Interessi di mora e usura
La trattazione degli interessi moratori impone una preventiva disamina della disciplina generale delle obbligazioni di interessi al fine di cogliere le caratteristiche, la funzione e, al contempo, gli aspetti che differenziano la suddetta categoria dagli interessi remuneratori ed, in particolare, da quelli corrispettivi e compensativi. Da un’attenta analisi condotta sulla natura e sulle fonti degli interessi, è dato scorgere lo stretto legame che intercorre fra essi e il fenomeno dell’usura, espressamente riconosciuto nel nostro sistema e disciplinato sia in ambito penalistico, sia in ambito civilistico.
Venendo ora all’esame, nello specifico, delle obbligazioni di interessi l’aspetto che, per primo viene in rilievo, è l’assenza, nel codice civile vigente, di una definizione chiara e precisa di interessi. Tuttavia, nonostante il silenzio del legislatore sul punto, una definizione di essi è ricavabile dall’art. 1282 del Codice Civile rubricato “Interessi nelle obbligazioni pecuniarie”.
Da una lettura testuale della norma de qua, si evince come gli interessi rappresentino il contenuto della prestazione oggetto di un’obbligazione accessoria ad altra di cose fungibili e della stessa specie.
Così argomentando, si evince come l’obbligazione di cui si discorre si caratterizzi per essere fungibile ed omogenea, posto che gli interessi consistono in una quantità di cose appartenenti al medesimo genus di quelle oggetto dell’obbligazione principale ed accessoria, poiché l’obbligo di corrispondere gli interessi sorge a fronte di un’obbligazione pecuniaria principale, avente ad oggetto una somma di denaro, quale bene fertile e fungibile per eccellenza, e rispetto alla quale gli interessi costituiscono i frutti civili. Ebbene, procedendo in questo senso, l’accessorietà viene intesa come accessorietà originaria distinta dall’accessorietà funzionale.
Propri dell’obbligazione di interessi sono, altresì, i caratteri della proporzionalità e della periodicità, rispettivamente intesi come la determinazione degli interessi in relazione all’ammontare del capitale, mediante l’applicazione di un tasso o saggio, che tenga conto anche del decorso del tempo entro il quale gli stessi maturano.
Chiarite la caratteristiche della prestazione cui è tenuto il contraente debole del rapporto obbligatorio, è possibile distinguere gli interessi in base alla loro funzione.
In passato, prevalente era la tesi che classificava gli interessi in corrispettivi, compensativi e moratori. A siffatta impostazione, ha fatto seguito la tesi, oggi maggiormente accolta dalla giurisprudenza, secondo cui gli interessi sono di soli due tipi e, cioè, remuneratori e risarcitori.
In virtù della suddetta bipartizione, rientrerebbero nella macro categoria degli interessi remuneratori sia quelli corrispettivi, sia quelli compensativi.
In ordine ai primi, la funzione da essi assolta andrebbe ricercata nella volontà di corrispondere al titolare di una somma di denaro, data in prestito ad altri, un guadagno a fronte dell’utilizzo e del godimento che terzi fanno del bene medesimo, così da ristabilire l’equilibrio economico fra le parti. Tipico è il caso di una somma di denaro concessa da una banca, a titolo di mutuo, ad un privato.
Di contro, con riferimento agli interessi compensativi, occorre sottolineare come questi abbiano una valenza equitativa e, cioè, abbiano la funzione di compensare il titolare di un credito liquido, ma non ancora esigibile che, come tale, versa in una condizione di sacrificio a fronte del vantaggio di altri.
Classico è il caso disciplinato all’art. 1499 c.c. in virtù del quale, allorquando il venditore abbia materialmente consegnato il bene, oggetto della vendita, al compratore senza riscuotere il corrispettivo in denaro, sul prezzo ab origine pattuito ma non ancora esigibile maturano gli interessi.
In entrambi i casi, a nulla rileva un’eventuale ritardo, da parte del debitore, nell’adempimento della prestazione posto che la ratio degli interessi testé richiamati prescinde da qualsivoglia atto di costituzione in mora del soggetto obbligato.
Ebbene, il ritardo nell’adempimento della prestazione costituisce, al contrario, il presupposto indefettibile affinché si producano, sul capitale, interessi moratori ex art. 1224 c.c.
Orbene, essi assolvono una funzione meramente risarcitoria nei confronti e nell’interesse di chi, a causa della mora del debitore, ha visto non soddisfatta la propria pretesa creditoria entro il termine stabilito.
Per tali motivi, l’ordinamento accorda una forma di tutela al creditore che si sostanzia nella liquidazione forfettaria del danno cagionato da ritardo nelle obbligazioni pecuniarie.
Gli interessi moratori maturano a partire dal giorno della mora anche se, in precedenza, le parti nulla avessero pattuito in merito e a prescindere da qualsiasi prova, da parte del creditore, di un concreto danno. Al più, se il creditore dimostrasse di aver subito un danno maggiore, gli verrebbe riconosciuto un ulteriore risarcimento, salvo apposito accordo delle parti circa la misura degli interessi moratori.
Sulla scorta di tali considerazioni, si evince come la disciplina dettata in materia di interessi sia improntata ad un principio di favor creditoris desumibile dall’esonero, su di questi gravante, di dover provare l’an ed il quantum del danno.
Con riferimento alla fonte e, cioè, alla causa generatrice dell’obbligazione di interessi, il codice civile distingue fra interessi legali, convenzionali e usuali.
In merito ai primi, mette conto segnalare come sia la legge a predeterminare l’an ed il quantum degli interessi, sicché spetta al Ministro del Tesoro fissare, con decreto, il tasso legale da praticare su un dato capitale in misura variabile, da anno in anno, tenendo conto del rendimento lordo dei titoli di Stato e del tasso d’inflazione registratosi in quel determinato arco temporale.
Al contrario, gli interessi si definiscono convenzionali quando la determinazione del saggio è rimessa alla volontà delle parti, in linea con quel principio che, nell’ambito dei rapporti contrattuali, riconosce ampia libertà e autonomia negoziale ai privati.
Per quanto concerne gli interessi convenzionali, il nostro sistema impone alle parti, in un’ottica di tutela del contraente debole, di ricorrere alla forma scritta allorquando la pattuizione, inerente la determinazione del saggio, preveda un tasso superiore alla soglia legale.
La suddetta forma è richiesta ab substantiam, ossia a pena di nullità del relativo patto ove esso non rispetti la forma richiesta. Ulteriore conseguenza che deriva allorquando difetti il requisito di forma è la riconducibilità del tasso, oggetto del patto nullo ed inefficace, alla soglia legalmente prevista.
La giurisprudenza prevalente ritiene che il saggio di interessi debba essere indicato e determinato dalle parti in maniera precisa e puntuale. Non contrasta con tale impostazione, la pratica, cui spesso fanno ricorso i privati, di inserire all’interno del patto un’apposita clausola con la quale si rinvia ad elementi estrinseci ma idonei a determinare, in modo oggettivo, il tasso in esame.
In passato, in contraddizione con tali regole, si poneva la pratica di determinare il tasso degli interessi attraverso il rinvio alle condizioni generalmente praticate sul mercato creditizio. Tale clausola, denominata ad uso piazza, veniva spesso inserita nei contratti che gli istituti bancari stipulavano con i privati.
Soltanto intorno agli anni Novanta viene, definitivamente, sancita la nullità e, la conseguente, inefficacia di simili clausole per la loro indeterminatezza.
Rebus sic stantibus, pur annoverando la volontà delle parti fra le fonti degli interessi e qualificandola come parametro di determinazione della loro misura, occorre evidenziare come l’autonomia privata sia assoggettata a particolari limiti di legge.
Fra questi, si annovera l’art. 1815 c.c. La norma de qua prevede espressamente il divieto, in capo alle parti, di stipulare interessi usurari, ossia interessi che superano il tasso-soglia.
La ratio di tale previsione è da rintracciare nella volontà di porre un freno all’autonomia privata, assoggettandola così ad un più efficace controllo da parte del legislatore.
Il fenomeno dell’usura, prima di trovare collocazione nel codice civile, è stato oggetto di autonoma disciplina in ambito penalistico. Orbene, con il Codice Zanardelli entra a far parte del panorama giuridico italiano il reato di usura, quale fattispecie penalmente rilevante la cui disciplina è contenuta all’art. 644 c.p.
Proseguendo oltre nell’analisi dell’usura civile, la normativa di riferimento è rappresentata dalla Legge n.108 del 1996 che ha sancito l’oggettivizzazione dell’usura, nel senso di sganciarla dall’elemento psicologico e, cioè, dall’approfittamento dello stato di bisogno del debitore che, al più, rileva quale circostanza aggravante del fatto costitutivo di reato, per collegarla esclusivamente al dato oggettivo del superamento del tasso-soglia consentito.
Ne discende che, mentre sul versante penalistico il reato di usura viene punito con la reclusione e la multa, sotto il versante civilistico invece il debitore alcun interesse deve corrispondere al creditore.
Con l’entrata in vigore della Legge Antiusura sono sorti alcuni dubbi circa il suo ambito applicativo. Più specificatamente, ci si è chiesto se la stessa possa trovare applicazione ai contratti di mutuo sorti prima della sua entrata in vigore, ma ancora pendenti, oppure no.
A parere di alcuni, ai fini della valutazione dell’usurarietà degli interessi, rileverebbe il momento genetico del contratto, ossia il momento in cui le parti convengono gli interessi che il debitore è chiamato a corrispondere al creditore. Per tali motivi, la Legge del 1996 non troverebbe applicazione allorquando, nella fase della promissio, le parti non abbiano superato il tasso soglia consentito, quant’anche questo ex post dovesse risultare sopra soglia.
A questa prima tesi si è contrapposto un secondo indirizzo a mente del quale la valutazione degli interessi, in termini di usurarietà, dovrebbe avvenire guardando al momento della datio e, cioè, al momento esecutivo del contratto.
Sul punto, intorno agli anni 2000, è intervenuta la Suprema Corte a Sezioni Unite la quale, pronunciandosi in merito ad un contratto di mutuo fondiario, sembra aver sposato la prima impostazione. Orbene, il giudice a quo ha stabilito che, per la qualificazione degli interessi come usurari, il momento che rileva è quello della promissio e non della datio.
In altri termini, continua la Suprema Corte, il divieto di cui all’art.1815 c.c. colpisce, con la nullità e l’inefficacia, la pattuizione usuraria e, cioè, quella clausola con la quale il mutuante e il mutuatario abbiano fissato un tasso di interessi eccedente quello consentito, indipendentemente dal loro pagamento.
Così argomentando, appare evidente come la normativa intervenuta in materia sembri aver chiuso, definitivamente, le porte al fenomeno della c.d. usura sopravvenuta.
Delicati problemi si sono posti, altresì, con riferimento agli oneri e ai costi che occorre considerare per la verifica dell’usurarietà dei tassi. La questione, in particolare, si è posta per la commissione di massimo scoperto che, a fronte di un fido bancario, si identifica con la controprestazione che il privato è tenuto a corrispondere per la copertura che la banca gli offre per lo scoperto.
Secondo l’orientamento prevalente, siffatto onere costituisce un costo del credito e, come tale, va inserito nell’elenco delle voci rilevanti per la verifica dell’eventuale usurarietà delle pattuizioni private. A sostegno di tale tesi si pone la Legge del 2009 in virtù della quale, ai fini dell’applicazione dell’art. 1815 c.c. si deve tener conto di tutte quelle prestazioni e remunerazioni che il privato compie in favore della banca, sulla base di clausole dagli stessi inserite nel contratto di finanziamento, a qualsiasi titolo.
Non meno importante è la questione sorta, all’indomani dell’entrata in vigore della Legge Antiusura, circa la sua applicabilità alle pattuizioni inerenti gli interessi moratori.
Più specificatamente, ci si chiedeva se la disciplina in essa contenuta riguardasse le sole clausole con cui veniva determinato il tasso degli interessi remuneratori ed, in particolare, degli interessi corrispettivi o se potesse essere estesa anche alle pattuizioni circa gli interessi moratori.
Sul punto si sono registrate due diverse impostazioni. La prima, muovendo anche dal dato letterale dell’art. 644 c.p. che, nell’individuare la fattispecie oggettiva del reato di usura, qualifica gli interessi usurari quale corrispettivo di una prestazione in denaro, riteneva che la suddetta normativa andasse applicata in maniera restrittiva e, dunque, ai soli interessi remuneratori.
Di contro, per altri autori la disciplina dettata agli artt. 644 c.p. e 1815 c.c. sarebbe applicabile a tutti i tipi di interessi, indipendentemente dalla loro funzione. Tale tesi viene, senza alcun dubbio, sposata da chi rinviene negli interessi moratori anche una componente compensativa, volta a ripagare il creditore per il ritardo del debitore nell’adempimento della prestazione.
Finanche la Corte di Cassazione prima ed il legislatore dopo hanno aderito a questo secondo indirizzo, muovendo dall’assunto che nella nozione di interessi usurari rientrano tutti quelli convenuti dalle parti, a qualsiasi titolo, e quindi anche quelli moratori.
A questo punto, occorre volgere l’attenzione sulle modalità e sui criteri da utilizzare ai fini del calcolo, in termini di usurarietà, del tasso di interessi. Invero, è opportuno chiedersi se, a fronte di pattuizioni inerenti sia interessi remuneratori, sia interessi risarcitori, l’usurarietà venga valutata sommando i due tassi o se, al contrario, la verifica debba essere condotta su ciascuno di essi.
La giurisprudenza prevalente ritiene che i tassi pattuiti per ciascun tipo di interesse debba essere considerato isolatamente, posto che le due tipologie di interessi attengono a fasi diverse del rapporto contrattuale. Difatti, gli interessi remuneratori, collocandosi nella fase fisiologica del rapporto, gravano sul debitore per il solo fatto che abbia avuto in prestito una somma di denaro; gli interessi risarcitori, al contrario, sono dovuti solo in via eventuale e, cioè, nell’ipotesi in cui il debitore sia rimasto inerte nell’adempimento della prestazione principale o vi abbia adempiuto oltre il termine ab origine convenuto.
Ed allora, posto che non è dato procedere con un’operazione aritmetica volta a sommare i tassi pattuiti, resta da chiarire quali siano le conseguenze allorquando ad essere usurario è solo uno dei tassi convenuti e non anche l’altro. Detto in altri termini, ci si chiede se la sanzione di cui all’art. 1815 c.c. che prevede la nullità e l’inefficacia della clausola usuraria si applichi al solo tasso di interessi moratori, perché eccedenti la soglia consentita, o se la stessa si estenda anche a quelli remuneratori, di per sé legittimi perché sotto soglia, e viceversa.
Sulla questione si sono formati due orientamenti uno dei quali ritiene che, allorquando nel contratto sia contenuta una clausola usuraria, la nullità ex art. 1815 c.c. si estende ad ogni remunerazione maturata sul credito, benché questa riguardi una sola tipologia di interessi. La conseguenza che ne discende, in un’ottica favorevole al debitore, è la non debenza degli interessi.
Su un versante diametralmente opposto, si pone un diverso orientamento avallato dalla giurisprudenza più recente. Seguendo questo secondo indirizzo, la nullità ex art. 1815 c.c. riguarda e travolge quella sola pattuizione usuraria, perché l’unica ad essere superiore al tasso-soglia consentito, e non anche quella legittima.
Per tali motivi, se nel contratto, ad essere usurario fosse il solo tasso degli interessi moratori e non anche quello degli interessi remuneratori, l’unica conseguenza vantaggiosa per il debitore sarebbe quella di non corrispondere gli interessi qualificati come usurari, ma solo quelli sotto-soglia.
In conclusione, si può affermare che il giudice, investito del compito di verificare e determinare l’usurarietà delle pattuizioni fra i privati, deve tenere conto dei tassi praticati sulla somma capitale, a titolo di interessi, e di ogni altra remunerazione prevista in favore del creditore che potrebbe tradursi in uno squilibrio economico fra le parti.
Ed ancora, allorquando la clausola usuraria riguardasse una sola tipologia di interessi, la sanzione di cui all’art. 1815 c.c. sarebbe circoscritta a quest’ultima secondo il regime della nullità parziale di cui all’art. 1419 c.c.
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Veronica Serena Mazzei
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