Interruzione volontaria di gravidanza: la legge 194 e le recenti novità
Sommario: 1. L’aborto, introduzione – 2. La Legge 192/78 – 3. L’interruzione volontaria di gravidanza
1. L’aborto, introduzione
Da una precedente situazione generalizzata di proibizione, assistita da sanzione penale, si è passati, nella maggior parte degli ordinamenti, all’affermazione della liceità dell’aborto, sebbene sottoposto al verificarsi di presupposti legittimanti, la cui integrazione è diversamente richiesta a seconda delle legislazioni prese in esame.
Nonostante questo cambiamento la considerazione che l’accedere alle procedure abortive sia un diritto soggettivo sostanzialmente pieno della donna, almeno in una prima fase della gravidanza, è invece una discussa posizione minoritaria.
Con riferimento ai diritti fondamentali che vengono in luce con riguardo all’aborto, mentre i più riconducono il comportamento di medici obiettori all’inviolabile libertà di coscienza, in più occasioni il Consiglio d’Europa ha invitato gli Stati membri a limitare il ricorso all’obiezione di coscienza, al fine di non incidere in modo troppo gravoso sul diritto di una donna, in conflitto con il precedente, a non proseguire la gestazione.
Viene in luce inoltre il diritto alla riservatezza del parto, per scongiurare abbandoni di neonati.
Tutt’ora controverso resta, invece, il diritto a conoscere l’identità del genitore naturale, tematiche che sono state oggetto di distinte decisioni della Corte Costituzionale italiana, che hanno innovato orientamenti restrittivi pregressi, suscitando molto clamore.
Assai vasto è anche il dibattito italiano sulla legge che disciplina la procreazione medicalmente assistita (legge n. 40/ 2004), molto discussa quanto al problematico coordinamento della tutela dell’embrione, in essa prevista, con la precedente legge n. 194/ 1978, che autorizza l’aborto.
Con riferimento al tema centrale della trattazione, ossia l’interruzione di gravidanza, fino ai primi anni del secolo scorso il quadro del diritto dell’Europa palesava un generale disfavore verso la pratica dell’aborto, criminalizzato e quindi di fatto praticato clandestinamente con pericolo per la salute della gestante. Il rischio successivamente percepito di sovrappopolazione mondiale e il progredire di una sempre maggiore aspirazione al benessere materiale, hanno determinato un’inversione di rotta, tanto che esso è stato decriminalizzato e riconosciuto come possibile, in presenza di alcuni presupposti di fatto. Tali presupposti legittimanti, diversi a seconda dei diversi ordinamenti, si sono tradotti in concreto nell’individuazione di termini di praticabilità dell’interruzione della gravidanza. Alla gestante che abbia maturato determinazione ad abortire incombe quasi sempre, un onere probatorio della serietà delle sue motivazioni, da ricondurre a presupposti legittimanti di ordine ad esempio sanitario o psico-sociale.
Peraltro è interessante sottolineare la peculiarità circa il modo in cui il nostro ordinamento affronta la regolazione di questa delicata tematica: si registra, difatti, la netta prevalenza di interventi giurisprudenziali su quelli legislativi, venendo i primi sistematicamente a supplire la mancanza dei secondi su punti essenziali e a correggerne l’impianto.
2. La Legge 192/78
Sino al 1978 l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) era punita come reato dall’ordinamento italiano (artt. 545 ss cp.).
La Legge 22 maggio 1978 n. 194, nota semplicemente come legge 194, ha abrogato le fattispecie di reato previste dal titolo X del libro II del codice penale (Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe), punite in particolare dagli articoli dal 545 al 555, oltre alle norme di cui alle lettere b) ed f) dell’articolo 103 del T.U. delle leggi sanitarie. Fra le norme non più in vigore si può ricordare l’articolo 546 c.p., rubricato “Aborto di donna consenziente“, il quale puniva con la reclusione da due a cinque anni chiunque cagionasse l’aborto di una donna, se pure col consenso di lei, applicando la stessa pena alla donna che consentiva all’aborto. L’art. 547 c.p., “Aborto procuratosi dalla donna”, prevedeva la pena della reclusione da uno a quattro anni, mentre il successivo articolo 548 c.p. contemplava la fattispecie delittuosa della “Istigazione all’aborto” con somministrazione di mezzi idonei, punita con la reclusione da sei mesi a due anni. Infine la Legge 194 ha abrogato l’art. 551 c.p., il quale prevedeva la attenuate della “Causa di onore”, del tutto in linea con la concezione culturale dell’epoca precedente al 1978; la norma recitava così: se alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 545, 546, 547, 548, 549 e 550 è commesso per salvare l’onore proprio o quello di un prossimo congiunto, le pene ivi stabilite sono diminuite dalla metà ai due terzi.
Obiettivo primario della legge 194, che ha permesso di sopperire alle pratiche clandestine dell’aborto e senza adeguata protezione, è la tutela sociale della maternità e la prevenzione dell’aborto attraverso la rete dei consultori. Il Consultorio Familiare è un servizio che si occupa della promozione e della tutela della salute della donna, dei giovani e della coppia. Al suo interno si svolgono servizi di sostegno alla genitorialità, di assistenza alla famiglia, alla maternità e paternità consapevole, all’educazione sessuale e alla contraccezione per i giovani.
La normativa consente di abortire entro un determinato lasso di tempo dal concepimento, superato il quale l’aborto è possibile solamente se terapeutico, cioè se giustificato dalle condizioni di salute della donna.
Fuori da queste ipotesi, l’aborto costituisce tutt’ora reato: ai sensi dell’art. 593 bis c.p., il quale punisce l’interruzione colposa di gravidanza con pene che vanno da tre mesi a due anni di reclusione, diminuite fino alla metà in caso di parto prematuro colposo; ai sensi dell’art. 593 ter c.p., che punisce l’interruzione di gravidanza non consensuale con la reclusione da quattro ad otto anni.
Gli articoli in questione sono stati introdotti nel Codice Penale dall’art. 2 del D. Lgs. 01/03/2018, n. 21. Allo stesso modo, abortire al di fuori delle strutture sanitarie o con metodi non approvati costituisce un illecito.
3. L’interruzione volontaria di gravidanza
Dunque, la donna, nei casi previsti dalla legge, può ricorrere alla interruzione volontaria di gravidanza in una struttura pubblica (ospedale o poliambulatorio convenzionato con la Regione di appartenenza): entro i primi 90 giorni di gestazione per motivi di salute, economici, sociali o familiari; tra il quarto e quinto mese è possibile ricorrere alla IVG solo per motivi di natura terapeutica, e solo in casi particolari.
Nei primi novanta giorni di gravidanza, pertanto, il ricorso alla IVG è permesso alla donna che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito (art. 4 l. 194).
L’aborto di natura terapeutica è possibile fra il quarto ed il quinto mese di gravidanza, solo su certificazione di un medico che confermi come la prosecuzione della gravidanza possa comportare un pericolo per la vita della donna e per la sua salute psicofisica; nello specifico: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Qualora l’interruzione della gravidanza si renda necessaria per imminente pericolo per la vita della donna, l’intervento può essere praticato anche senza lo svolgimento delle procedure previste per la certificazione. Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) ed il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto (artt. 6 e 7 l. 194).
In Italia, dunque, per effettuare l’aborto terapeutico quando il feto con ogni probabilità è in grado di sopravvivere all’esterno dell’utero, deve sussistere un rischio concreto per la vita della donna. La regola vuole, difatti, che si proceda prima che il feto abbia la possibilità di vivere autonomamente al di fuori dell’utero (se al momento della nascita il feto è vivo la legge impone la rianimazione, punto controverso della legge e su cui si dibatte molto). Se, di contro, la malattia o la malformazione viene diagnosticata dopo le 22 settimane in Italia non è più consentito procedere con l’aborto terapeutico.
Risultano degne di nota alcune altre previsioni della Legge 194, quale l’art. 12: secondo la norma le minori e le donne interdette devono ricevere l’autorizzazione di chi esercita la responsabilità genitoriale o di chi ne fa le veci; nei primi novanta giorni, quando vi siano seri motivi che impediscano o sconsiglino la consultazione dei genitori, oppure questi, interpellati, rifiutino il loro assenso o esprimano pareri tra loro difformi, il consultorio, la struttura socio-sanitaria o il medico di fiducia presso cui si è rivolta la donna, interpella il giudice tutelare territorialmente competente affinché prenda una decisione.
Per quanto concerne, poi, la figura del padre egli non è titolare di alcun diritto nei confronti del concepito: l’art. 5 prevede, difatti, che il padre del concepito non possa in alcun modo intromettersi nella IVG e non sia titolare di alcun diritto sul feto.
Infine occorre ricordare che ai sensi dell’art. 9 della l. 194 il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie può esercitare obiezione di coscienza. La legge, in altri termini, riconosce al medico il diritto di rifiutare di prendere parte alla pratica abortiva, sia in forma farmacologica che in forma chirurgica, sebbene non lo autorizzi ad omettere le proprie cure alle fasi antecedenti e successive della pratica abortiva, in quanto deve garantire la tutela della vita e della salute della donna. Il personale sanitario non può, difatti, sollevare obiezione di coscienza neanche quando l’intervento sia indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo.
Il SSN è, peraltro, tenuto a assicurare che l’interruzione di gravidanza si possa svolgere nelle varie strutture ospedaliere deputate a ciò, e qualora il personale assunto sia costituito interamente da obiettori dovrà supplire a tale carenza in modo da poter assicurare il servizio. Ad oggi gli obiettori sfiorano in media ben il 70% dei ginecologi, il 46,3% degli anestesisti e il 42,2% del personale non medico.
La legge 194 prevede alcune procedure da seguire obbligatoriamente in caso di richiesta di IVG: esame delle possibili soluzioni dei problemi proposti; aiuto alla rimozione delle cause che porterebbero alla IVG; certificazione; invito a soprassedere per sette giorni in assenza di urgenza, sia entro che oltre i primi 90 giorni di gravidanza.
Esistono due tecniche per eseguire una interruzione volontaria di gravidanza:
1- Interruzione volontaria di gravidanza attraverso il metodo chirurgico
Anche se il metodo farmacologico sta prendendo sempre più piede, l’interruzione di gravidanza attraverso il metodo chirurgico resta comunque molto praticata.
L’intervento può essere effettuato presso le strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale e le strutture private convenzionate e autorizzate dalle Regioni.
2- Interruzione volontaria di gravidanza attraverso il metodo farmacologico
Si tratta di una procedura medica, distinta in più fasi, che si basa sull’assunzione di almeno due principi attivi diversi, il mifepristone (meglio conosciuto col nome di RU486) e una prostaglandina, a distanza di 48 ore l’uno dall’altro.
Sulla base dei pareri del Consiglio superiore di sanità, il Ministero della salute ha emanato Linee guida sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine.
Le direttive approvate già dieci anni fa dal ministero consigliavano tre giorni di ricovero per la paziente che assumeva la pillola abortiva, lasciando però la scelta alle Regioni che nella maggior parte dei casi hanno optato per la somministrazione ambulatoriale, senza ricoverare la donna. Il ministro della Salute Roberto Speranza ha aggiornato, a distanza di dieci anni, le linee guida sulla pillola abortiva Ru486, prevedono l’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico in day hospital e fino alla nona settimana (non più alla settima).
La decisione del ministro arriva a seguito del parere fornito dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e dopo un provvedimento approvato lo scorso giugno 2020 dalla giunta leghista in Umbria. Il provvedimento in questione decideva di non consentire lo svolgimento della procedura di aborto farmacologico in day hospital, revocando una precedente delibera regionale dello scorso anno. La decisione della regione Umbria è stata, dunque, quella di obbligare le donne che chiedevano l’interruzione di gravidanza col metodo farmacologico al ricovero di tre giorni. Ricovero non necessario, secondo l’ISS, contando che l’aborto chirurgico, il quale prevede anche l’anestesia, può essere fatto in day hospital.
– S. Prisco, “Aborto e autodeterminazione della donna: profili problematici”, Mimesis Edizioni, 2015
– Legge 22 maggio 1978, n. 194, “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”
– Codice Penale, Libro II, Titolo X, “Dei delitti contro la integrità e la sanità della stirpe”, abrogato dall’art. 22,L. 22 maggio 1978 n. 194.
– Codice Penale, Libro II, Titolo XII, “Dei delitti contro la persona”, artt. 593 bis e 593 ter.
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Claudia Ruffilli
Claudia Ruffilli, nata a Bologna il 21 aprile 1992. Ho conseguito il diploma di maturità classica presso il Liceo Classico Marco Minghetti di Bologna. Nel 2017 ho conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Bologna. Ho svolto la pratica forense presso uno Studio Legale ed un tirocinio formativo presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna. Nel 2019 ho conseguito l'abilitazione all'esercizio della professione forense presso la Corte di Appello a Bologna, dove lavoro.
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