Interesse legittimo e sindacato giurisdizionale sui provvedimenti discrezionali

Interesse legittimo e sindacato giurisdizionale sui provvedimenti discrezionali

Il moderno diritto amministrativo nasce con l’evoluzione del concetto di interesse legittimo. Emblematico in tal senso il “che si arrenda!” di manciniana memoria. Inizialmente, non vi era parità tra l’interesse del privato al conseguimento di un bene della vita e l’interesse pubblico. Quest’ultimo era sempre ed in ogni caso prevalente. L’unica opzione finalizzata alla tutela dell’interesse legittimo era caratterizzata dal rimedio caducatorio, ossia dall’impugnazione dell’atto lesivo.

Negli anni la dottrina ha teorizzato differentemente l’interesse legittimo. Si è infatti passati dalla teoria dell’interesse occasionalmente protetto alla moderna teoria normativa di Nigro, che oggi costituisce l’impostazione maggioritaria in sede dottrinale. Secondo tale elaborazione l’interesse legittimo può definirsi come la posizione giuridica soggettiva riconosciuta ai privati, in virtù della quale essi possono incidere sull’attività amministrativa condizionandola, anche in sede di partecipazione al procedimento, al fine di tutelare un bene pertinente con la loro particolare sfera di interessi.  Dunque, al pari del diritto soggettivo, l’interesse legittimo si sostanzia nella pretesa al conseguimento di un bene della vita. Tale pretesa è mediata dal necessario esercizio del potere amministrativo. Al pari del diritto di credito, dunque, è necessaria la mediazione cooperativa di un altro soggetto, nel caso di specie l’Autorità Pubblica. Secondo autorevole dottrina, argomentando sulla base di tale parallelismo, è possibile evidenziare la dimensione relazionale del moderno interesse legittimo che si inscrive nel rapporto giuridico amministrativo.

La rivoluzione copernicana di una siffatta concezione di tale posizione giuridica soggettiva ha prodotto conseguenze anche in rapporto all’oggetto del processo amministrativo. Se, infatti, coerentemente alla precedente nozione, il provvedimento amministrativo ed i relativi vizi costituivano l’oggetto del sindacato giurisdizionale in quanto l’unico scopo era il ripristino della legalità formale eventualmente violata dall’atto illegittimo, alla luce della moderna concezione di interesse, oggetto del giudizio è la fondatezza della pretesa della parte ricorrente. Dunque, si tratta di un giudizio di spettanza sul rapporto. Conseguentemente, non vi è più un modello di giurisdizione oggettiva che persegue esclusivamente l’interesse alla legalità imperniato su un processo il cui unico esito è la caducazione dell’atto viziato. Vi è, invece, un processo caratterizzato dalla parità delle parti che mira all’attribuzione del bene della vita alla parte ricorrente.

La coerenza rispetto a tale impostazione è garantita da una serie di corollari, logiche conseguenze della mutata concezione della posizione giuridica soggettiva in esame. In primo luogo, non è più sufficiente la predisposizione di pronunce tipiche, id est l’annullamento retroattivo del provvedimento impugnato. Il Giudice amministrativo, dominus della sentenza, in relazione al caso concreto adotta tutte le pronunce necessarie all’attribuzione del bene della vita. Dunque, potrà emanare sentenze costitutive, di condanna privatistica, di accertamento ecc. Una tale impostazione è coerente, altresì, con il sistema di civil law caratterizzato dal brocardo latino “ubi ius ibi remedium” e in base al quale la possibilità di far valere in giudizio una pretesa è diretta conseguenza del riconoscimento da parte dell’ordinamento di un determinato diritto. Ulteriore conseguenza, si rinviene nella c.d. sentenza di annullamento a geometrie variabili. Poiché il fine che si persegue è quello della massima satisfattività, il giudice non è obbligato all’annullamento retroattivo – che è frutto di una prassi e non di un esplicito richiamo normativo – ma potrà decidere di annullare il provvedimento in modo tale da non provocare inutili lesioni dell’interesse per cui si agisce. Si pensi al caso di un regolamento regionale che apporti misure di prevenzione in materia faunistica. Ove si annullasse ex tunc il suddetto regolamento per insufficienza delle misure predisposte, si produrrebbe un vulnus maggiore alla categoria protetta in quanto nelle more del ri-esercizio del potere risulterebbe sprovvista di tutela. Dunque, anche la tutela tipica dell’annullamento diviene atipica. Ciò per due ordini di ragioni. In primo luogo perché, come appena esposto, non è più indefettibilmente retroattiva e in, secondo luogo, perché non ogni vizio produce automaticamente l’annullamento del provvedimento. Se, infatti, non si persegue il mero interesse alla legalità formale, allora, ogniqualvolta volte emerga che mediante la caducazione dell’atto non si otterrebbe comunque il conseguimento del bene della vita, l’annullamento sarebbe inutile ai fini del nuovo processo amministrativo. Tale soluzione sembra essere confortata anche da recenti riforme intervenute in materia di procedimento. Ai sensi dell’art. 21-octies, qualora risulti che, benché affetto da vizi formali, il provvedimento non sarebbe stato diverso da quello effettivamente emanato, non potrà dichiararsi l’annullamento. Coerentemente alla descritta atipicità, anche in ambito probatorio si assiste al passaggio dal modello acquisitivo con tipicità dei mezzi di prova al modello dispositivo temperato con atipicità dei mezzi di prova. Il ricorrente potrà produrre ogni mezzo idoneo a provare la fondatezza della propria pretesa ed il giudice, qualora emergano oggettive difficoltà alla reperibilità di un determinato elemento poiché in possesso della P.A., potrà intervenire ordinandone l’acquisizione.  Anche la tutela cautelare, come nel processo civile ai sensi dell’art. 700 cpc, diventa atipica. Per evitare, infatti, che si vanifichi l’effetto attributivo della pronuncia, si appresta la tutela cautelare.

Alla luce di quanto sin ora affermato, è possibile affrontare la tematica relativa all’ampiezza del sindacato del giudice ammnistrativo in materia di provvedimenti discrezionali.

Occorre premettere che si suole distinguere la discrezionalità tecnica dalla discrezionalità amministrativa dovendosi intendere per tale la facoltà di scelta della pubblica amministrazione tra più comportamenti giuridicamente leciti per il soddisfacimento dell’interesse pubblico e per il perseguimento di un fine rispondente alla causa del potere esercitato. Il potere amministrativo, infatti, non è libero nei fini che sono stabiliti dalla legge la quale può, nell’attribuzione del potre medesimo, lasciare ampi spazi alla pubblica amministrazione per il conseguimento degli stessi.

Ciò che si osserva nell’ambito della discrezionalità amministrativa è la ponderazione di più interessi secondari in ordine ad un interesse primario al fine di raggiungere l’obiettivo indicato dal legislatore con il minor sacrificio di tutte le altre posizioni anche mediatamente connesse. La caratteristica della discrezionalità in esame è la coesistenza del momento del giudizio e della scelta. Segnatamente, il giudizio consiste nell’individuazione ed analisi delle circostanze fattuali sulla base di un’apposita istruttoria mentre la scelta si sostanzia nell’adozione della soluzione ritenuta più opportuna alla luce delle valutazioni svolte. L’oggetto di tale discrezionalità può riguardare l’an del provvedimento ovvero nel dato temporale circa adozione del medesimo nonché nel quomodo, ossia le modalità di adozione o di caratterizzazione e nel quid inteso come decisione circa un elemento caratterizzante del provvedimento medesimo. Tendenzialmente si suole sostenere che non vi sia contestualità di dette circostanze che ricorreranno singolarmente. Tuttavia, ove si presentino contemporaneamente per il medesimo provvedimento, occorre sottolineare che l’attività discrezionale si connota sempre per l’assoggettamento al vincolo funzionale legislativamente predeterminato. In caso di assenza di tale limite, non si tratterà più di attività amministrativa discrezionale, ma di attività politica la quale è libera nei fini.

Nell’ambito dell’attività discrezionale si è soliti contrapporre il concetto di legittimità e quello di merito. Quanto alla legittimità, si ritiene che questa si sostanzi nella conformità del provvedimento alle regole giuridiche che disciplinano l’esercizio del potere e la cui violazione rende l’atto affetto da vizio di legittimità, sindacabile dall’autorità giudiziaria. Il merito, invece, attiene alla conformità delle scelte discrezionali alle regole metagiuridiche di buona amministrazione e rappresenta la fase più intensa di ponderazione degli interessi. Inoltre, coincide con quella parte dell’atto o dell’attività amministrativa che non è disciplinata in modo espresso e diretto dalle norme, indicando la corrispondenza tra il contenuto dell’atto ed il risultato cui lo stesso deve pervenire alla stregua di regole di opportunità e di buona amministrazione. La violazione di tali regole, pertanto, è sindacabile solo in caso di giurisdizione estesa al merito, ai sensi dell’art. 134 cpa. Le valutazioni di merito rappresentano l’ambito in cui le scelte della pubblica amministrazione sono sottratte ad un sindacato intrinseco da parte dell’autorità giudiziaria. Al fine di consentire al giudice amministrativo di verificare il rispetto dei parametri di legittimità, il sindacato de quo ha natura estrinseca. Tuttavia si rileva come l’area di insindacabilità delle valutazioni amministrative ha registrato una contrazione per l’effetto della codificazione ad opera della legge sul procedimento di concetti metagiuridici come i principi di economicità ed efficacia. Ne consegue che la relativa violazione renderà l’atto invalido per violazione di legge.

Il potere del giudice amministrativo di conoscere la fondatezza della pretesa del privato e di effettuare un sindacato sul rapporto e non sull’atto è limitato ai soli casi di attività vincolata. Si è sostenuto che vi sia una chiara distinzione tra le tecniche di tutela predisposte per l’attività vincolata rispetto a quelle individuate per l’attività discrezionale. Nel primo caso, il sindacato giurisdizionale investe il rapporto al fine di verificare la fondatezza della pretesa della parte ricorrente. Nel secondo caso, invece, fatto salvo il successivo ri-esercizio del potere, il provvedimento resta oggetto del processo volto alla demolizione dell’atto. Tuttavia, ciò contrasterebbe con la concezione moderna di interesse legittimo. Occorre allora verificare se sussista un limite al ri-esercizio del potere da parte della pubblica amministrazione, esaurito il quale il giudice possa attribuire egli stesso il bene della vita alla parte ricorrente. Sul punto si sono sviluppati due orientamenti i quali tendono, sul piano processuale, a porre un limite alla facoltà dell’autorità pubblica di esercitare nuovamente il potere. Il primo orientamento, avallato anche dall’Adunanza Plenaria n.2 del 2013, sostiene che l’azione di annullamento recherebbe in sé una componente sinergica rispetto al giudizio di ottemperanza. Il giudice dell’ottemperanza, secondo tale impostazione, può essere adito non solo in caso di mancata attuazione del dictum della sentenza di annullamento, ma anche nel caso in cui, successivamente all’annullamento medesimo, la pubblica amministrazione resistente adotti un provvedimento illegittimo di attuazione del giudicato. In base al secondo orientamento, invece, sulla scorta del c.d. giudicato a formazione progressiva, il giudice dell’ottemperanza deve conoscere di tutti gli atti successivi in modo da poter stabilire se il dictum sia stato attuato in modo corretto. Si avrebbe, dunque, attuazione illegittima anche ove questa avvenga in modo non conforme. Si è sostenuto che l’illegittimità del giudicato non possa essere equiparata all’illegittima originaria dell’atto oggetto dell’azione di annullamento perché pone in essere la trasgressione di quel particolare dovere che si impone dopo l’attuazione del giudicato. Se si seguisse questa tesi, si potrebbe allora ritenere che per i provvedimenti discrezionale il giudizio sul rapporto è bifasico in quanto il giudicato sul rapporto diventa definitivo con la decisione che verifica la legittimità del provvedimento adottato in attuazione del dictum. La giurisprudenza maggioritaria prospetta una differente soluzione insita nel porre un limite al riesercizio del potere. La normativa processuale, sia pur implicitamente, fa salvo per i provvedimenti discrezionali il successivo esercizio del potere. Successivamente al primo giudicato, la pubblica amministrazione dispone ancora di detto potere. Tuttavia, se anche il secondo provvedimento è illegittimo allora tale potere si esaurirà ed il successivo provvedimento sarà adottato in carenza di potere e dunque potrà chiedersi al giudice l’attribuzione del bene della vita.

Sul punto non vi è unanimità di vedute ed il dibattito non h ancora condotto ad una conclusione trasversalmente condivisa.


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