per un riepilogo generale della problematica, v. Franceschelli, voce Consuetudine, in Noviss. Dig. It.,App., Torino, 1980, p. 498 ss., qui p. 503.
[329] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 295.
[330] Oltre alle sentenze delle S.U., v. spec. Cass. 12 aprile 1989, n. 1742, in Orient. Giur. Lav., 1989, 443; Cass. 14 gennaio 1987, n. 217; 9 settembre 1986, n. 5524; 22 marzo 1986, n. 2056, in Riv. It. Dir. lav., 1987, II, 180, con nota di Vallebona; n. 5928 del 1984, cit.; 30 marzo 1984, n. 2134, in Notiz. Giurispr. Lav., 1985, 95; 19 maggio 1984, n. 3088, in Giust. Civ., 1985, I, 850, con nota di Bove, Uso dell’equità integrativa e censurabilità in cassazione; Trib. Napoli 26 marzo 1983, in Lav. ’80, 1983, 785. In dottrina, v. soprattutto Mazzotta, op. cit., p. 33 ss.; ma l’accostamento all’art. 1374 è pressoché pacifico.
[331] V. De Marini, op. cit., p. 191. In argomento v. anche, più dir recente, Comez, L’equità integrativa del conciliatore, ovvero «lo scandalo dell’equità», in Giust. Civ., 1989, I, 2383, spec. P. 2385 ss.
[332] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 319.
[333] V. in tal senso, Pret. Milano 22 gennaio 1981, in Lav. ’80, 1981, 510, in particolare argomentandosi ex art. 1371 c.c. che non è possibile che le parti abbiano voluto la reiterazione ad infinitum del comporto, e Pret. Milano 6 gennaio 1981, in Orient. Giur. Lav., 1981, 731, a proposito del c.c.n.l. metalmeccanico a PP.SS.; Pret. Milano 11 giugno 1981, ivi, 776, sul c.c.n.l. metalmeccanico privato; Pret. Forlì 18 dicembre 1981, in Foro it., 1982, I, 840, che accusa le S.U. di aver tradito la pronuncia n. 2971 del 1979; Trib. Termini Imerese 3 agosto 1981, in Not. Giur. Lav., 1981, 1166 (che però non cita le S.U.); Pret. Roma 11 dicembre 1981, in Orient. Giur. Lav., 1983, 263 (ma poi utilizzando contraddittoriamente l’equità). In altre pronunce si fa sostanzialmente il medesimo discorso (iniquità dell’interpretazione rigorosa del comporto secco, presenza della clausola di ricaduta, priorità data al contratto, timore per l’incertezza altrimenti nascente dall’equità), ma riferendo il termine di comporto secco al triennio reale antecedente il licenziamento, e non all’arco formale di vigenza di quel contratto collettivo: si segnala in particolare, sin d’ora, Trib. Pisa 13 maggio 1981, in Foro it., 1982, I, 840, ricavandosi la soluzione sempre sul piano dell’interpretazione del contatto; cfr. anche Pret. Mestre 14 gennaio 1982, cit. Un caso particolare è quello di Trib. Milano 30 ottobre 1981, in Orient. Giur. Lav., 1982, 464, che giudicano sull’abolizione del comporto per sommatoria contenuto nel c.c.n.l. chimico del 1979 rispetto a quello del 1976, e ritenendo impensabile che le parti abbiano voluto introdurre una disciplina più lassista, ha considerato ancora la clausola come di sommatoria, ed ha computato, ai fini, le assenze verificatesi dall’entrata in vigore di quel contratto (peraltro inferiori al comporto).
[334] V., ad es., Pret. Forlì 18 dicembre 1981, cit.
[335] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 320.
[336] Cfr., in tal senso, Cass. 19 aprile 1985, n. 2599, in Mass. Giur. Lav., 1985, 287, e, in generale, Rodotà, op. cit., spec. p. 240, che pur valorizzando la specificità del momento propriamente integrativo, afferma anche che con l’equità non si può andare al di là del precetto posto dai privati.
[337] V. Corte Cost. n. 103 del 1989.
[338] V., Cass. n. 2599 del 1985, cit., che ha confermato una sentenza di merito, favorevole al datore di lavoro, che aveva adottato il criterio del comporto secco in tre anni, a sua volta riformando la pronuncia pretorile che invece si era rifatta alla previsione esplicita di sommatoria contenuta nel c.c.n.l. del settore chimico, applicando la quale il licenziamento era risultato illegittimo. V. anche Cass. 13 novembre 1986, n. 6669, in Notiz. Giurisp. Lav., 1987, 53, ancora contro la pretesa del lavoratore di invocare la regolamentazione di un altro contratto, e Cass. 13 novembre 1986, n. 6676. In diverso ordine di idee, v. Cass. 20 luglio 1989, n. 3426 e, parrebbe, Cass. n. 2134 del 1984, cit., che ha cassato una pronuncia la quale a sua volta aveva censurato un Pretore che aveva preso a base del giudizio di equità il più favorevole comporto per sommatoria previsto in altri contratti, così annullando il recesso; il Tribunale aveva insistito in particolare sulla disparità interna che così veniva a crearsi, ma la Cassazione non ha dato pregio al rilievo, e per il dato formale dell’inammissibilità di analogie interne al contratto, e per la necessità di tener conto di tutti gli utili elementi di comparazione, senza la preoccupazione di dover necessariamente stabilire una misura eguale del comporto per due ipotesi, la cui eadem ratio sarebbe tutta da dimostrare. Per aperture generiche nello stesso senso, v. Cass. 18 gennaio 1983, n. 432 e n. 3923 del 1980, cit.
[339] A sua volta recepito dalla pronuncia n. 2971 del 1979.
[340] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 338.
[341] V. in tal senso, Pret. Aversa 29 gennaio 1981, cit., in correlazione alla ritenuta volontà delle parti stipulanti di un nuovo contratto; Pret. Pontedera 17 novembre 1980, cit., per il favor praestationis; Pret. Caserta 2 febbraio 1981, cit., per la dipendenza della regola dalla fonte da cui scaturisce; Pret. Trento 26 febbraio 1982, in Orient. Giur. Lav., 1982, 862 (che pure va poi a valutare le assenze di otto anni); Pret. Cassino 22 marzo 1982, cit.; Pret. Torino 18 luglio 1981, in Lav. ’80, 1982, 450; Pret. Milano 12 ottobre 1981, ivi, 169, peraltro escludendosi, nel caso, la computabilità di assenze verificatesi dopo il licenziamento. In senso contrario a questa tesi, che ridarebbe prevalenza al contratto a scapito dell’equità, Pret. Modugno 2 dicembre 1981, e Pret. Roma 9 marzo 1981, cit.
[342] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 339.
[343] In tal senso v. Trib. Cassino 18 gennaio 1991, in Notiz. Giurispr. Lav., 1991, 145; Pret. Lucca 11 dicembre 1990, in Orient. Giur. Lav., 1991, 143; Pret. Novara 14 novembre 1989, in Giust. Civ., 1990, I, 3018; Trib. Bologna 14 gennaio 1989, in Orient. Giur. Lav., 1991, 92; Pret. Sessa Aurunca 17 febbraio 1986, cit., Pret. Treviglio 7 giugno 1983, cit.; Pret. Forlì 8 marzo 1982, in Lav. ’80, 1982, 739; Pret. Sassari 26 gennaio 1983, in Rass. Giur. ENEL, 1983, 86; Pret. Taranto 17 giugno 1980, cit.; Pret. Taranto 6 agosto 1980, in Riv. It. Dir. lav., 1980, II, 170; Trib. Bari 18 dicembre 1982, in Orient. Giur. Lav., 1983, 1197; Pret. Piacenza 10 febbraio 1983, in Lav. prev. Oggi, 1983, 1340; Pret. Ferrara 3 novembre 1982, in Foro it., 1983, I, 2759; Pret. Bologna 13 agosto 1982, in Orient. Giur. Lav., 1983, 257; Pret. Bibbiena 20 maggio 1982, ivi, 266; Pret. Milano 11 maggio 1982, 1226; Trib. Vicenza 12 marzo 1982, ivi, 886. La medesima tesi è stata sostenuta anche da altre pronunce che pure hanno ritenuto la intrinseca frazionabilità del comporto secco: Trib. Pisa 13 maggio 1981. Per altre decisioni che si sono riferite ad un arco di tre anni, giudicato sufficientemente ampio per la cura della malattia, v. Trib. Milano 15 dicembre 1982, ivi, 1983, 698. Per casi relativi al lavoro nautico, v. Trib. Roma 5 aprile 1986, cit., in applicazione dell’art. 1374, e Trib. Roma 14 marzo 1986, in Dir. lav., 1986, II, 206.
[344] Cfr. per tali rilievi, Cass. 9 maggio 1985, n. 2913; Pret. Piacenza 10 febbraio 1983, cit.; Trib. Bari 18 dicembre 1982, cit., che fa il caso del lavoratore il cui ultimo giorno di malattia venga a cadere nel primo di vigenza del nuovo c.c.n.l., con inizio di un nuovo comporto; Pret. Roma 9 marzo 1981, cit.; Trib. Pisa, 13 maggio 1981, cit. In dottrina, per le critiche alla tesi della vigenza formale, v. Pera, op. cit., p. 318; GuarinierI, La decorrenza del comporto per sommatoria nell’esclusivo ambito di vigenza formale del contratto collettivo e i suoi limiti, in Giust. Civ., 1984, I, 1575; Dondi, op. cit., p. 2671, i quali ricordano anche le penalizzazioni che si avrebbero in casi di rinnovi ritardati.
[345] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 366.
[346] Così G. Amoroso – V. Di Cerbo – A. Maresca, Diritto del lavoro, Lo statuto dei lavoratore e la disciplina dei licenziamenti, 2014.
[347] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 367.
[348] Sul collegamento più generale fra sospensione del rapporto e principio di conservazione del negozio, v. Branca, La sospensione nelle vicende del rapporto di lavoro, cit., p. 13 ss.
[349] V. Cass. 26 febbraio 1990, n. 1459; 2 luglio 1988, n. 4394, in Notiz. giurispr. lav., 1988, 524; 29 giugno 1985, n. 3909; 30 aprile 1985, n. 2779; 15 marzo 1984, n. 1781, in Giust. civ., 1984, I, 3078; n. 5969 del 1982, cit.; 1° ottobre 1982, n. 5048; 29 giugno 1981, n. 4225, in Notiz. giurispr. lav., 1982, 248; 19 gennaio 1981, n. 451, ivi, 1981, 168; 16 luglio 1980, n. 4643; 14 dicembre 1988, n. 5447, in Foro it, 1979,1, 465; 19 ottobre 1974, n. 2959; 7 agosto 1974, n. 2379; ma trattasi di un indirizzo molto risalente nel tempo: v. Cass. 17 gennaio 1951, n. 130, in Riv. dir. comm., 1951, II, 177, con nota di Cottino. Nella giurisprudenza di merito, nello stesso senso, v. Pret. Asti 10 gennaio 1990, in Giur. Piem. 1990, 101 ; Trib. Torino 9 marzo 1984, ivi, 1985, 72; Pret. Milano 8 giugno 1977 in Orient. giur. lav., 1978, 907; Pret. Palermo 3 febbraio 1975, ivi, 1975, 452.
[350] V. Cass. 12 febbraio 1981, n. 875, in Foro it, 1982,1, 1392, con nota di Silvestri. Una certa ambiguità in tale direzione si rinveniva anche in Cass. 22 aprile 1977, n. 1523, ivi, 1978,1, 2876.
[351] V. Pret. Abbiategrasso 19 febbraio 1986, in Lav. ‘80, 1986, 625; Pret. Maddaloni 5 gennaio 1980, in Riv. giur. lav., 1980, II, 1123, per il quale l’inefficacia si ha solo se la malattia è intervenuta dopo il licenziamento, con sospensione del preavviso; Pret. Milano 8 ottobre 1979, in Orient. giur. lav., 1979,1479; Pret. Roma 21 aprile 1976, in Riv. giur. lav., 1976, II, 502, in motivazione, a proposito di un caso nel quale il licenziamento era stato intimato per eccessiva morbilità; Pret. Roma 15 luglio 1975, ivi, 1975, II, 1121.
[352] Nel senso dell’inefficacia, v. Mancini, Il recesso unilaterale e i rapporti di lavoro, I, cit., p. 282 ss.; Branca, op. cit., p. 99; Amorth, La malattia nel rapporto di lavoro, cit., p. 58; Galli, Brevi osservazioni in tema di contrasto di accertamenti sanitari in caso di malattia del lavoratore e sugli effetti del licenziamento intimato prima della scadenza del periodo di comporto, in Riv. giur. lav., 1984, II, 154, qui pp. 159-161. Giungeva nella sostanza alla medesima conclusione Cottino, Nullità od inefficacia dei licenziamenti intimati durante il periodo di malattia del lavoratore?, in Riv. dir. comm., 1951, II, 177, il quale criticava la tesi del licenziamento valido con effetti postdatati sostenendo, tuttavia, che l’invalidità dello stesso si traduceva in una mera nullità parziale avente ad oggetto il «solo elemento cronologico della fattispecie negoziale». Nel senso, invece, della nullità assoluta, v. Persiani, La tutela dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto, in Nuovo trattato di diritto del lavoro, diretto da Riva sanseverino e mazzoni, Padova, 1971, II, p. 643 ss.; Napoli, op. cit., p. 374; Mazziotti, Il licenziamento illegittimo, cit. pp. 198-199; Panzarani, op. cit., p. 299. Esprime dubbi sulla tesi dell’inefficacia, non ritenendo che lo sforzo dottrinale abbia prodotto motivazioni adeguate a giustificarla, Pandolfo, op. ult. cit., p. 217 nt. 46; l’A. prevede altresì un’evoluzione giurisprudenziale sulla scia di Corte Cost. 8 febbraio 1991, n. 61, in Riv. It. Dir. lav., 1991, II, 264, che ha dichiarato illegittimo l’art. 2 della legge n. 1204 del 1971, laddove non prevede la nullità, anziché l’inefficacia temporanea, del licenziamento intimato ad una lavoratrice madre durante il periodo di divieto.
[353] Così anche nel caso in cui il dipendente divenga liberamente licenziabile per raggiungimento dell’età pensionabile: Cass. n. 5969 del 1982, cit.
[354] V. Cass. 7 febbraio 1987, n. 1314, in Giur. It., 1987, I, 1, 1974.
[355] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 369.
[356] Cfr., da ultimo, l’art. 5 della legge 23 luglio 1991, n. 223, il cui comma 1 ha legificato (v. in collegamento con l’art. 24) i criteri dei carchi di famiglia, dell’anzianità e delle esigenze tecnico-produttive e organizzative.
[357] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 370.
[358] In tal senso, v. Cass. n. 1314 del 1987, cit. Nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Reggio Emilia 6 marzo 1948, in Mass. giur. lav., 1948,208; App. Roma 21 marzo 1959, in Temi romana, 1960,141 ; e, più di recente, Pret. Palermo 3 febbraio 1975, cit., in motivazione; Pret. Napoli 7 ottobre 1974, in Notiz. giurispr. lav., 1974, 190; App. Milano 4 marzo 1973, ivi; e, da ultimo, Pret. Firenze 31 ottobre 1990, ivi, 1990,853. Il principio è affermato sin dalla più remota dottrina: v. F. Santoro Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1963, p. 200; Corrado, La nozione unitaria del contratto di lavoro, Torino, 1956, p. 156; Riva Sanseverino, Il lavoro nell’impresa, cit., pp. 501 e 633; Sinagra, Istituzioni di diritto del lavoro, Palermo, 1955, p. 366.
[359] V. Pret. Milano 8 ottobre 1979 e Pret. Roma 15 luglio 1975, cit., nonché Trib. Milano 23 marzo 1985, in Orient. giur. lav., 1985, 545.
[360] Si pensi al caso dei licenziamenti intimati a causa dello svolgimento di una diversa attività da parte del dipendente malato, con aggravamento delle proprie condizioni di salute o comunque con ritardo dei tempi di guarigione: in questi casi, più volte affrontati dalla giurisprudenza, l’operatività della giusta causa non ha mai trovato ostacolo nella presenza dello stato di malattia (spesso, tra l’altro, smentita proprio dal fatto del secondo lavoro — ma allora il discorso sarebbe formalmente diverso, giacché la causale del recesso dovrebbe considerarsi, a rigore, l’assenza ingiustificata). La medesima conclusione varrà, ragionevolmente, per ogni altra ipotesi di giusta causa, la cui rilevanza si può anche presentare come ragionevole corollario dell’idea della sospensione del lavoro, e non del rapporto, dalla quale il lavoratore trae tangibili benefìci (primo fra tutti il diritto alla retribuzione), e della quale è perciò giusto che subisca i condizionamenti. La riflessione è di R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 371.
[361] Giurisprudenza costante: tra le molte cfr. Cass., 1 giugno 2005, n. 11674, in Lavoro e giur. 2006, p. 94; Cass., 25 agosto 2003, n. 12481, in Impresa, 2004, p. 332; Cass., 6 agosto 2001, n. 10881; Cass., 20 ottobre 2000, n. 13903, in Orient. Giur. Lav., 2000, p. 1060. Isolate nella stessa giurisprudenza di merito, e ormai ampiamente superate, Pret. Roma, 22 marzo 1990, in Dir. e prat. Lav., 1990, p. 2577; Pret. Napoli, 18 dicembre 1987, in Dir. giur., 1989, p. 592, con nota di S. Dettori Rossi, Periodo di comporto e licenziamento per giusta causa.
[362] Cass. 4.4.1980, n. 2225, O.G.L., 1980, 453; R.G.L., 1980, II, 997; D.L., 1980, II, 418; Cass. 11.4.1980, n. 2319, G.C., 1980, I, 1492; D.L., 1980, II, 422.
[363] Pret. S. Miniato 26.4.1972, R.G.L., 1972, II, 102.
[364] Cass. 6.8.2001, n. 10881, N.G.L., 2001, 769.
[365] Così Massari, cit., 1984, 353.
[366] Per tale conclusione, in un caso di cessazione di attività, v. Trib. Milano 11 giugno 1971, in Mass. giur. lav., 1971, 432, in via di applicazione analogica dell’esplicita previsione dell’art. 3, comma 2,1. n. 860/1950 sulle lavoratrici madri, nonché dell’art. 1, ultimo comma, della 1. n. 7/1963, che pone la stessa eccezione per il licenziamento in prossimità del matrimonio.
[367] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 372.
[368] In tal senso, fra le tante, v. Cass. 15 gennaio 1981, n. 339, in Foro it., 1981, 1,1037, e, in dottrina, Mancini, Il recesso unilaterale etc., I, cit., pp. 305-7. In senso critico v. però Pera, La cessazione, cit., pp. 51-52; e, in giurisprudenza, limitatamente all’ipotesi del preavviso non lavorato, Pret. Lodi 30 gennaio 1985, in Orient. giur. lav., 1985, 586. Una tesi intermedia è quella secondo cui il rapporto si risolve senz’altro al momento della guarigione del lavoratore, quando questa non sia anteriore alla scadenza del preavviso originariamente stabilito: v. Cass. 1° dicembre 1973, n. 3306 e 29 ottobre 1973, n. 2811, nonché Ichino, voce Malattia, cit., p. 10. In ogni caso l’effetto sospensivo non vale per le dimissioni del lavoratore, non potendosi estendere analogicamente la tutela eccezionale riconosciuta dall’art. 2110: Pret. Roma 8 novembre 1984, in Giur. it, 1985,1, 2, 530.
[369] Tra le prime in questo senso Cass. 16 gennaio 1975 n. 176, MGL, 1976, p. 185, con nota di F. Saffirio; Cass. 2 dicembre 1977 n. 5244, GC, 1978, I, p. 729; tra le più recenti Cass. 6 novembre 1996 n. 9684, RIDL, 1997, II, p. 612, con nota di P. Campanella, Sul licenziamento per sopravvenuta inidoneità psico-fisica del lavoratore. In dottrina, nello stesso senso, G. Amorth, La malattia ecc., cit. nella nota 92, pp. 154-165.
[370] In questo senso tra le altre Cass. 22 luglio 1993 n. 8152, MGL, 1994, p. 63; v. inoltre §§ 288, 386 e 516, lett. e e h. In dottrina, in senso favorevole al diritto del lavoratore alla ridefinizione delle mansioni, per renderle compatibili con il suo stato, anche in deroga all’art. 2103 c.c. (§ 288), v. U. Romagnoli (G. Ghezzi, F. Mancini, L. Montuschi), Statuto dei diritti dei lavoratori, Comm. SB, 19721, sub art. 13, pp. 190-191; M.J. Vaccaro, Assenteismo per malattia e controlli del datore di lavoro, cit., pp. 92-94.
[371] Così Ichino P., Il contratto di lavoro, vol. III, Tratt. Cm. 2003, pag. 85.
[372] Così Ichino P., Il contratto di lavoro, vol. III, Tratt. Cm. 2003, pag. 86.
[373] In questo senso v. L. Riva Sanseverino, Diritto del lavoro, cit., p. 330; G. Lavagnini, La sospensione ecc., cit., pp. 94-95; F. Mazziotti, Diritto del lavoro, cit., p. 721.
[374] V. in questo senso Cass. 29 aprile 1976, MGL, 1977, p. 122; Cass. 6 novembre 1996 n. 9684, cit.. Nello stesso senso, in dottrina, A. Maresca, Brevi note in tema di licenziamento per eccessiva morbilità, RGL, 1978, II, p. 813; F. Balestrieri, «Eccessiva morbilità», interpretazione equitativa e clausole contrattuali di comporto: l’ultima parola all’interprete, RGL, 1980, II, p. 953.
[375] Cass. 13 dicembre 2000 n. 15688, LPO, 2001, p. 190.
[376] Nel senso della necessità di una manifestazione di recesso, non avendosi una risoluzione automatica, v., esplicitamente, Cass. 5 luglio 1978, n. 3323, in Notiz. Giurispr. Lav., 1979, 141. V., nello stesso senso, Napoli, op. cit., pp. 372 e 375.
[377] Cfr. Napoli, op. cit., p. 372; cfr. anche Mancini, op. ult. cit., pp. 278-279.
[378] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 374.
[379] V. in tal senso, Pret. Milano 20 febbraio 1982, in Orient. Giur. Lav., 1982, 462; Pret. Milano 16 ottobre 1979, in Foro it., 1980, I, 731; Pret. Milano 4 febbraio 1977, in Orient. Giur. Lav., 1977, 226; Pret. Taranto 24 novembre 1976, in Riv. Giur. Lav., 1977, 240 osservandosi che le clausole di sommatoria forniscono solo un’indicazione di massima in merito alla sussistenza del g.m. obiettivo; Trib. Miano 27 ottobre 1976, in Riv. Giur. Lav., 1976, II, 1162; Pret. Milano 5 luglio 1976, in Foro it., 1976, I, 2278, nel senso della nullità delle «clausole risolutive espresse» previste dal contratto collettivo; Pret. Milano 8 aprile 1976, in Foro it., 1976, I, 1732; Pret. Milano 8 aprile 1976, in Riv. Giur. Lav., 1976, II, 479; Pret. Milano 29 marzo 1976, ivi, 479, ritenendosi nulle, ex art. 2698, c.c. le clausole collettive individuanti un g.m. obiettivo nel superato comporto; Pret. Milano 28 febbraio 1976, in Orient. Giur. Lav., 1976, 459; Pret. Genova 8 gennaio 1975, in Foro it., 1975, I, 450; Pret. Roma 11 luglio 1973, in Dir. lav., 1973, II, 361; Pret. Genova 11 marzo 1972, in Riv. Giur. Lav., 1972, II, 103, con nota di De Ambri Corridoni.
[380] V. Ichino, Malattia, assenteismo etc., cit., p. 280; Mannacio, In tema di licenziamento etc., cit., p. 130 ss.; Veneto, op. cit., p. 250; e, da ultimo, con attenta argomentazione, Pandolfo, op. ult. cit., p. 293 ss.
[381] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 376.
[382] V. in tal senso, fra le altre, Cass. 12 dicembre 1986, n. 7435; 2 dicembre 1986, n. 7136; 10 maggio 1986, 173; 30 agosto 1983, n. 5504, in Notiz. Giurispr. Lav., 1984, 86, anche per l’affermazione che non si può prolungare il comporto, e quindi inficiare la validità del licenziamento richiedendo le ferie (si avrà semmai diritto alla sola indennità sostitutiva); 29 marzo 1982, n. 1958, ivi, 159; 10 luglio 1981, n. 4996, in Giust. Civ., 1981, I, 2915, con nota di Morgera; 7 settembre 1981, n. 5056; 3 luglio 1981, n. 4335, in Mass. Giur. Lav., 1982, 62; 10 aprile 1981, n. 2090, in Notiz. Giurispr. Lav., 1981, 357; 8 aprile 1976, n. 1233, in Foro it., 1976, I, 923. Nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Roma 30 marzo 1980, in Notiz. Giurispr. Lav., 1980, 193; Trib. Taranto 23 marzo 1978, in Orient. Giur. Lav., 1978, 540; Pret. Desio 19 gennaio 1977, ivi, 1977, 938; Trib. Milano 11 gennaio 1977, ivi, 236; Trib. Milano 27 novembre 1976, in Foro it., 1977, I, 202; Pret. Roma 3 marzo 1976, in Riv. Giur. Lav., 1976, II, 505, accertandosi comunque, nel caso, anche la sussistenza del g.m. obiettivo; Trib. Milano 4 ottobre 1975, in Orient. Giur. lav., 1975, 1127; Pret. Milano 7 dicembre 1975, ivi, 1976, 164; App. Milano 24 maggio 1974, in Foro it., 1974, I, 2143; Trib. Lodi 13 luglio 1974, in Riv. Giur. Lav., 1976, II, 478. Conseguentemente, si è anche negato che le conformi previsione contenute nei contratti collettivi potessero essere reputate illegittime; v. ad es. Cass. 8 febbraio 1978, n. 613, in Riv. Dir. lav., 1978, II, 563; Pret. Desio 19 gennaio 1977, e Trib. Milano 11 gennaio 1977, cit.
[383] Nel senso che la principale implicazione dell’art. 2110 era di derogare al recesso ad nutum, v. MengonI, Note sull’impossibilità sopravvenuta della prestazione di lavoro, cit., p 274.
[384] V. Pandolfo, ivi, p. 301.
[385] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 375.
[386] V. ad es. Pera, Eccessiva morbilità etc., cit., pp. 312-313; in giurisprudenza, per il rilievo che c’è una presunzione di pregiudizio aziendale dopo il comporto, v. Cass. 1° luglio 1981, n. 4276.
[387] Cfr. Napoli, op. cit., pp. 383-384.
[388] V., nella sostanza, Balestrieri, op. cit., p. 946; Panzarani, Appunti in tema di malattia etc., cit., pp. 303-304, pur ritenendo la soluzione non appagante.
[389] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 376.
[390] V. Pret. Riva del Garda 25 settembre 1982, in Lav. ’80, 1983, 217, che ha ritenuto che il principio di cui nel testo fosse stato violato. Così anche Cass. 30 maggio 1989, n. 2590, in Orient. Giur. Lav., 1989, 769, in un caso in cui il g.m.o. preteso era l’inidoneità fisica del soggetto.
[391] V. Cass. 28 marzo 1990, n. 2496; 11 giugno 1986, n. 3878; 25 marzo 1986, n. 2134; 9 maggio 1985, n. 2913; Trib. Cassino 18 gennaio 1991, cit.
[392] V. l’osservazione di Mazzotta a Cass. 20 gennaio 1987, n. 476, in Foro it., 1987, I, 1058,. In generale sulla configurazione teorica del «motivo» del recesso, v. Napoli, op. cit., spec. pp. 17-18.
[393] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 377.
[394] V. in tal senso Cass. 2 dicembre 1988, n. 6546, in Mass. Giur. Lav., 1989, 64, e Cass. 30 marzo 1984, n. 2134, in Notiz. Giurispr. Lav., 1985, 195, ivi peraltro parlandosi, impropriamente, di «contestazione» delle assenze.
[395] Cfr. Pera, La cessazione, cit., p. 53.
[396] In generale, da ultimo, v. Cass. 12 gennaio 1991, n. 267, in Dir. prat. Lav., 1991, 1229; n. 6799 del 198, cit.; 5 settembre 1989, n. 3869; 29 luglio 1989, n. 3555, in Notiz. Giurispr. Lav., 1989, 579; 1° agosto 1986, n. 4963; 19 febbraio 1986, n. 973; 21 gennaio 1986, n. 372..
[397] Cass., 28 marzo 2011, n. 7037, in Giust. Civ. mass., 2011, 476; Cass., 23 gennaio 2008, n. 1438, in Foro it., 2009, I, 501. È stato giudicato tempestivo il recesso intervenuto, rispetto alla ripresa dell’attività, dopo 29 giorni (Cass., 2 maggio 2000, n. 5485, in Riv. Giur. Lavoro, 2001, 595), dopo 50 giorni (Cass., 14 dicembre 1986, n. 7200, in Giust. Civ. mass., 1986, 12), dopo tre mesi (T. Roma, 13 luglio 1982, in Temi romana, 1983, 96), dopo 10 mesi dal superamento del comporto, quando la morbilità era divenuta tale da rendere il reinserimento del dipendente nell’apparato produttivo non più utile e conveniente (Cass., 28 marzo 2011, n. 7037, in Giust. Civ. mass., 2011, 476); viceversa, si è ritenuto intempestivo il recesso intervenuto dopo quattro mesi di lavoro successivi al superamento del comporto (Cass., 23 gennaio 2008, n. 1438, in Foro it., 2009, I, 501; Cass., 1 agosto 1984, n. 4572, in Giust. Civ., 1985, I, 817), dopo due mesi (Cass., 13 gennaio 1989, n. 119, in Dir. marittimo, 1989, 772; T. Milano, 31 luglio 1999, in Lavoro nella giur., 2000, 61) dopo tre mesi (Cass., 6 luglio 2000, n. 9032, in Giust. Civ. mass., 2000, 1506; Cass., 12 gennaio 1991, n. 267, in Giur. It., 1992, I, 1, 760), dopo cinque mesi: Cass., 29 luglio 1999, n. 8235, in Dir. lavoro, 2000, II, 293.
[398] Cass., 4 dicembre 1986, n. 7201, in Notiziario giur. Lav., 1987, 55; Cass., 13 gennaio 1989, n. 119, in Giust. Civ. mass., 1989, 3; Cass., 17 giugno 1998, n. 6057, in Rass. Giur. Enel, 1998, 802; P. Roma 30 giugno 1992, ined., confermata da T. Roma, 20 febbraio 1995, ined., in un caso in cui il dipendente, che aveva diritto al comporto di un anno, nel triennio precedente il licenziamento si era assentato per 450 giorni, di cui, però, 365 concentrati nei primi 18 mesi del triennio. Anche Cass., 11 maggio 2010, n. 11342, in Guida dir., 2010, 26, 92 ha ritenuto corretta la decisione di merito che aveva ritenuto tardivo il licenziamento comminato solo quando il lavoratore aveva sommato nel triennio 572 giorni di assenza per malattia, a fronte del limite contrattuale di 365 giorni, ond’è che il datore di lavoro aveva tenuto un comportamento incompatibile con la volontà di recedere dal contratto e tale da giustificare l’affidamento dell’interessato. In senso contrario, a favore dell’altra soluzione esposta in premessa, in una fattispecie analoga a quella decisa da P. Roma, 30 giugno 1992, cit., nella quale il recesso era intervenuto dopo nove mesi da un primo documentato superamento del comporto, ma a meno di un mese dal rientro in servizio al termine di un’ulteriore assenza per malattia, Cass., 2 maggio 2000, n. 5485, in Riv. Giur. Lavoro, 2001, II, 595.
[399] Cass., 29 luglio 1989, n. 3555, in Notiziario giurispr. Lav., 1989, 579; Cass., 18 aprile 2000, n. 5066, ivi, 2000, 604; Cass., 7 gennaio 2005, n. 253, in Giust. Civ. mass., 2005, 1, che ha ritenuto corretta la determinazione del giudice di merito di valutare la tempestività facendo riferimento non al momento del superamento del comporto, ma al momento del rientro in servizio, in fattispecie di perdurante assenza dal lavoro. Nello stesso senso, Cass., 25 novembre 2011, n. 24899, in CED Cass,. rv. 619830, secondo cui, fermo restando il potere datoriale di recedere non appena terminato il periodo di comporto, e quindi anche prima del rientro del prestatore, nondimeno il datore di lavoro ha altresì la facoltà di attendere tale rientro per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all’interno dell’assetto organizzativo, se del caso mutato, dell’azienda. Ne deriva che solo a decorrere dal rientro in servizio del lavoratore, l’eventuale prolungata inerzia datoriale nel recedere dal rapporto può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia del potere di licenziamento per g.m.o. e, quindi, ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente.
[400] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 385.
[401] L’istituto dell’aspettativa non retribuita al termine del comporto ha senso soltanto in riferimento al caso della malattia di lunga durata a carattere continuativo: v. in proposito Cass. 22 novembre 1996 n. 10286, cit.: «l’aspettativa [non retribuita allo scadere del termine di comporto] … riguarda l’ipotesi della prolungata infermità`, ossia della malattia unica e continuativa, la natura della quale sia incompatibile con la prestazione del servizio … Ne resta quindi escluso il caso di ripetuti e brevi episodi morbosi che siano di impedimento ad una regolare prestazione».
[402] Così R. Del Punta, in La sospensione del rapporto di lavoro: malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Il Codice Civile Commentario, Milano, Giuffrè, 1992, XII, pag. 386.
[403] Così M. Persiani e M. Lepore, Il nuovo diritto della sicurezza sul lavoro, UTET giuridica, 2012, pag. 9.
[404] Messinetti, Sapere complesso e tecniche giuridiche rimediali, in Europa dir. priv., 2005, 612; P. Albi, voce Personalità (diritti della), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 373 ss.
[405] Mazzamuto, Il mobbing, Milano, 2004, 35; voce Responsabilità contrattuale (diritto vigente), in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, 1096.
[406] Bigliazzi Geri, Persona e lavoro, in Atti del XII Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati, Padova, 1994, 39: “Ho cercato le tracce della persona all’interno dell’universo giuridico creato dal codice civile, non solo nel Libro V. Con scarni risultati”.
[407] Bigliazzi Geri, Persona e lavoro, cit., 41.
[408] Bigliazzi Geri, Persona e lavoro, cit., 40.
[409] “Uno Stato non è pienamente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità”: Aldo Moro, Seduta del 13 marzo 1947, in Assemblea Costituente, I, 372.
[410] E. Rossi, sub art. 2, in Bifulco, Celotto, Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, 2006,1, 38 ss.; Caretti, I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, Torino, 2005; Pace, Problematica delle libertà costituzionali, Parte generale, Padova, 2003; Pizzorusso, Il patrimonio costituzionale europeo, Bologna, 2002; P. Rescigno, Personalità (diritti della), in Enc. giur., XXIII, Roma, 1990.
[411] Bigliazzi Geri, Persona e lavoro, cit., 45.
[412] Ed infatti, nella Relazione del Ministro Guardasigilli al Codice civile — preceduta dalla Relazione al disegno di legge sul “Valore giuridico della Carta del lavoro” — (Gazz. Uff., Ed. straord., 4 aprile 1942, n. 79-bis, parte I) si legge: “Qualunque sia il suo posto gerarchico, il lavoro, sia esso dell’imprenditore o dei dirigenti, sia degli impiegati od operai, ha diritto a pari dignità. In questo senso il codice pone l’accento sul carattere collaborativo dei rapporti tra l’imprenditore e i prestatori di lavoro nell’impresa e statuisce come dovere fondamentale dell’imprenditore quello di provvedere alla tutela non solo dell’integrità fisica; ma anche della personalità morale dei prestatori di lavoro”. Pur se espresso nel cuore pulsante del modello corporativo e con finalità che non possono certo ritenersi coincidenti con quelle proprie del nostro attuale sistema costituzionale, non può sottovalutarsi l’affermazione del principio di pari dignità e la natura “fondamentale” dell’obbligo (in verità del “dovere”) di sicurezza.
[413] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 45.
[414] Sul principio costituzionale sancito dall’art. 32 Cost.: Simoncini, Longo, sub art. 32, in Bifulco, Celotto, Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, cit., I, 655; D’Arrigo, voce Salute (diritto alla), in Enc. dir., V (Agg.), 2001, 1009; Id., Autonomia privata e integrità fisica, Milano, 1999; M. Luciani, voce Salute (Diritto alla salute – Dir. costituzionale), in Enc. giur., XXVII, Roma, 1991; Smuraglia, voce Salute (III), tutela della salute – Dir. lav., in Enc. giur., XXVII, Roma, 1990; Cherubini, voce Diritto alla salute, in Dig. disc, priv., sez. civ., VI, Torino, 1990, 77 ss.; Alpa, voce Salute (diritto alla), in Noviss. dig. it., App., VI, Torino, 1986, 913; Perlingieri, Il diritto alla salute come diritto della personalità, in Rass. dir. civ., 1982, 1025; Caravita, La disciplina costituzionale della salute, in Dir. soc, 1984, 21 ss.; Busnelli, Breccia, (a cura dì), Tutela della salute e diritto privato, Milano, 1978; Montuschi, Commento all’art. 32, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione), Bologna-Roma, 1976, 146 ss.; Mortati, La tutela della salute nella Costituzione italiana, in Riv. inf. Mal. prof., 1961, I, 2.
[415] D’Arrigo, voce Saluti (diritto alla), cit. 1015; Bessone, Ferrando, voce Persona fisica (diritto privalo), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 193 ss.; Caravita, La disciplina costituzionale della salute, cit., 1984, 31; Cherubini, voce Diritto alla salute, cit. 83.
[416] Simoncini, Longo, sub art. 32, in Bifulco, Celotto, Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, cit., 659.
[417] Alpa, voce Salute (diritto alla), cit., 914.
[418] Cfr. D’Arrigo, voce Salute (diritto alla), cit., 1016; Simoncini, Longo, op. e loc. cit.
[419] Romboli, La “relatività” dei valori costituzionali per gli atti di disposizione del proprio corpo, in Pol. dir., 1991, 568; Id., La libertà di disporre del proprio corpo, sub art. 5, in Commentario del codice civile ScialoJa e Branca, a cura di Galgano, Bologna-Roma, 1988.
[420] D’Arrigo, voce Salute (diritto alla), cit., 1018.
[421] Simoncini, Longo, op. cit., 656.
[422] In tema v. Cesana, Il «Ministero» della salute. Note introduttive alla medicina, Firenze, 2000; Morana, La salute nella Costituzione italiana, Milano, 2001.
[423] M. Luciani, voce Salute, cit., 4. Non sorgono dubbi sulla circostanza che l’aggettivo fondamentale enunciato dall’art. 32 Cost. equivalga ad inviolabile: Mengoni, Fondata sul lavoro: la Repubblica tra diritti inviolabili dell’uomo e doveri inderogabili di solidarietà sociale, in Napoli (a cura di), Costituzione, lavoro, pluralismo sociale, Milano, 1998, 5 ss. Baldassarre, voce Diritti inviolabili, in Enc. giur., IX, Roma, 1989; Corasaniti, Note in tema di diritti fondamentali. I diritti fondamentali inviolabili dell’uomo, in Dir. soc, 1990, 189 ss.; Bartole, voce Principi generali del diritto (dir. cost), in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986, 494 ss., partic. 523; Mengoni, I principi generali del diritto e la scienza giuridica, in Dir. lav., 1992, I, 11 ss.
[424] La giurisprudenza costituzionale, fa frequente riferimento al “nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana”: Corte cost. 17 luglio 2001 n. 252; Corte cost., 20 novembre 2000, n. 509, in Foro it., 2001, I, 1475; Corte cost., 16 luglio 1999, n. 309, ivi, 1999, I, 2776; Corte cost., 17 luglio 1998, n. 267, ivi, l999,I, 2792.
[425] Simoncini, Longo, op. e loc. cit.
[426] D’Arrigo, Salute (diritto alla), cit., 1036; Alpa, voce Salute (diritto alla), cit., 915; Caravita, La disciplina costituzionale della salute, cit., 1984, 21 ss.; Cherubini, voce Diritto alla salute, cit., 77 ss., 79; Perlingieri, Il diritto alla salute come diritto della personalità, cit., 1025.
[427] D’Arrigo, Salute (diritto alla), cit., 1037.
[428] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 49.
[429] Simoncini, Longo, op. cit., 658.
[430] Cocconi, Il diritto alla tutela della salute, Padova, 1998.
[431] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 50.
[432] A. Barbera, Commento all’art. 2 della Costituzione, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna-Roma, 1975; Baldassarre, Diritti inviolabili, cit.; Casavola, Tutela costituzionale dei diritti inviolabili, in Dir. uomo, 1991, 11; Sabatini, I diritti inviolabili dell’uomo nell’art. 2 della carta costituzionale, in Nuova rass., 2004, 2505.
[433] Così Navarretta, Il danno esistenziale risarcibile ex art. 2059 cc. e l’adeguamento della norma alla Costituzione, in Resp. civ. prev., 2003, 190 ss., 196; cfr. Ead., Il danno alla persona tra solidarietà e tolleranza, ivi, 2001, 789 ss.; Ead., Ripensare il sistema dei danni non patrimoniali, ivi, 2004, 3 ss.
[434] Per il dibattito dottrinario sul tema della dignità nel diritto del lavoro: Natoli, Sicurezza, libertà e dignità del lavoratore nell’impresa, in Dir. lav., 1956, I, 3 ss.; Smuraglia, La persona del prestatore nel rapporto di lavoro, Milano, 1967,345; Pera, Libertà e dignità dei lavoratori, in Noviss. dig., App. IV, Torino, 1983, 896; Gaeta, La dignità del lavoratore e i « turbamenti » dell’innovazione, in Lav. e dir. ,1990,203; F. P. Rossi, La dignità del lavoro nei processi produttivi, in Dir.
lav., 2002, I, 573; Perlingieri, Dignità della persona e lavoro, in Dir. mer. lav., 2005, 517; Napoli, Mobbing: dignità della persona e sfera giuridica del lavoratore, in Iustitia, 2006,277; Proto Pisani, Diritto del lavoro, dignità della vita, in Foro it., 2007, V, 6 ss. Sulle implicazioni civilistiche e costituzionalistiche della dignità: Amirante, La dignità dell’uomo nella Costituzione di Bonn, Napoli, 1966; Bartolomei, La dignità umana come concetto e valore costituzionale, Torino, 1987, 40; Ruggeri, Spadaro, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), in Angiolini (a cura di), Libertà e giurisprudenza costituzionale, Torino, 1992, 225 ss; Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, cit., 64; Alpa, Dignità – Usi giurisprudenziali e confini concettuali, in Nuova giur. civ. comm., 1997, II, 415 ss.; G. Resta, La disponibilità dei diritti fondamentali e i limiti della dignità (note a margine della carta dei diritti), in Riv. dir. civ., 2002, II, 801 ss.; Morozzo Della Rocca, II principio di dignità della persona umana nella società globalizzata, in Dem. dir., 2004, fasc. 2, 195.
[435] V. Smuraglia, La persona del prestatore, cit., 345. Importante appare la riflessione giurisprudenziale anche meno recente sul tema. Si segnala in particolare, per la profondità delle argomentazioni, Pret. Bologna, 20 novembre 1990 (in Giur, it„ 1991, I, 2, 84, con nota di Zilio Grandi, Anche la dignità umana ha un prezzo: licenziamento illegittimo e art. 41, 2° comma, cost. e in Riv. it. dir. lav., 1991, II, 462, con nota di Poso, Licenziamento offensivo e risarcimento del danno) secondo cui per dignità deve intendersi «l’autocoscienza del singolo dei propri valori fondamentali come persona, quei valori, cioè, che ne guidano le azioni e che si tendono a trasmettere agli altri con contegni adeguati. Se questi valori possono diversificarsi secondo la strutturazione, anche culturale di ciascun soggetto, un nucleo minimo comune va ragionevolmente individuato in quei già richiamati pilastri fondamentali su cui si fonda il contratto sociale nello specifico momento storico. Ciò che equivale a dire: i diritti dell’individuo quali enunciati dalla Carta costituzionale e coi soli limiti degli identici diritti altrui. L’autocoscienza di cui si parla non rappresenta, perciò e a ben guardare, una nozione puramente teorica ma una precipitazione di sintesi che sta alla base di ciascuna personalità e che di essa rappresenta l’essenza, immateriale certo, ma, altrettanto sicuramente, prima ».
[436] Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, cit., 66.
[437] Come il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), il diritto alla salute (art. 32 Cost.), la “esistenza libera e dignitosa” del lavoratore e della sua famiglia (art. 36 Cost.), la tutela della donna lavoratrice e dei minori (art. 37 Cost.), le fondamentali istanze di sicurezza sociale (art. 38 Cost.), della sicurezza, della libertà, della dignità umana destinate ad operare come limiti all’iniziativa economica privata (art. 41, comma 2°). La riflessione è di P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 53.
[438] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 54.
[439] G. Resta, La disponibilità dei diritti fondamentali e i limiti della dignità cit., 801 ss. Ed invero la libertà costituzionale di definire il proprio sistema di valori non è illimitata ma vive dentro il sistema costituzionale; ciò non determina affatto la restaurazione di un ordine morale oppressivo: se da un lato al concetto di dignità appaiono estranee le categorie del consenso e della disponibilità, dall’altro è ormai consolidato negli ordinamenti democratici il divieto di ogni forma di controllo sociale sulle scelte di rilievo esclusivamente individuale. Ciò determina l’esigenza di definire in modo restrittivo il concetto di dignità (dignità fondamentale): Piepoli, Dignità e autonomia privata, cit., 61.
[440] V. Piepoli, Dignità e autonomia privata, cit., 53. In altro passaggio questo Autore afferma (p. 56) che la “la dignità dunque costruisce un orizzonte di irrinunciabile appartenenza della persona all’umanità, intesa come tessuto di mutue relazioni fondate su un imperativo di reciproco riconoscimento; essa viene dunque compresa come categoria del « prossimo », della comunanza con l’altro che è di ogni individuo (…)”.
[441] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 56.
[442] Per converso il diritto alla salute è una chiara espressione della dignità della persona, al punto che può parlarsi di un “nucleo essenziale del diritto alla salute connesso all’inviolabile dignità della persona umana”: Corte cost., 20 novembre 2000, n. 509, in Foro it, 2001, I, 1475, con nota di Dalfino.
[443] Galgano, Commento all’art. 41, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna-Roma, 1982; Niro, sub art. 41 Cost., in Bifulco, Celotto, Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, cit., I, 846 ss.
[444] Sotto l’influsso del principio di libera concorrenza consacrato nel diritto comunitario fin dalle sue fonti istitutive è diffusa la tendenza a ritenere recessivi i limiti fissati dall’art. 41, comma 2° Cost. che potrebbero addirittura definirsi “quiescenti” a fronte del dinamismo imposto dall’efficienza economica del mercato, non escludendosi neanche l’ipotesi dell’abrogazione dei comma 2° e 3° dell’art. 41: V. le dottrine citate da Niro, op. cit., 850 e ivi anche indicazioni sui progetti di riforma costituzionali. Orbene, a parte il rilievo che una simile scelta appare decisamente inutile e fuorviarne a fronte della proclamazione dell’art. 3, comma 2°, Cost., nonché dei diritti sociali, della libertà sindacale, del diritto di sciopero (cfr.: Pace, Problematica delle libertà costituzionali, cit., VII ss.) occorre rammentare che la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto che i diritti inviolabili rappresentano un limite all’ingresso tanto delle norme internazionali ex art. 10 Cost. che delle norme che comportano limitazioni della sovranità ex art. 11 Cost.: Corte cost., 22 marzo 2001, n. 73, in Foro it., 2001, I, 2432 con nota di Passaglia, Un caso particolare, una questione atipica, una risposta adeguata: la corte risolve (di fatto) il « caso Baraldini »; Corte cost., 18 aprile 1991, n. 168, in Foro it., 1992, I, 660, con nota di Daniele, Corte costituzionale e direttive comunitarie; Corte cost., 21 aprile 1989, n. 232, in Foro it., 1990, I, 1855, con nota di Daniele, Costituzione italiana ed efficacia nel tempo delle sentenze della corte di giustizia comunitaria. Peraltro con le decisioni nn. 348 e 349 del 2007 la Corte costituzionale ha operato importanti chiarimenti che involgono i diritti inviolabili nel quadro del diritto comunitario e internazionale. In particolare la decisione n. 349/2007 ha messo in luce che “la giurisprudenza [comunitaria] è sì nel senso che i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto, ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri ed in particolare alla Convenzione di Roma (…). Tuttavia, tali principi rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti comunitari, poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, infine le deroghe nazionali a norme comunitarie asseritamente giustificate dal rispetto dei diritti fondamentali (sentenza 18 giugno 1991, C-260/89, ERT). La Corte di giustizia ha infatti precisato che non ha tale competenza nei confronti di normative che non entrano nel campo di applicazione del diritto comunitario (…)”.
[445] Navarretta, Diritti inviolabili e risarcimento del danno, cit. 66. Per la natura non inviolabile del diritto di proprietà, P. Grossi, Introduzione ad uno studio dei diritti inviolabili nella Costituzione italiana, Padova, 1972, 165 ss.; per la natura non inviolabile del diritto di iniziativa economica, P. Rescigno, Personalità (diritti della), cit., 5; M. Luciani, La produzione economica privata nel sistema costituzionale, Padova, 1983, 582; Cfr.: Messinetti, Personalità (diritti della), cit., 381. Per la dottrina che invece qualifica come inviolabili tali diritti v. Baldassarre, voce Diritti inviolabili, cit., 9.
[446] Messinetti, Personalità (diritti della), cit., 382.
[447] Messinetti, Personalità (diritti della), cit., 378.
[448] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 77.
[449] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 81.
[450] Gorgoni, Regole speciali e regole generali nella disciplina del contratto, cit., 48-49.
[451] Gorgoni, Regole generali e regole speciali, cit., 46. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949, 87; Coviello, Manuale di diritto civile italiano, Milano, 1910, 16.
[452] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 82.
[453] Così Montuschi, Diritto alla salute e organizzazione del lavoro, Milano, 1986, 73 ss.
[454] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 83.
[455] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 173.
[456] Caruso, L’Europa, il diritto alla salute e l’ambiente di lavoro, in Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza, cit., 1 ss.; Montuschi, I principi generali del d.lgs n. 626/1994 e successive modifiche, in MontuschI (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza, cit., 37 ss.; Id„ voce Ambiente di lavoro, in Dig. disc, priv., sez. comm., Torino, 2000 (agg.), 7; Arrigo, La tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori nell’ordinamento comunitario, cit., 5 ss.
[457] L’art. 157 del citato Trattato dispone che per conseguire gli obiettivi previsti all’art. 136, la Comunità sostiene e completa l’azione degli Stati membri nei seguenti settori: a) miglioramento, in particolare, dell’ambiente di lavoro, per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori, b) condizioni di lavoro, e) sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori, d) protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro, e) informazione e consultazione dei lavoratori, f) rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro, compresa la cogestione, fatto salvo il par. 5, g) condizioni di impiego dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio della Comunità, h) integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro, fatto salvo l’art. 150, i) parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro ed il trattamento sul lavoro, /’) lotta contro l’esclusione sociale, k) modernizzazione dei regimi di protezione sociale, fatto salvo il disposto della lett. e). Esistono poi materie sulle quali, sempre ai sensi dell’art. 137 del Trattato, è necessaria una deliberazione all’unanimità del Consiglio: sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori (e); protezione dei lavoratori in caso di “risoluzione del rapporto” (d); rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro, compresa la cogestione e fatte salve le politiche comunitarie in materia di formazione professionale (0; condizioni di impiego dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio della Comunità (g).
[458] M. Ricci (a cura di). La sicurezza sul lavoro, cit.; Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza, cit.; Galantino (a cura di), La sicurezza sul lavoro, cit.; Bettini (a cura di), Commentario alla sicurezza sul lavoro, Milano, 1996; Loy (a cura di), La tutela detta salute nei luoghi di lavoro, cit.; Padula, Tutela civile e penale della sicurezza del lavoro, Padova, 2003, 996.
[459] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 85.
[460] Arrigo, La tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori nell’ordinamento comunitario, in F. Carinci (diretto da), Diritto del lavoro. Commentario, VIII, Ambiente e sicurezza del lavoro (a cura di Rusciano e Catullo), Torino, 2007, 5 ss.; Roccella, Treu, Diritto del lavoro della comunità europea, Padova, 2002, 3-33, 265-284; Foglia, L’attuazione giurisprudenziale del diritto comunitario del lavoro, Padova, 2002, 1-47, 287-317; Arrigo, Il diritto del lavoro dell’Unione europea, t, II, Milano, 2001,153-196; M. Ricci (a cura dì), La sicurezza sul lavoro, Bari, 1999; Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza. Per una gestione integrata dei rischi da lavoro, Torino, 1997; Loy (a cura dì) La tutela della salute nei luoghi di lavoro, Padova. 1996.
[461] Avio, Tutela pubblicistica e risarcimento del danno negli infortuni sul lavoro, in Pedrazzoli (a cura di), Danno biologico e oltre, cit., 43 ss.
[462] Natullo, La tutela dell’ambiente di lavoro, cit. 20.
[463] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 87.
[464] Così M. Lai., Diritto della salute e della sicurezza sul lavoro, Torino, Giappichelli, 2010, pag. 6.
[465] Cfr., anche per riferimenti, M. Lai, Flessibilità e sicurezza del lavoro, Torino, 2006, p. 218 ss.
[466] Cfr. A. Trojsi, Competenze legislative e funzioni amministrative sulla «sicurezza del lavoro», in M. Rusciano-G. Natullo (a cura di), Ambiente e sicurezza del lavoro, Commentario di Diritto del lavoro diretto da F. Carinci, vol. VIII, Torino, 2007, p. 44,
[467] Cfr. G. Natullo, Competenze regionali e tecniche giuridiche su standard di prevenzione ed effettività delle tutele normative, in Riv. giur. lav., I, suppl. al n. 2, 2007, pp. 69-70; A. Trojsi, op. cit., p, 45. Cfr. in tal senso lo stesso art. 1, 2° comma, d.lgs. n. 81/2008.
[468] Cfr. in particolare M.V. Ballestrero, Differenze e principio di uguaglianza, in Lav. dir., 2001, p. 429. Sui diritti sociali fondamentali nella prospettiva europea cfr., tra gli altri, P. Loi, La Sicurezza. Diritto e fondamento dei diritti nel rapporto di lavoro, Torino, 2000, p. 223 ss.
[469] A titolo esemplificativo, le aree di intervento delle Regioni e degli altri enti, autonomi territoriali in materia di salute e sicurezza del lavoro, fermo restando l’attuale ambito di operatività della legislazione prevenzionale(17), potranno riguardare la garanzia di un’efficace attività di informazione, consulenza ed assistenza nei confronti delle imprese e dei lavoratori, la previsione di incentivi e di norme premiali nonché un più marcato coordinamento tra tutti gli organi che operano nel campo delle attività di prevenzione e di vigilanza (cfr. al riguardo in particolare l’art. 7, del d.lgs. n. 81/2008).
[470] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 172.
[471] Spagnuolo Vigorita, Responsabilità dell’imprenditore, cit. 440; Montuschi, Diritto alla salute e organizzazione del lavoro, cit. 52.
[472] Natullo, La tutela dell’ambiente di lavoro, cit., 7; cfr. Spagnuolo Vigorita, ult, op. cit., 438.
[473] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 174.
[474] Art. 2 del d. lgs. 81/2008.
[475] Art. 88 ss. del d. lgs. 81/2008.
[476] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 176.
[477] Ferraro, Il datore di lavoro e l’obbligazione di sicurezza: attribuzione di compiti e delegabilità di funzioni nel complessivo quadro dei nuovi adempimenti, cit., 110; Romei, Il campo di applicazione del d.lgs. n. 626/1994 e i soggetti, cit., 76; Basenghi, La ripartizione intersoggettiva degli obblighi prevenzionistici nel nuovo quadro legale, in Galantino (a cura di), La sicurezza sul lavoro, cit., 67-68; cfr. Tampieri, L’applicabilità del decreto legislativo, n. 626/1994 alle pubbliche amministrazioni, ivi, 135.
[478] Cfr. Franco, La responsabilità del datore, cit., 256, Romei, op. cit., 78; Basenghi, op. cit., 69.
[479] Ai sensi dell’art. 1, comma 2°, del d.lgs. n. 165/2001 « Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 ».
[480] Zoppoli, La sicurezza del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza, cit., 94-95; Ferraro, op. cit., 113; Martone, op. cit., 85.
[481] Cass. pen., 23 febbraio 1999, n. 2299, in Igiene sic. lav., 1999, 597, in cui si afferma che tale impostazione è in linea con le nuove disposizioni; cfr. Cass. pen., 29 maggio 2000, ivi, 2000, 545.
[482] Franco, op. cit., 237-238; cfr. Tampieri, op. cit., 135. In giurisprudenza: Cass. pen. 14 aprile 1999, n. 4671, in Igiene sic. lav., 1999, 651, v. anche Cass. pen. 31 marzo 1999, n. 4134, ivi.
[483] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 180.
[484] Secondo una diffusa impostazione, l’art. 2087, data la sua collocazione codicistica, deve ritenersi applicabile solo ai lavoratori subordinati ai sensi dell’art. 2094 cod. civ., compresi quelli a domicilio e i lavoratori domestici: Romei, Il campo di applicazione del d.lgs. n. 626/1994 e i soggetti (artt. 1, 2, 3), in Montuschi (a cura di), Ambiente, salute, sicurezza, cit., 75.
[485] Lai, Flessibilità e sicurezza del lavoro, cit., 9; Ichino, Il contratto di lavoro, II, in Trattato di diritto civile e commerciale Cicu, Messineo, Mengoni, continuato da Schlesinger, Milano, 2003 39; Santoni, La tutela della salute nel lavoro atipico, in Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza, cit., 225.
[486] Cass., sez. IV, 11 febbraio 2004, in Mass. giur. lav., 2005, 504 (con nota adesiva di Palladini, La sicurezza del lavoratore autonomo): « In tema di infortuni sul lavoro, l’obbligo di garantire le condizioni di sicurezza dell’ambiente di lavoro e di fornire le attrezzature idonee e regolamentari grava sull’imprenditore che comunque usufruisca dell’opera di lavoratori anche autonomi e li inserisca nell’organizzazione aziendale ». Contra — e proprio su un versante che dovrebbe destare ancor meno dubbi di inquadramento — v. Cass., sez. lav., 16 luglio 2001, n. 9614 (in Notiz. giurispr. lav., 2001, 722 e in Riv. giur. lav., 2002, II, 488, con nota di Pasquarella, L’art. 2087 c.c. e i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa: un connubio impossibile o difficile?) esclude che l’art. 2087 cod. civ. possa applicarsi ad un collaboratore coordinato e continuativo che lavorava come “saldatore” rimasto coinvolto in un infortunio “per una manovra incongrua dell’operatore addetto ad uno scavatore”.
[487] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 175.
[488] Art. 3, lett. a) direttiva 89/391 CEE: « lavoratore: qualsiasi persona impiegata da un datore di lavoro, compresi i tirocinanti, gli apprendisti, ad esclusione dei domestici ».
[489] In base agli artt. 1 e 3, comma 1°, d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 il lavoratore era definito come “colui che fuori del proprio domicilio presta il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione altrui, con o senza retribuzione, anche al solo scopo di apprendere un mestiere, un’arte, una professione”; era stabilita inoltre l’equiparazione al lavoratore subordinato delle seguenti figure: a) i soci di società e di enti
in genere cooperativi, anche, di fatto, che prestino la loro attività per conto delle società e degli enti stessi; b) gli allievi degli istituti di istruzione e di laboratori scuola nei quali si faccia uso di macchine, attrezzature, utensili ed apparecchi in genere (art. 3, comma 2°, d.P.R. n. 547/1955).
In base all’art. 2 e 1 lett. a) d.lgs. n. 626/1994 doveva intendersi per lavoratore « la persona che presta il proprio lavoro alle dipendenze di un datore di lavoro, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari, con rapporto di lavoro subordinato anche speciale ». La medesima disposizione conteneva una nutrita serie di equiparazioni alla definizione di lavoratore, più estesa di quella contenuta nella legislazione precedente: 1) soci lavoratori di cooperative o di società anche di fatto, che prestino la loro attività per conto delle società e degli enti stessi; 2) utenti dei servizi di orientamento o di formazione scolastica, universitaria e professionale, avviati presso datori di lavoro per agevolare o per perfezionare, le loro scelte professionali; 3) allievi di istituti di istruzione ed universitari, partecipanti a corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, macchine, apparecchi ed attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici.
Sulla previgente legislazione: Basenghi, La ripartizione intersoggettiva degli obblighi prevenzionistici nel nuovo quadro legale, in Galantino (a cura di), La sicurezza sul lavoro, cit.,.83; Romei, op. cit., 75, Franco, ult. op. cit., 255, Culotta, Di Lecce, Costagliola, op. cit., 53.
[490] Fra i primi commenti al decreto del 2008 v. Tiraboschi (a cura di), II testo unico della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, cit.; Pascucci, Dopo la legge n. 123 del 2007. Prime osservazioni sul titolo I del decreto legislativo n. 81 del 2008 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, cit.
[491] Montuschi, I principi generali del d.lgs. n. 626 del 1994 (e le successive modifiche), in Montuschi (a cura di), Ambiente, salute, sicurezza, cit., 58; Romei, Il campo di applicazione del d.lgs. n. 626 del 1994 e i soggetti (artt. 1, 2, 3), ivi, 72; Ferraro, Il datore di lavoro e l’obbligazione dì sicurezza: attribuzione di compiti e delegabilità di funzioni nel complessivo quadro dei nuovi adempimenti, ivi, 115; Martone, Campo di applicazione, in Bettini (a cura di), Commentario alla sicurezza sul lavoro, cit., 73; Franco, La responsabilità del datore e del prestatore di lavoro in materia di sicurezza nel d.leg. 19 settembre 1994 n. 626 (e successive modificazioni), cit., 253; Ferraro e Lamberti, La sicurezza sul lavoro nel decreto legislativo attuativo delle direttive Cee, in Riv. giur. lav.. 1995, I, 35 ss.
[492] Per l’ampia letteratura sull’art. 2087 c.c., si rinvia a P. Albi, sub art. 2087 c.c., in M. Grandi-G. Pera (a cura di), Commentario breve alle leggi sul lavoro, Padova, 2009, p. 418 ss.; G. Natullo, La tutela dell’ambiente di lavoro, Torino, 1995, pp. 3-4; L. Montuschi, L’incerto cammino della sicurezza del lavoro fra esigenze di tutela, onerosità e disordine normativo, in Riv. giur. lav., 2001, p. 501 ss.
[493] Per un esame delle diverse posizioni della dottrina: M. Lai, La sicurezza del lavoro tra legge e contrattazione collettiva, Torino, 2002, p. 2 ss.
[494] Cfr. in particolare C. Smuraglia, La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale, III ed., Milano, 1974, p. 78 ss.
[495] Così L. Spagnuolo Vigorita, Responsabilità dell’imprenditore, in Nuovo trattato di diritto del lavoro (diretto da L. Riva Sanseverino-G. Mazzoni), II, Padova, 1971, p. 448. La natura contrattuale della responsabilità derivante dall’art. 2087 c.c. è da tempo principio affermato in giurisprudenza; cfr., tra le altre, Cass., 23 aprile 2008, n. 10.529, in Riv. it. dir. lav., 2008, II, p. 795 ss., con nota di V. Pasquarella; Cass., 7 gennaio 2009, n. 45, in Riv. giur. lav., 2009, II, p. 342, con nota di S. Varva.
[496] Cfr. in tal senso L. Montuschi, L’incerto cammino della sicurezza del lavoro, cit., p. 502.
[497] Così M. Lai, Diritto della salute e della sicurezza sul lavoro, Torino, Giappichelli, 2010, pag. 8.
[498] Così M. Lai, Diritto della salute e della sicurezza sul lavoro, Torino, Giappichelli, 2010, pag. 9.
[499] Sono tuttora attuali le considerazioni di L. Riva Sanseverino, Debito di sicurezza e funzioni dell’Enpi, in Prev. infort., 1956, secondo la quale «la garanzia di sicurezza (posta dall’art. 2087 c.c.), la quale fa parte delle responsabilità inerenti all’esercizio dell’impresa, si concreta e si specifica poi nei riguardi del prestatore di lavoro titolare del relativo contratto; il contratto di lavoro rappresenta quindi, non tanto la fonte dell’obbligo, quanto la condizione necessaria perché l’obbligo divenga effettivo».
[500] Così L. Montuschi, L’incerto cammino della sicurezza del lavoro, cit., p. 525.
[501] Per una puntuale ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenziale volta ad estendere la tutela antinfortunistica «a tutti gli addetti, “anche solo di fatto”, a una data attività lavorativa, prescindendo dalle modalità di assunzione al lavoro e dall’eventuale mancato perfezionamento del contratto», cfr. Cass., 22 marzo 2002, n. 4129, in Riv. giur. lav., 2003, II, p. 312 con nota di G. Gaeta. Più in generale cfr. L. Fantini, Tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro: orientamenti giurisprudenziali, in Dir. rel. ind., 2004, p. 131 ss. È d’altro lato da segnalare che la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, ex art. 2087 c.c., può concorrere con la sua stessa responsabilità extracontrattuale, fondata sul generale obbligo di neminem laedere espresso dall’art. 2043 ce, qualora dalla medesima violazione sia derivata anche la lesione di diritti che spettano al lavoratore in quanto persona, indipendentemente dal rapporto di lavoro; cfr. in tal senso, Cass., 8 maggio 2007, n. 10441, in Riv. it. dir. lav., 2008, II, p. 571, con nota di G. Cannati. L’obbligo del datore di lavoro di tutelate la sicurezza di chiunque si trovi, per qualsiasi ragione, ad operare (non illegalmente) nell’ambiente lavorativo, ivi compresi i terzi, è pacificamente affermato in sede penale; cfr., tra le altre Cass. pen., 1° agosto 2008, in c. Lenzi e altra, in ISL, 2008, p. 663; Cass. pen., 25 marzo 2009, in e. Collivignarelli e altri, in DPL, 2009, p. 966; per ulteriori riferimenti cfr. R. Guariniello, Il T. U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, Milano, 2009, p. 76 ss.
[502] Si pensi a quanto disposto dall’art. 26, d.lgs. n. 81/2008, in materia di lavoro in appalto.
[503] Natullo, La tutela dell’ambiente di lavoro, cit., 23; Montuschi, La Corte costituzionale e gli standard di sicurezza del lavoro, in Arg. dir. lav., 2006, 3 ss., partic. 13; Bertocco, La tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, in F. Carinci (diretto da), Diritto del lavoro. Commentario, cit., II, t. 1, 969.
[504] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 212.
[505] Natullo, La tutela dell’ambiente di lavoro, cit., 24-25
[506] Bertocco, La tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, cit., 970.
[507] L’art. 4 d.lgs. n. 626/1994 prevedeva che « il datore di lavoro in relazione alla natura dell’attività dell’azienda ovvero dell’unità produttiva valuta tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, anche nella scelta delle attrezzature, delle sostanze o dei preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro » L’espressione “tutti i rischi” era stata introdotta dall’art. 21 n. 39/2002 in sostituzione della precedente definizione che appariva determinare, secondo l’intendimento della Corte di Giustizia, una minore intensità dell’obbligo gravante sul datore di lavoro (CGCE, 15 novembre 2001, cit.).
[508] Secondo il paragrafo 3 dell’accordo quadro « Lo stress è uno stato, che si accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali ed che consegue dal fatto che le persone non si sentono in grado di superare i gap rispetto alle richieste o alle attese nei loro confronti. L’individuo è capace di reagire alle pressioni a cui è sottoposto nel breve termine, e queste possono essere considerate positive (per Io sviluppo dell’individuo stesso — ndt), ma di fronte ad una esposizione prolungata a forti pressioni egli avverte grosse difficoltà di reazione. Inoltre, persone diverse possono reagire in modo diverso a situazioni simili e una stessa persona può, in momenti diversi della propria vita, reagire in maniera diversa a situazioni simili. Lo stress non è una malattia ma una esposizione prolungata allo stress può ridurre l’efficienza sul lavoro e causare problemi di salute. Lo stress indotto da fattori esterni all’ambiente di lavoro può condurre a cambiamenti nel comportamento e ridurre l’efficienza sul lavoro. Tutte le manifestazioni di stress sul lavoro non vanno considerate causate dal lavoro stesso. Lo stress da lavoro può essere causato da vari fattori quali il contenuto e l’organizzazione del lavoro, l’ambiente di lavoro, una comunicazione “povera”, ecc ». Il paragrafo 5 dell’accordo prevede che « tutti i datori di lavoro sono obbligati per legge a tutelare la sicurezza e la salute dei lavoratori. Questo dovere riguarda anche i problemi di stress da lavoro in quanto costituiscono un rischio per la salute e la sicurezza ». Il paragrafo 6 dell’accordo individua, in chiave esemplificativa, una serie di misure che possono essere adottate dal datore di lavoro per prevenire, eliminare o ridurre i problemi legati allo stress: le misure di gestione e di comunicazione in grado di chiarire gli obiettivi aziendali e il ruolo di ciascun lavoratore, di assicurare un sostegno adeguato da parte della direzione ai singoli individui e ai team di lavoro, di portare a coerenza responsabilità e controllo sul lavoro, di migliorare l’organizzazione, i processi, le condizioni e l’ambiente di lavoro; la formazione dei dirigenti e dei lavoratori per migliorare la loro consapevolezza e la loro comprensione nei confronti dello stress, delle sue possibili cause e del modo in cui affrontarlo, e/o per adattarsi al cambiamenti; l’informazione e la consultazione dei lavoratori e/o dei loro rappresentanti, in conformità alla legislazione europea e nazionale, ai contratti collettivi e alle prassi.
[509] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 214.
[510] In base all’art. 29 del d.lgs. n. 81/2008 la valutazione dei rischi deve essere effettuata in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e previa consultazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza; la partecipazione del medico competente alla fase di valutazione è invece prevista solo nei casi in cui sia obbligatoria la sorveglianza sanitaria. Una volta effettuata la valutazione dei rischi il datore di lavoro è tenuto a formalizzarne il risultato nel documento di valutazione dei rischi. Vi è l’obbligo di custodire tale documento presso l’azienda o l’unità produttiva e quello di rielaborare la valutazione dei rischi e di redigere il conseguente documento in caso di modifiche del processo produttivo che siano significative per la sicurezza sul lavoro o in relazione « al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità.
Gli artt. 17, comma 1°, lett. a) e 28 del d.lgs. n. 81/2008 nonché le altre disposizioni i tema di valutazione dei rischi che ad esse rinviano, entreranno in vigore del 1° gennaio 2009 (art. 4, comma 2°-bis d.l. 3 giugno 2008, conv. in 1. 2 agosto 2008 n. 129)
[511] Gragnani, Il principio di precauzione come modello di tutela dell’ambiente, dell’uomo, delle generazioni future, in Riv. dir. civ., 2003, I, 9 ss.
[512] Montuschi, Verso il testo unico sulla sicurezza del lavoro, in Pascucci (a cura di), Il testo unico della sicurezza sul lavoro, cit., 27 ss., in relazione al disegno di legge delega; cfr. Pascucci, Dopo la legge n. 123 del 2007, cit., 28-30.
[513] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 215.
[514] L’art. 6 della direttiva 89/391 CEE, al paragrafo 2 definisce come tali i principi generali di prevenzione. Fra le misure generali di tutela spicca quella contemplata dalla lett. e) dell’art. 15 del decreto: “l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico”.
[515] Romei, Il campo di applicazione del d.lgs. n. 626 del 1994 e i soggetti (arti 1, 2, 3), in Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza, cit., 67; Culotta, Di Lecce, Costagliola, Prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro, cit., 149; Galantina, Il contenuto dell’obbligo di sicurezza, cit., 22 ss.; M. Ricci, Alcune osservazioni introduttive in materia di sicurezza sul lavoro, cit., 20 ss.
[516] Si consideri in particolare che la valutazione dei rischi deve essere aggiornata « in occasione di modifiche del processo produttivo o dell’organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e della sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione e della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità » (art. 29, comma 3).
[517] Balandi, Il contenuto dell’obbligo di sicurezza, cit., 77 ss.; Natullo, La tutela dell’ambiente di lavoro, cit., 69 ss.; Lai, La sicurezza sul lavoro fra legge e contrattazione collettiva, cit., 18 ss.
[518] Cfr. Marino, La minimizzazione del rischio sui luoghi di lavoro nell’interpretazione della Corte costituzionale, in Riv. it. dir. lav., 1997, II, 21 ss.; Guariniello, Il principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile, Milano, 1997, 339 ss.
[519] Sul quale v. Montuschi, La corte costituzionale e gli standard di sicurezza sul lavoro, cit., 3 ss.; Natullo, Principi generali di prevenzione e “confini” dell’obbligo di sicurezza, in F. Carinci (diretto da), Diritto del lavoro. Commentario, cit., VIII, 79 ss.
[520] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 219.
[521] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 220.
[522] Cass., sez. lav., 12 luglio 2004, n. 12863, in Foro it., Rep., 2004, v. Lavoro (rapporto), n. 1412; Cass., sez. lav., 1° giugno 2004, n. 10510, in Foro it., Rep., 2004, v. Lavoro (rapporto), n. 1413; Cass., sez. lav., 10 maggio 2000, n. 6018, in Orient. giur. lav., 2000, I, 411; Cass., sez. lav., 2 giugno 1998, n. 5409, in Riv. it. dir. lav., 1999, II, 337, con nota di Monaco, Sui confini mobili dell’inadempimento dell’obbligo di sicurezza.
[523] Luminoso, Della risoluzione per inadempimento, cit., 12; Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, cit., 80 ss., 246 ss.
[524] Sul punto si vedano le valutazioni critiche di Bigliazzi Geri, Interessi emergenti, tutela risarcitoria e nozione di danno, cit., 29 ss.
[525] Di Majo, Delle obbligazioni in generale, cit., 249.
[526] Bigliazzi Geri, Interessi emergenti, cit., 1996, 41.
[527] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 247.
[528] Ghera, Le sanzioni civili nella tutela del lavoro subordinato, in AA.VV., Le sanzioni nella tutela del lavoro subordinato, Atti a.i.d.la.s.s. del VI Congresso nazionale di diritto del lavoro, Alba, 1-3 giugno 1978, Milano, 1979, 28 ss.
[529] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 248.
[530] Sul tema dei diritti inviolabili del lavoratore v. Avio, I diritti inviolabili nel rapporto di lavoro, Milano, 2001.
[531] Ogni effetto giuridico ed ogni forma di tutela giuridica sono il risultato di una valutazione comparativa tra due interessi contrapposti: Scalisi, Ingiustizia del danno e analitica della responsabilità civile, in Riv. dir. civ., 2004, 50; Falzea, L’atto negoziale nel sistema dei comportamenti giuridici, in Riv. dir. civ., 1996, I, 29 ss.
[532] Sul presupposto che la buona fede “non si colloca né oltre la legge né — tanto meno — contro la legge” essendo “espressione del diritto positivo” e, al tempo stesso, “rivolta al superamento del positivismo”, ponendosi come “norma-ponte per il raccordo con i principi esprimenti i valori fondanti del sistema e in particolare con i principi costituzionali”: Busnelli, Note in tema di buona fede ed equità, cit., 555-556.
[533] Bigliazzi Geri, L’interpretazione del contratto, in Il Codice Civile. Commentario, diretto da Schlesinger, Milano, 1991, 208 ss.
[534] Così Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, cit. 3, 22-23.
[535] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 265.
[536] Tampieri, Sicurezza sul lavoro e modelli di rappresentanza, cit., 151 ss.; Cagetti, sub art. 19 d.lgs. n. 626/1994, in Grandi, Pera (a cura di), Commentario breve alle leggi sul lavoro, cit., 1274-1275; in giurisprudenza v. Cass., sez. lav., 9 ottobre 1997, n. 9808, in Riv. giur. lav., 1998, II, 375, con nota di Frontini, Diritto soggettivo e dimensione collettiva nella tutela della salute del lavoratore, cit.
[537] Cass., sez. lav., 9 ottobre 1997, n. 9808, cit.
[538] Cfr. Mazzotta, Le “rappresentanze” a tutela della salute fra Statuto dei lavoratori e riforma sanitaria, in Foro it., 1980, I, 2998; Suppiej, Il diritto dei lavoratori alla salubrità dell’ambiente di lavoro, cit., 448-449; Treu, voce Statuto dei lavoratori, in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, 1056; Balandi, Individuale e collettivo nella tutela della salute nei luoghi di lavoro: l’art. 9 dello statuto, cit., 219 ss.; Renga, Modello sindacale di tutela della salute nei luoghi di lavoro dal dopoguerra agli anni novanta, in Lav. dir., 1994, 615; contra: Zangari, Rappresentanze dei lavoratori e tutela della salute, in Dir. lav., 1973,1, 196. In giurisprudenza: Cass., sez. lav., 9 ottobre 1997, n. 9808, cit., afferma che dall’art. 9 Stat. lav. discende « il potere di azione in giudizio delle suddette rappresentanze, quali organi preposti al controllo e alla promozione precisati dalla norma in esame, a tutela dell’interesse della collettività dei lavoratori occupati nell’azienda »; Cass., 21 aprile 1989, in Notiz. giurispr. lav., 1989, 739; Cass., 21 maggio 1988, in Mass. giur. lav., 1989, 254; in tali due ultime decisioni si precisa che le rappresentanze ex art. 9 cit. sono lo « strumento attraverso cui la collettività dei lavoratori di ciascuna azienda, in quanto titolare del diritto previsto dall’art. 9 e, perciò, unica legittimata ad causam, esercita e fa valere in giudizio il diritto stesso ».
[539] Montuschi, Diritto alla salute e organizzazione del lavoro, cit., 155; cfr., Balducci, La salute in fabbrica: tutela giudiziaria e autotutela sindacale, in Riv. giur. lav., 1977, I, 71 ss.
[540] Vecchi, L’eccezione di inadempimento, in Mazzamuto (a cura di) Il contratto e le tutele, cit., 378 ss.; Bianca, Diritto civile, 5, La responsabilità, cit., 329 ss.; Bigliazzi GerI, voce Eccezione d’inadempimento, in Dig. disc, priv., sez. civ., VII, Torino, 1991, 331.
[541] Bianca, Diritto civile, 5, La responsabilità, cit., 339.
[542] Bianca, ult. op. cit., 341 ss.
[543] Bianca, ult. op. cit., 344: « L’interesse del creditore tutelato con l’eccezione di inadempimento si specifica come interesse a non privarsi della prestazione senza avere il vantaggio della controprestazione cioè a non essere messo in una situazione di diseguaglianza rispetto alla controparte ».
[544] Bianca, ibidem.
[545] Così invece Auletta, La risoluzione per inadempimento, Milano, 1942, 300 ss.
[546] In tal senso si esprimono invece: Dalmartello, voce Eccezione di inadempimento, in Noviss. dig. it., VI, Torino, 1960, 356; Realmonte, voce Eccezione di inadempimento, in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, 238; Persico, L’eccezione di inadempimento, Milano, 1955, 160 ss.
[547] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 267.
[548] Così P. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, Milano, Giuffrè, 2008, pag. 268.
[549] Cass., sez. lav., 16 maggio 2006, n. 11430, in Foro il, Rep., 2006, v. Contratto in genere, n. 635.
[550] Cass., sez. lav., 7 novembre 2005, n. 21479, in Dir. lav., 2006, li, 155 ss., con nota di Girolami, Violazione dell’obbligo di sicurezza e astensione dal lavoro e 165 ss., con nota di Carnovale Eccezione di inadempimento dell’obbligo di sicurezza; in Lav. giur., 2006, 1195, con nota di Consoli, La legittima astensione dal lavoro in condizioni di non soddisfacente sicurezza: qualificazione e fondamento giuridico; Cass., sez. lav., 9 maggio 2005, n. 9576, in Orient. giur. lav., 2005, 1, 401; in Notiz. giurispr. lav., 2005, 615.
[551] Ferrante, Potere e autotutela nel contratto di lavoro subordinato, cit., 348
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