Invalidità delle delibere assembleari nelle S.p.A. e legittimazione ad impugnare in capo ai soci amministratori
Nella disciplina delle società per azioni, fra i possibili vizi che possono determinare l’invalidità di una delibera assembleare, è possibile rinvenire ipotesi patologiche di nullità tali da attribuire la legittimazione ad impugnare a chiunque ne abbia interesse, ai sensi della disposizione di cui all’art. 2379, comma 1, c.c.
A tale proposito, si noti come i vizi che possono determinare la nullità della delibera – mancanza della convocazione dell’assemblea, mancanza del verbale e impossibilità o illiceità dell’oggetto – siano tassativamente elencati dalla suddetta disposizione. In particolare, è ricorrente rinvenire profili di illegittimità relativi alla illiceità dell’oggetto: questa causa di nullità si verifica nei casi di violazione di norme imperative “dettate a tutela di un interesse generale che trascende l’interesse del singolo socio o siano dirette ad impedire una deviazione dallo scopo economico-pratico del rapporto di società”[1]. Se dunque, in una controversia avente ad oggetto l’impugnazione di una delibera assembleare ritenuta invalida, nessuno di tali vizi risulta presente nella fattispecie, le ragioni di invalidità della delibera saranno da individuarsi, invece, nella possibile annullabilità della stessa.
In particolare, devono considerarsi annullabili quelle delibere assunte in violazione di norme, ancorché imperative, finalizzate esclusivamente alla tutela di singoli soci o di gruppi di essi. In questo caso pertanto, al fine di individuare i soggetti legittimati ad impugnare, sarà necessario far riferimento all’art. 2377, comma 2 c.c. e non all’art. 2379, comma 1.
La disposizione di cui al predetto art. 2377, comma 2, riconosce “agli amministratori” – così come ai soci assenti, dissenzienti od astenuti, al consiglio di sorveglianza e al collegio sindacale, la possibilità di impugnare le delibere assembleari non conformi alle norme di legge o di statuto. Nel merito, dottrina e giurisprudenza si sono tuttavia e a lungo dibattute se la legittimazione ad impugnare spetti, o meno, al singolo amministratore o al consiglio di amministrazione inteso nella sua collegialità.
Sarebbe in primo luogo da ritenersi che ove il legislatore avesse ritenuto di attribuire la legittimazione all’impugnazione a “ciascun membro” del C.d.A. lo avrebbe esplicitato, come accade per le s.r.l. attraverso la previsione di cui all’art. 2479 c.c. La disposizione di cui all’art. 2377, comma 2, invece, difetta di tale precisazione, dovendosi con ciò ritenere che il legislatore non abbia inteso attribuire il potere di impugnare le delibere assembleari asserendone l’annullabilità a ogni singolo amministratore. In particolare, i soggetti legittimati all’impugnazione della delibera assembleare devono essere portatori di un interesse giuridicamente qualificato e non di un mero interesse di fatto. Questo circoscrive la legittimazione all’impugnazione ai soli soggetti cui la legge si riferisce, in funzione della tutela di un interesse sociale prevalente riferito alla stabilità e continuità degli atti adottati dall’assemblea. In altri termini, allo stesso modo in cui è richiesto un quorum prestabilito al fine dell’attribuzione ai soci del potere di impugnare la delibera, proprio per escludere l’ipotesi che il singolo socio, o un numero ristretto di soci, impugni la delibera per rallentare l’attività sociale, è richiesto che ad esercitare il potere di impugnare la delibera assembleare sia il C.d.A. inteso nella sua collegialità. Ciò in quanto la decisione di esercitare tale potere è legata ad un margine di discrezionalità, presumendo dunque che la stessa sia frutto di una ponderazione collegiale, avente ad oggetto la valutazione dei possibili benefici e degli eventuali pregiudizi derivanti dalla impugnazione della delibera assembleare[2]. La portata di tale decisione si evince, infatti, dalla disposizione di cui all’art. 2378, comma 4, c.c., in base alla quale la delibera impugnata dagli amministratori risulta automaticamente sospesa: una conseguenza giuridica così rilevante deve dunque essere fondata su una valutazione che coinvolga l’intero C.d.A.[3] A conferma dell’interpretazione che precede, l’unico caso in cui la giurisprudenza riconosce ad un membro del C.d.A. il potere di agire individualmente per l’invalidità di una delibera è quello in cui le decisioni assunte dall’assemblea vadano a ledere gli interessi propri della persona dell’amministratore stesso, come avviene in caso di revoca dell’amministratore medesimo. L’azione di invalidità proposta dal C.d.A. presuppone così una deliberazione previamente adottata dalla maggioranza dei componenti dell’organo stesso[4]. Solo da tale atto potrà derivare il conseguente esercizio in sede giudiziale dell’impugnazione.
Non è condivisibile, in secondo luogo, la tesi per cui l’impugnazione di una delibera assembleare da parte del singolo amministratore si renda necessaria, per quest’ultimo, al fine di dimostrare di essere esente da colpa circa la supposta illegittimità della stessa, evitando così di rispondere di un’eventuale azione di responsabilità promossa dalla società. A tal fine basterebbe l’annotazione del suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, dandone notizia per iscritto al presidente del collegio sindacale, ai sensi dell’art. 2392, comma 3. Da ciò, è necessario dedursi che il potere decisorio esercitabile dall’amministratore si esaurisce nell’apporto del voto in consiglio. Egli non potrà essere ritenuto responsabile per non aver preso provvedimenti, risultando privo del potere di attuarli.[5]
Conclusivamente, “il potere, riconosciuto agli amministratori delle società di capitali nell’art. 2377 c.c. di impugnare le deliberazioni dell’assemblea della società che non sono state prese in conformità della legge o dell’atto costitutivo, spetta al C.d.A. e non agli amministratori stessi individualmente considerati, atteso che detto potere è attribuito agli amministratori per la tutela degli interessi sociali e, dunque, richiede una deliberazione dell’organo incaricato di detta tutela, il quale, nella società retta da un C.d.A., si identifica, appunto, nel C.d.A. e non nei suoi singoli componenti”[6].
[1] Ex multis, Cass., 23 gennaio 1978, n. 297, in Giur comm., 1979 II, 351; Cass., 22 luglio 1994, n. 6824; Cass. 24 luglio 2007, n. 16390, in Società, 2008, 44; Cass., 7 novembre 2008, n. 26842; Cass., 30 ottobre 2012, n. 18671, in Società, 2013, 692; Cass., 27 ottobre 2014, n. 22784. Conforme ZANARONE, L’invalidità delle deliberazioni assembleari, Torino, in Assemblea, 3 [1], 419 ss., in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. COLOMBO – PORTALE, Torino, UTET, 1988.
[2] ZANARONE, L’invalidità delle deliberazioni assembleari, Torino, in Trattato delle società per azioni, diretto da COLOMBO – PORTALE, Torino, UTET, 1988, vol. III [2], 269-270.
[3] GALGANO, Diritto commerciale: l’imprenditore, le società, Bologna, Zanichelli, 2008, 327. 4 Ordinanza Trib. Milano, 29 marzo 2014.
[4] TERRUSI, L’invalidità delle delibere assembleari della S.p.A, 175. 6OPPO, Diritto delle società, 1992, CEDAM, Padova, 406.
[5] GALGANO, cit., 328.
[6] Cass, 24 aprile 1963, n. 1084; Cass., 2 agosto 1977, n. 3422; Cass. 05 giugno 2003, n. 8992; conforme Trib. Roma 26 giugno 2018, n. 13097.
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