Interessi moratori e non, l’usura
Per affrontare la tematica relativa all’usura, è necessario tracciare brevemente una distinzione della qualificazione degli interessi nelle obbligazioni pecuniarie. Successivamente, tornerà utile passare in rassegna la ratio sottesa a tale istituto al fine di comprendere le questioni sorte attorno alla figura di usura sopravvenuta e l’applicazione dei rimedi esperibili di origine pretoria, differenti da quelli tipici propri dell’usura originaria.
Ebbene, quando si parla di usura, inevitabilmente, si parla di interessi. E, inevitabilmente, parlare di interessi significa inquadrare l’intero discorso attorno la figura dell’obbligazione pecuniaria, essendo gli interessi prestazioni accessorie della stessa. Infatti, l’obbligazione pecuniaria ha ad oggetto il bene denaro. Proprio dall’utilizzo del bene de quo, sorge un vantaggio in capo al debitore che il soggetto de quo deve, in qualche modo, “pagare”.
Detto diversamente, l’interesse altro non è che il corrispettivo che il debitore paga al creditore per compensarlo dallo svantaggio che lo stesso ha subito per avergli consegnato un bene fruttifero, privandosene.
È il c.d. principio di fecondità del denaro, come lo definisce la Relazione di accompagnamento al Codice Civile.
Tale principio è stato recepito sin dai tempi più antichi. Orbene, nel diritto romano e diversamente dal significato che gli si attribuisce oggi, la giurisprudenza contrassegnava con il termine “usura” l’attitudine, propria del denaro, a produrre dei frutti. Dunque, essendo il denaro fruttifero per sua natura, il fondamento dell’istituto degli interessi non può che essere un fondamento equitativo. Infatti, la disciplina degli interessi de quibus è neutrale rispetto la dialettica del favor debitoris e del favor creditoris. Ancora, nella disciplina vigente si ritrovano precetti quali gli artt. 820, 1282 e 1224 c.c.. Mentre il primo distingue, appunto, i frutti civili da quelli naturali nei termini in cui si è detto, disponendo che gli interessi rappresentano i frutti del capitale in ragione del godimento che altri ne abbia; invece, gli altri due articoli evidenziano la distinzione tra i due momenti in cui possono sorgere gli interessi: prima e dopo la mora, o per meglio dire, usando la terminologia pretoria, rispettivamente, non moratori e moratori. La distinzione risiede nella funzione: di scambio, i primi; di responsabilità, i secondi. Motivo che ha indotto la giurisprudenza, per lungo tempo, a non considerare gli interessi da ritardo nel computo dell’usura, come si vedrà funditus.
Addirittura, da una lettura della Relazione al Codice Civile, c’è chi ritiene esista un genus a sé: quello dei cc.dd. interessi compensativi; e ancora, dottrina che, in una logica di scambio, affianca i medesimi alla prima categoria. E invero, questa linea di pensiero sembrerebbe la più percorribile. Infatti, la funzione è per entrambi compensativa in un’ottica equitativa. Un’ipotesi di interessi compensativi è quella della vendita ex art.1449 c.c.. Ipotesi in cui, appunto, essendo la cosa alienata trasferita immediatamente all’acquirente distintamente dal prezzo, la non immediatezza della consegna del corrispettivo, giustifica il calcolo degli interessi sul prezzo stesso.
Fatta questa prima distinzione e specificato che, distintamente dagli interessi non moratori della prima categoria ut supra, gli interessi moratori rispondono ad una logica punitiva nei confronti del debitore che adempie con ritardo ovvero non adempie per causa a lui imputabile, problema è sorto sul computo degli interessi in tema di usura. Ebbene, la giurisprudenza si è domandata se al fine di ritenere un interesse “usurario”, ergo, vietato dal nostro ordinamento con un doppio livello di sanzione, sia sul piano civile che penale, sia necessario individuare “la misura superiore a quella legale” considerando i soli interessi non moratori o anche quelli da responsabilità.
La questione su esposta deve essere affrontata tenendo in considerazione la ratio dell’istituto con le soluzioni rimediali applicabili al creditore, tenendo in considerazione il caso in cui lo stesso agisca, con colpa, abusando del suo diritto (usura originaria) dal caso in cui il creditore agisca sine culpa (usura sopravvenuta).
È risaputo che l’interesse superiore alla soglia di legge è vietato. La ratio risiede nella sproporzione oggettiva tra le prestazioni. Addirittura, il divieto generale di usura fa sì che l’ordinamento deroghi al principio della libertà delle forme consentendo alle parti di addivenire ad una convenzione che, seppur contente interessi ultra-legali, avvenga per iscritto per richiamare l’attenzione delle parti; contenendo, come recentemente sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità, l’indicazione della percentuale del tasso di interesse in ragione di un periodo determinato sulla scorta della norma imperativa ex art.1284, co.3, c.c.. Infatti, in mancanza di una forma solenne, l’accordo sarà considerato nullo.
Seguendo la disciplina pre-riforma del ‘96, nel rispetto del principio di conservazione del negozio giuridico, si sarebbe dovuto applicare il meccanismo di nullità parziale della sola clausola abusiva con la sostituzione automatica del tasso legale a quello convenzionale. Ebbene, oggi, successivamente all’intervento riformatore, resta ferma l’eccezione della nullità parziale, ma non si rende possibile sostituire la clausola. Con riguardo al primo punto, continua ad applicarsi la nullità parziale a tutela del debitore, perché, diversamente opinando, ossia laddove la nullità colpisse l’intero accordo, ne andrebbe pregiudicato il solo debitore. Infatti, il debitore de quo sarebbe costretto a restituire immediatamente l’intera somma sulla scorta del principio “quod nullum est, nullum producit effectum”. Invece, con riguardo alla possibilità di sostituire o meno l’interesse legale, l’attuale formulazione dell’art.1815 c.c. chiarisce, al secondo comma, che nell’ipotesi di interessi usurari la clausola è nulla e non sarà corrisposto alcun tipo di interessi.
Ebbene, dopo la Riforma si verifica ciò che il meccanismo di sostituzione della clausola voleva evitare: l’arricchimento ingiustificato del debitore. Dunque, in deroga al principio di naturale fecondità sopra richiamato, il Legislatore del 1996, per dissuadere a commettere l’illecito de quo, punisce il creditore privandolo degli interessi che naturalmente deriverebbero dal bene-danaro. L’ordinamento così reagisce alla sproporzione originaria del contratto.
È evidente come ad una sproporzione, l’ordinamento risponda con un’ulteriore sproporzione. Sproporzione che, in un’ottica di assoluto svantaggio per il creditore e in analogia con la disciplina penale di cui all’art.644 c.p., si basa sulla presunzione secondo cui il creditore ha agito abusando della sua posizione e violando la clausola di buona fede nella fase genetica del rapporto.
Siamo nell’ambito dell’usura originaria. Usura originaria intesa quale accordo fra due soggetti in cui la parte dominante, il creditore, “abusa” della sua posizione di forza e impone alla parte debole, il debitore, di concludere il negozio.
Eppure, l’art.1815, co.2, c.c., sembrerebbe limitare quanto detto alla sola usura originaria. Dunque, ci si è chiesti quali siano i rimedi applicabili nel caso in cui l’usura non venga determinata dal creditore bensì da un fattore esterno. E, ancora, quali siano i rimedi applicabili nel caso di usura sopravvenuta, posto che la norma suddetta circoscrive il suo ambito applicativo alla sola fase in cui gli interessi vengono “promessi o convenuti” senza nulla accennare a quella in executivis.
Richiamando la disciplina in materia di mutuo, in particolare il d.l. n°394/2000, che esprime un principio generale estensibile alle obbligazioni pecuniarie lato sensu, è evidente come dal tenore letterale dell’art.1 in combinato disposto con l’art.1815, co.2, c.c., si escluda l’applicazione della nullità parziale testuale all’usura sopravvenuta.
Per ovviare a tale mancanza di rimedi, sono state individuate dalla giurisprudenza modalità alternative e molto discusse. Quali, ad esempio, la nullità sopravvenuta, l’inefficacia successiva ovvero l’inesigibilità della prestazione e l’obbligo di rinegoziazione del tasso di interesse. Fra i rimedi pretori appena citati, solo l’ultimo, inesigibilità-rinegoziazione, sembra avere manforte. Secondo l’impostazione inesigibilità-rinegoziazione, infatti, opera l’exceptio doli del debitore alla sola parte dell’interesse ritenuta superiore alla soglia legale. Detto diversamente, la violazione della buona fede opera in parte qua al solo fine di riequilibrare il rapporto e ovviare, quindi, a quella sproporzione sopra menzionata. Sicché, nell’ipotesi di contratto in esecuzione, tale teoria riserva alle parti la possibilità di rinegoziare il tasso dell’interesse per farlo ritornare al di sotto della soglia.
In materia di usura e nel silenzio della legge che tace su una nozione in senso stretto, ulteriore questione la si riscontra in tema di calcolo, come già anticipato.
Infatti, sempre con riferimento all’art.1815 c.c. con palese riferimento, quindi, a quel tipo di usura che guarda al momento genetico e che presume la colpa del creditore, il quale agisce abusando della sua posizione di forza, ci si è chiesti se ai fini del calcolo possano essere computati tutti e tre i tipi di interessi: moratori, corrispettivi e compensativi. Orbene, rilevanti questioni sono sorte soprattutto con riguardo agli interessi moratori. La giurisprudenza prevalente, attualmente, ha optato per l’inclusione degli stessi nel calcolo dell’usura. L’assunto è quello secondo cui sia che si tratti di interessi compensativi che corrispettivi che moratori, bisogna guardare alla loro funzione. In una prospettiva reintegratoria, infatti, entrambi risarciscono o indennizzano.
Si abbandona, dunque, quella impostazione che escludeva dal calcolo gli interessi quelli moratori. La teoria medesima partiva dall’assunto secondo cui, in mancanza di una definizione di usura, dovesse aversi riguardo ai soli interessi o altri vantaggi usurari dati o promessi “in corrispettivo”, seppur sotto qualsiasi forma. Appunto, si supera questa tradizionale teoria dando voga alla norma di interpretazione autentica dell’art.644 c.p.. E invero, oggi, l’art.1 del d.l. n°394/2000 non dà spazio a interpretazioni difformi. Ebbene, sulla base dell’equiparazione ai fini del calcolo dei diversi tipi di interessi ut supra, si giunge a includere anche quelli moratori nel computo del tasso di interesse qualificato come usurario. Una tesi giurisprudenziale recente in tema di valutazione dell’usura ha, infatti, argomentato sottolineando l’extrema ratio dei diversi tipi di interessi summenzionati, ossia il creditore subisce un danno da sottrazione del suo denaro e viene “compensato” per il danno che ha subito dall’indisponibilità. Quanto detto vale sia nel caso di interessi compensativi che moratori da ritardo o inadempimento. A rendere ancor più condivisibile questa tesi, una recentissima giurisprudenza richiama l’art.1224, co.1, c.c.. L’articolo de quo dispone che se le parti hanno convenuto solo l’interesse corrispettivo è dovuto anche l’interesse moratorio “nella stessa misura”. Dunque, dall’addentellato normativo appena citato si giunge ad equiparare gli interessi de quibus e ad acconsentirne un’eventuale somma.
Pertanto, l’interesse moratorio entra oggi nel calcolo dell’usura sotto le spoglie del “qualunque altro costo” cui ha dato rilevanza la L. n°2 del 2009. La questione è stata così risolta in materia di contratti bancari. E invero, la Terza Sezione ha fatto rientrare nel computo dell’usura oltre ai tre tipi di interessi previsti dalla Relazione, addirittura, ogni altro onere che l’utente sopporta per l’uso che fa del credito.
Alla luce di quanto detto, si può affermare che è ormai evidente che quella che era una materia neutrale rispetto la dialettica del favor debitoris, oggi, invece, tende sempre più a perseguire la massima tutela del debitore, eccezion fatta per l’ipotesi di usura sopravvenuta ove, come si è visto, applicare il rimedio della nullità parziale comporterebbe una sanzione troppo gravosa per il creditore che ha agito senza abusare della sua posizione.
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Daniela Restivo
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