Interessi diffusi e collettivi: T.U. Ambiente e Codice del Consumo
L’interesse collettivo, come da pacifica giurisprudenza, ha assunto ormai la valenza di posizione giuridica soggettiva sostanziale qualificata e differenziata, come tale tutelabile in sede sia procedimentale che processuale. Tuttavia, a tale risultato si è giunti attraverso un’evoluzione giurisprudenziale e dottrinale, che prende le mosse dal concetto di interesse diffuso, quell’interesse cioè adespota e fluido, di cui risultano titolari gli appartenenti ad una determinata comunità o categoria. Proprio per il suo carattere di magmaticità, esso risultava privo dei presupposti normativi richiesti dalla legge (in primis, costituzionale) ai fini della tutelabilità delle posizioni soggettive: la differenziazione e la qualificazione.
Negli anni ’70, nel solco di una evoluzione del diritto amministrativo nel senso di un maggiore riconoscimento ed una maggiore tutela degli interessi dei privati a fronte dell’azione amministrativa, la giurisprudenza ha chiarito che l’interesse diffuso può assumere valenza di posizione giuridica qualificata e differenziata, nel caso in cui sia creato un ente di diritto privato, esclusivamente o prevalentemente deputato alla cura e al perseguimento di tale interesse. In questo modo, infatti, l’interesse diffuso cessa di essere adespota – perché titolare di esso risulta essere l’ente stesso – trasformandosi in interesse collettivo, e divenendo così tutelabile in sede giurisdizionale. Inoltre, per distinguere quali enti fossero effettivamente rappresentativi dell’interesse collettivo di cui si chiedeva tutela – e quindi ai fini di affermare o negare la loro legittimazione processuale – se in principio fu adottato un criterio formale (la personalità giuridica dell’ente), negli anni successivi vennero enucleati una serie di criteri di tipo sostanziale, quali quello del fine istituzionale (che doveva essere indicato nello statuto), quello della organizzazione stabile, nonché quello della cd. vicinitas, che si sostanziava nella necessità che l’ente esponenziale agisse in prossimità territoriale della comunità i cui interessi venivano rappresentati.
Successivamente, tale processo di trasformazione dell’interesse diffuso in interesse collettivo, attraverso la soggettivizzazione in capo all’ente esponenziale, è stato fatto proprio anche dal legislatore, il quale, a partire dalla L. 349/1986 istitutiva del Ministero dell’Ambiente, ha progressivamente tipizzato alcune ipotesi di legittimazione processuale dell’ente per la tutela di interessi collettivi. Tale tendenza legislativa, ad esempio, è stata registrata sia nell’ambito appunto della tutela ambientale, sia in quello della tutela dei consumatori. Per quanto riguarda il primo esempio, infatti, la L. 349/1986, all’art. 18, co. 5, prevedeva (e prevede tutt’ora, dato che tale norma non è stata abrogata dal T.U.-Ambiente del 2006), che le associazioni individuate dall’art. 13 della stessa legge (cioè quelle indicate in un elenco redatto dal Ministero dell’Ambiente) fossero legittimate non solo ad intervenire nei processi per danno ambientale, ma anche a ricorrere a tutela degli stessi in sede giurisdizionale, ai fini dell’annullamento dell’atto della p.a. dannoso di tale interesse. Riguardo inoltre alla tutela degli interessi degli utenti e consumatori, gli artt. 139-140 Codice del Consumo dispongono che le associazioni dei consumatori e degli utenti inserite in un elenco istituito presso il Ministero dello Sviluppo Economico sono legittimate ad agire contro gli atti della p.a. lesivi di interessi collettivi dei consumatori, inerenti quindi alla materia disciplinata nel codice stesso.
Da un’analisi di queste norme, si evince che, in determinate materie, il legislatore ha quindi inteso tipizzare non solo gli interessi collettivi azionabili e gli enti legittimati a ricorrere a tutela degli stessi, ma anche le azioni che tali enti possono esperire (ad esempio, in ambito di tutela ambientale, è indicato che gli enti esponenziali sono legittimati a ricorrere per l’annullamento degli atti dell’amministrazione illegittimi, mentre, in ambito consumeristico, le associazioni istituite a tutela degli interessi collettivi inerenti alla protezione dei consumatori e degli utenti di pubblici servizi, possono agire per ottenere tre diversi tipi di tutela, tra cui spicca quella inibitoria[1]).
La progressiva tipizzazione, in determinati settori, degli interessi collettivi tutelabili, degli enti esponenziali legittimati e delle azioni esperibili, se da una parte ha contribuito al rafforzamento della tutela degli interessi rilevanti in tali materie, dall’altra, in assenza di una norma generale, di chiusura del sistema, ha suscitato non pochi dubbi interpretativi, soprattutto in ordine alla configurabilità, al ricorrere dei presupposti così come enucleati dalla giurisprudenza già prima dell’introduzione delle fattispecie tipiche, di una legittimazione generale degli enti esponenziali, quindi di una tutela atipica dell’interesse collettivo.
Per verità, si è tentato di colmare questo vuoto normativo attraverso l’interpretazione di alcune norme di diritto positivo. In particolare, si era fatto riferimento all’art. 9 L. 241/1990, norma che prevede, in capo ai portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati (quindi titolari di interessi collettivi), la facoltà di intervenire nel procedimento amministrativo. Si era, infatti, affermato che alla partecipazione procedimentale si affiancasse parallelamente quella processuale. Se però tale esegesi poteva ritenersi plausibile con riguardo alla partecipazione procedimentale in chiave “difensiva”, quindi volta a introdurre già al momento dell’avvio del procedimento amministrativo osservazioni e memorie per far valere le proprie ragioni a sostegno del proprio interesse legittimo, ciò non poteva valere per la partecipazione in senso “collaborativo”, la cui finalità è quella di far sì che i soggetti, pubblici e privati, forniscano tutta la documentazione e le conoscenze in loro possesso, per una più efficiente azione amministrativa. Perciò, sulla base quindi della diversa ratio che ispira l’art. 9 LPA rispetto a quella della partecipazione processuale, e quindi dell’azionabilità in giudizio degli interessi collettivi, parte della dottrina aveva negato che potesse sussistere tale parallelismo e che la legittimazione a partecipare al procedimento fosse un dato neutro, come tale non rilevante ai fini del riconoscimento della legittimazione ad agire.
Posto ciò, si è ritenuto che proprio l’assenza di una previsione legislativa generale potrebbe portare a negare l’ammissibilità di una tutela generalizzata degli interessi collettivi, con conseguente esclusione della legittimazione ad agire di quegli enti esponenziali non inclusi negli elenchi previsti a livello normativo nelle materie in cui vi è stata questa opera di tipizzazione, nonché degli enti tout court nei settori in cui non è stata prevista l’azionabilità di interessi collettivi; ciò risulterebbe corroborato dalla semplice considerazione che, ove una legittimazione generale, al di fuori quindi delle ipotesi tipiche, fosse comunque ammessa, si svuoterebbero di significato i numerosi interventi del legislatore nel senso appunto della tipizzazione. In altre parole, non si capirebbe lo sforzo del legislatore di disciplinare espressamente alcune ipotesi di legittimazione processuale degli enti esponenziali.
D’altra parte, preme sottolineare che l’intento del legislatore era evidentemente non solo quello di dare chiarezza e sistematicità alla materia dell’interesse collettivo azionabile e della legittimazione ad agire degli enti rappresentativi, ma anche quello di rafforzare la tutela degli interessi metaindividuali, in ambiti peculiari e complessi, in cui un’esigenza di protezione è stata percepita in modo particolarmente forte; basti pensare al diritto ad un ambiente salubre, sentito a livello nazionale e sovranazionale come sempre più a rischio di lesione e perciò particolarmente bisognoso di tutela o si pensi alla materia consumeristica, che vede uno sbilanciamento contrattuale tra le parti contrapposte, con una debolezza della posizione del consumatore e dell’utente . A partire da questo assunto, si potrebbe quindi ritenere che escludere una legittimazione ad agire degli enti esponenziali nei casi non previsti dalla legge equivarrebbe a comprimere in modo grave la tutela degli interessi collettivi e quindi a sconfessare la ratio di potenziamento della tutela posta alla base proprio degli interventi normativi suddetti. In conclusione, si è ritenuto che l’assenza di una norma generale non osti quindi di per sé alla configurabilità di una legittimazione ad agire nei casi non previsti dalla legge.
Tuttavia, è stato prospettato, da parte di alcuna dottrina e giurisprudenza, un ulteriore ostacolo alla generale ammissibilità della tutela degli interessi collettivi, a livello questa volta processual-civilistico: il divieto di sostituzione processuale sancito dall’art. 81 c.p.c. In particolare, ci si è chiesti come possa essere configurabile una legittimazione generale ad agire in capo agli enti rappresentativi di interessi collettivi, anche fuori dei casi previsti dalla legge, quando la norma appena menzionata esclude che un soggetto possa far valere in giudizio un diritto altrui, a meno che non la legge non preveda espressamente tale legittimazione straordinaria. Nondimeno, come afferma la più recente giurisprudenza (da ultimo: Consiglio di Stato, Ad. Plen. n. 6 del 2020), la tesi che ricollega il divieto suddetto alla legittimazione degli enti esponenziali, parte da un assunto sbagliato: quello cioè che tali enti rappresentino in giudizio un diritto altrui. Per verità, come si è precedentemente precisato, questi soggetti sono titolari di un interesse proprio, quello collettivo, che è una posizione giuridica soggettiva diversa ed autonoma rispetto agli interessi individuali di cui sono titolari i singoli appartenenti alla categoria rappresentata; l’interesse leso dall’amministrazione di cui l’ente esponenziale chiede tutela in giudizio, lungi dall’essere costituito dalla sommatoria degli interessi legittimi individuali, è un interesse diffuso che si è differenziato e qualificato proprio in virtù della istituzione dell’ente stesso, che ne è diventato unico titolare. Ciò vale quindi ad escludere che il divieto di cui all’art. 81 c.p.c. possa ostare all’ammissibilità di una tutela dell’interesse collettivo fuori dai casi previsti dalla legge.
Invero, a favore di quest’ultima opzione giuridica, giocano un ruolo dirimente le norme costituzionali in materia di tutela giurisdizionale. Più precisamente, dagli artt. 24, 103 e 113 Cost. emerge l’evidente necessità che al privato venga accordata, a difesa dei propri diritti soggettivi e dei propri interessi legittimi, una tutela piena ed effettiva. Ciò in linea altresì con la normativa comunitaria, così come chiarita dalla Corte di Giustizia, la quale, in ordine alla tutelabilità delle situazioni soggettive di origine comunitaria, pur riconoscendo in capo al singolo Stato membro la facoltà di qualificare secondo il diritto interno le diverse situazioni giuridiche soggettive, ha chiaramente evidenziato che il privato debba essere dotato di tutti gli strumenti giuridici idonei a garantirgli un grado di tutela compatibile con gli standard europei, indipendentemente appunto dalla qualificazione dell’interesse di cui è titolare. Se si guarda agli interessi collettivi, quindi, ben si può ritenere che negare che questi possano azionati (da parte dei titolari di essi, cioè gli enti esponenziali) al di fuori dei casi previsti dalla legge comporterebbe un chiaro vulnus al principio di tutela giurisdizionale piena ed effettiva, per il fatto che tali situazioni giuridiche soggettive rimarrebbero evidentemente prive di tutela, con conseguente violazione delle norme costituzionali e comunitarie.
A tali considerazioni si aggiunge che, negli ultimi decenni, il nostro sistema di diritto amministrativo si è evoluto nel senso di un ravvicinamento progressivo tra amministrazione e amministrati. Basti pensare alle numerose previsioni normative che prevedono facoltà partecipative del singolo al procedimento amministrativo, alle norme in tema di accesso, nonché al progressivo decentramento delle funzioni amministrative, a partire dalla legge n. 3 del 2001 di riforma del titolo V. A tale tendenza non può che corrispondere una valorizzazione del principio di sussidiarietà orizzontale, sancito dall’art. 118, ult. co. Cost., che postula, ai fini della sua attuazione, un decentramento della tutela dei diritti e degli interessi legittimi dei cittadini, sia come singoli che nelle formazioni sociali di cui fanno parte (art. 2 Cost.). Per quanto riguarda quindi gli interessi collettivi, tale risultato potrebbe essere conseguito proprio attraverso l’intermediazione di enti che perseguono a livello statutario il fine di tutela dei vari interessi rilevanti nella materia in cui operano. Per questi motivi, come peraltro afferma il Consiglio di Stato (Ad. Plen. n. 6/2020), tale principio sarebbe contraddetto dalla limitazione della tutela giurisdizionale degli interessi collettivi ai casi tassativamente previsti dalla legge.
A fronte di tali considerazioni, si ritiene preferibile propendere per la tesi che fonda la rilevanza giuridica degli interessi collettivi – e quindi la loro azionabilità da parte degli organismi esponenziali – non in una previsione legislativa espressa, quanto piuttosto al ricorrere dei presupposti sostanziali delineati dalla giurisprudenza amministrativa. Come prima accennato, tali requisiti sono pacificamente ricondotti alla necessaria sussistenza innanzitutto di una finalità istituzionale – espressa nello statuto dell’ente – di protezione dell’interesse collettivo di cui si richiede tutela; in secondo luogo, l’ente deve essere dotato di un’organizzazione stabile e di una struttura solida, tali da consentire in modo non occasionale il perseguimento del fine statutario. A ciò si aggiunge la necessità che l’interesse protetto e rappresentato dall’ente esponenziale sia un interesse localizzato, cioè relativo al luogo o alla comunità titolare dell’interesse diffuso[2] (questo ultimo requisito – quello della cd. vicinitas – permette anche di rispondere alle esigenze connesse al rispetto del principio di sussidiarietà orizzontale come prima delineato).
Per quanto concerne, invece, il rapporto tra interessi individuali e interessi collettivi, merita fare una premessa: in primo luogo occorre sottolineare che l’interesse collettivo, così come ricostruito dalla giurisprudenza e dalla dottrina, è una posizione giuridica sostanziale autonoma rispetto agli interessi individuali degli appartenenti alla comunità cui fa riferimento l’ente titolare dell’interesse suddetto; l’interesse collettivo è, infatti, una tipologia di interesse legittimo, al pari dell’interesse individuale. Come tale, esso appare qualificato e differenziato, e perciò meritevole di tutela autonoma e indipendente rispetto ai singoli interessi individuali della categoria rappresentata. In questo modo, ragionando quindi in termini di diversità e indipendenza dell’interesse collettivo, ben si può ritenere che le due tipologie di interesse non possono ragionevolmente essere messe in rapporto di alternatività; se esse sono posizioni diverse, possono coesistere, sono quindi in rapporto di complementarietà.
Inoltre, interessi collettivi e individuali possono convivere anche quando gli interessi individuali della categoria rappresentata risultano di segno opposto all’interesse collettivo azionato dall’ente esponenziale. Come ha infatti recentemente affermato il Consiglio di Stato[3], un eventuale conflitto di interessi sussiste solo quando è la legge a prevedere che un determinato ente sia preposto alla tutela di interessi comuni ad una certa categoria o comunità, come accade nel caso degli Albi o degli Ordini professionali. Gli enti de quibus, infatti, non sono legittimati ad azionare un interesse collettivo se questo risulta contrario agli interessi individuali di parte della collettività rappresentata (a titolo esemplificativo, la categoria degli avvocati relativamente all’Ordine degli Avvocati). Diversamente, per quanto concerne le associazioni o i comitati istituiti privatamente, tale omogeneità tra gli interessi individuali degli appartenenti al settore rappresentato non è altrettanto necessaria ai fini della legittimazione ad agire in capo all’ente per la tutela dell’interesse collettivo. In altre parole, per verificare il grado di rappresentatività dell’ente, bisogna guardare non all’interesse del settore in generale, alla cui protezione l’ente stesso non è tenuto, quanto piuttosto alle situazioni giuridiche soggettive degli iscritti[4].
Infine, relativamente al rapporto tra interesse collettivo e interesse istituzionalmente protetto, occorre intanto specificare che quest’ultimo consiste in un interesse di fatto, di per sé non differenziato e qualificato, quindi come tale non tutelabile in sede processuale, che tuttavia riceve eccezionalmente tutela in virtù di una specifica disposizione di legge. Un esempio può essere rinvenuto proprio nel Testo Unico Ambiente del 2006, in cui, all’art. 311, si legittima il Ministero dell’Ambiente ad agire in giudizio per ottenere il risarcimento del danno ambientale in forma specifica o per equivalente, in caso di atti o comportamenti amministrativi lesivi dell’interesse della collettività relativo alla salvaguardia e il miglioramento delle condizioni ambientali.
Un problema di compatibilità con gli interessi collettivi dei soggetti appartenenti alla comunità portatrice di un interesse di fatto si pone anche qui se e soltanto si considerano questi due tipi di interessi come sovrapponibili, perché consistenti nel bisogno di protezione dello stesso bene della vita. In realtà, questi due tipi di interessi hanno una natura ed una consistenza ontologica diverse. Infatti, l’interesse fatto valere da un soggetto pubblico, a ciò legittimato dalla legge, nonostante rientri, al pari dell’interesse collettivo, anch’esso nella più ampia categoria degli interessi meta individuali, d’altra parte non è un interesse collettivo, ma un interesse pubblico, proprio perché trova il suo titolare in un soggetto pubblico. Mutuando quindi il ragionamento precedentemente esposto relativamente al rapporto tra interessi individuali e interessi collettivi, si può affermare che, anche in questo caso, la relazione fra gli stessi sia di tipo complementare, non alternativo. La prova che interesse collettivo e interesse istituzionalmente protetto possano convivere si può rinvenire proprio nella disciplina stessa del diritto ambientale: il Testo Unico sull’Ambiente, infatti, operando una risistemazione della materia de qua, nell’inserire la legittimazione ad agire in capo al Ministero dell’Ambiente per la tutela di interessi di fatto, non ha tuttavia abrogato la facoltà, per gli enti esponenziali di interessi collettivi, di azionare tali interessi in giudizio. Da’altra parte, un’eventuale negazione della configurabilità ed azionabilità di interessi collettivi nelle materie coperte dalla legittimazione straordinaria di soggetti pubblici individuati dalla legge giungerebbe allo stesso risultato precedentemente sottolineato con riguardo all’ammissibilità di una tutela generale degli interessi collettivi, cioè ad una compromissione della facoltà dei soggetti di far valere le proprie situazioni giuridiche soggettive sostanziali, a scapito del principio della tutela giurisdizionale piena ed effettiva sancito dagli artt. 24 e 103 della Cost., nonché dai principi comunitari. Nella materia ambientale, ad esempio, anche qualora si escludesse solo la legittimazione in capo agli enti esponenziali a richiedere al giudice il risarcimento del danno da lesione di interessi collettivi (a partire dal dato normativo della facoltà del Ministero dell’Ambiente di agire per l’ottenimento della tutela risarcitoria – art. 311 T.U. Ambiente), oltre che ignorare l’intrinseca diversità di quest’ultimi rispetto agli interessi istituzionalmente protetti, si perverrebbe al risultato di contrarre in modo significativo la tutela degli interessi collettivi, in aperto contrasto con la tendenza del legislatore in materia amministrativa, a partire dalla storica sentenza della Corte di Cassazione n. 500 del 1999, ad ampliare la sfera dell’interesse risarcibile.
[1] In particolare, ai sensi dell’art. 140 del D. lgs. 206/2005, l’associazione legittimata alla tutela di interessi collettivi può richiedere al Giudice di inibire gli atti o i comportamenti lesivi (tutela inibitoria), di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate, nonché di ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate (tutela ripristinatoria).
[2] Il quale, come già sopra evidenziato, si trasforma in interesse collettivo per il tramite della soggettivizzazione dello stesso in capo all’ente esponenziale.
[3] Consiglio di Stato, Ad. Plen., n. 8 del 2019
[4] Nel caso sottoposto alla cognizione del Consiglio di Stato, la parte resistente opponeva la mancanza della legittimazione processuale della controparte per il fatto che quest’ultima, rappresentativa di una comunità di operatori del settore dei sistemi antiincendio, constava di pochi iscritti e per questo non avrebbe potuto rappresentare gli interessi di quella categoria.
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Caterina Rafanelli
Laureata alla Facoltà di Giurisprudenza di Firenze con voto 110/110 e Lode, ho svolto 18 mesi di tirocinio presso il Tribunale di Firenze e 6 mesi presso uno studio legale. Abilitata all'esercizio della professione forense da ottobre 2022.