Islam, simboli religiosi e spazio pubblico nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
Sommario: 1. Il dibattito attuale sui simboli religiosi islamici nello spazio pubblico – 2. Una rigida interpretazione del principio di laicità nella sentenza del 2005 sul caso Leyla Şahin c. Turchia – 3. La temporanea rimozione del velo islamico per ragioni di pubblica sicurezza alla luce delle sentenze El Morsli c. Francia e Dogru e Kervanci c. Francia del 2008 – 4. Il velo integrale negli spazi pubblici ed aperti al pubblico: il “vivere insieme” e la libertà di manifestare la propria religione nella sentenza S.A.S. c. Francia del 2014 – 5. La compatibilità del velo integrale e del burkini con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Osmanoğlu e Kocabaş c. Svizzera del 2017 – 6. Conclusioni
1. Il dibattito attuale sui simboli religiosi islamici nello spazio pubblico
Negli ultimi anni i conflitti attorno ai simboli religiosi hanno acquistato una dimensione globale poiché si verificano con uguale intensità in paesi che hanno retroterra culturali, tradizioni religiose e istituzioni politiche profondamente diverse[1]. Essi oggi rappresentano infatti il principale elemento catalizzatore di conflitti generati dal nuovo ruolo giocato dalle religioni nello spazio pubblico[2]. Del resto i simboli, in una modernità in cui ogni luogo pare essersi fatto imbuto del mondo ed in cui il presente ubiquo di ogni realtà è caratterizzato dal pluralismo religioso e culturale, quali vincoli per le diverse comunità uniscono dividendo e dividono unificando[3]. Sempre più spesso, così, i simboli, che nella loro aspirazione a compattare, a condensare e a stabilizzare il processo semiotico non abbandonano mai la loro potenziale ambiguità ed ambivalenza, assumono sempre più spesso significati differenti e talora opposti nelle intenzioni dei loro portatori e nella percezione degli altri soggetti. Non a caso, quella dei simboli religiosi è stata ed è tuttora una questione che investe le diverse esperienze nazionali e che assume in Europa (anche grazie al graduale processo di secolarizzazione che ha investito il Vecchio continente)[4] alcuni tratti del tutto peculiari poiché riflette non solo il fenomeno della revanche de Dieu[5] (attraverso il nuovo dinamismo nella sfera pubblica delle varie confessioni religiose), ma anche la crisi del tradizionale ruolo storicamente assunto dallo Stato che, nella produzione e trasmissione dei valori sociali, oggi non può più prescindere dal riconoscimento della pluralità di valori e tradizioni anche religiose diffuse nel tessuto sociale[6].
Al riguardo, in Europa, pur essendo numerosi gli approcci alla questione dei simboli religiosi nello spazio pubblico, con l’intento di avvicinare lo standard di tutela dei diritti fondamentali crescente importanza ha assunto, in questa come in altre materie concernenti la libertà religiosa, la Corte europea dei diritti dell’uomo[7]. In materia di simboli religiosi islamici, in particolare, la Corte EDU è intervenuta a partire dall’inizio degli anni Duemila con diverse decisioni, sempre favorevoli agli Stati, legittimando il divieto, introdotto da alcuni legislatori nazionali, di portare simboli o indumenti religiosi di uso personale in spazi pubblici, escludendo una violazione dell’art. 9 della Convenzione europea (che consente alcune limitazioni al diritto di libertà religiosa e di coscienza qualora ritenute necessarie in una società democratica per la salvaguardia di alcuni fondamentali interessi pubblici). Come si vedrà, la Corte Edu, chiamata a più riprese a risolvere un tema che investe da una parte il diritto di libertà religiosa e, dall’altra, le dinamiche della laicità dello Stato, ha individuato proprio nel criterio del margine di apprezzamento[8] un elemento determinante per statuire sulla compatibilità con la Convenzione di eventuali restrizioni all’uso di simboli religiosi nello spazio pubblico. Così, per la Corte quando vengono in gioco questioni concernenti l’esposizione di simboli religiosi negli istituti di insegnamento, deve essere attribuito un ruolo decisivo al contesto nazionale[9] della fattispecie di riferimento. E ciò in quanto la regolamentazione sul tema «varia da un Paese all’altro in funzione delle tradizioni nazionali e delle esigenze imposte dalla protezione dei diritti e delle libertà altrui ed il mantenimento dell’ordine pubblico»[10]. In tal senso, il divieto di indossare il velo in Turchia, pertanto, è giustificato dalla necessità di «preservare gli imperativi della laicità negli spazi pubblici scolastici»[11]. Allo stesso modo, il divieto di portare il velo islamico previsto dalla legge francese del 15 marzo 2004 n. 228 non viene mai considerato dalla Corte Edu una violazione dell’art. 9 par. 2 CEDU[12]. Ciò in ragione del rilevante peso attribuito dalla giurisprudenza di Strasburgo al contesto francese nel quale «l’esercizio della libertà religiosa negli spazi pubblici e più in particolare la questione dell’indossare simboli religiosi nella scuola, è direttamente legato al principio di laicità, principio attorno al quale la Repubblica francese è stata costruita»[13].
Diverso invece appare il caso in cui il divieto di indossare un simbolo religioso, anziché essere riferito a un determinato spazio pubblico o ad una specifica funzione pubblica, assume i caratteri di un divieto generalizzato[14]. Tali elementi, infatti, impediscono alla Corte di applicare in modo diretto la casistica sul divieto di simboli religiosi nell’abbigliamento e inducono i giudici ad affermare che lo Stato non può imporre a dei comuni cittadini, fuori dall’esercizio di una funzione pubblica e in luoghi aperti a tutti, l’obbligo di non manifestare pubblicamente la propria religione. Ciò soprattutto quando le modalità di espressione del proprio credo attraverso uno specifico abbigliamento non possono rappresentare una minaccia per l’ordine pubblico, una pressione verso gli altri cittadini o, ancora, un possibile forma di proselitismo. Da ciò si evince che «le restrizioni da parte degli Stati all’uso di simboli religiosi e di abiti religiosamente connotati da parte delle persone negli uffici e istituzioni pubbliche […] possono trovare maggiore ampiezza rispetto a quelle consentite relativamente all’uso dei medesimi simboli ed abiti sulla pubblica via»[15].
Si può affermare, allora, che l’obbligatorietà di adottare un abbigliamento religiosamente “neutro” deve essere supportata da specifiche motivazioni che ne garantiscano la necessarietà. Allo stesso tempo vi è, come si vedrà, la tendenza da parte della Corte EDU ad affrontare la questione relativa ai simboli religiosi cercando di investire le proprie pronunce di quella flessibilità necessaria a bilanciare il giusto rispetto per la sovranità degli Stati membri e i loro obblighi sanciti nella Convenzione[16].
2. Una rigida interpretazione del principio di laicità nella sentenza del 2005 sul caso Leyla Şahin c. Turchia
L’esclusione da parte della Corte EDU di una violazione dell’art. 9 della Convenzione europea (che consente alcune limitazioni al diritto di libertà religiosa e di coscienza qualora ritenute necessarie in una società democratica per la salvaguardia di alcuni fondamentali interessi pubblici) risale già al primo caso Dahlab (2001) in cui si trattava di un’insegnante di una scuola pubblica elementare Svizzera, la cui pretesa di indossare il chador (velo che copre i capelli e non le fattezze del viso) durante le lezioni, quale signe extérieur fort di sicuro impatto sulla libertà di coscienza e di religione dei bambini, fu ritenuto lesivo del principio di neutralità confessionale[17] della scuola pubblica[18]. Se, però, in questo occasione la Corte ha giustificato tale divieto ricorrendo alla dottrina del margine di apprezzamento di cui godono gli Stati in materia religiosa, nelle successive pronunce dirimente è apparsa anche la peculiare e rigida interpretazione del principio di laicità applicata dagli Stati resistenti[19]. In particolare, nel caso Leyla Sahin c. Turchia del 2005[20] (come poi anche in quelli El Morsli c. France, 2006; Dogru c. France; Kervanci c. France, 2008 e Aktas c. France etc. 2009), la ricorrente, una studentessa dell’Università di Istanbul, alla quale si iscrive il 26 agosto del 1997 per terminare i suoi studi in medicina precedentemente iniziati presso l’Università di Bursa, rivendica il diritto di indossare – senza limitazione alcuna – il foulard, adeguandosi così ai precetti della propria religione di appartenenza[21]. Nel febbraio del 1998, il rettore dell’Università di Istanbul emette una circolare, in forza della quale le studentesse non avrebbero più potuto indossare il velo islamico. Nello specifico, tale circolare vietava agli studenti di manifestare la loro appartenenza religiosa a mezzo dell’abbigliamento[22]. Şahin decide, così, di ignorare il divieto e, causa di tale condotta, le viene negata la possibilità di iscriversi agli esami e, successivamente, di accedere ai corsi universitari. Impugnata la circolare dinanzi al tribunale amministrativo di Istanbul, lamentando che il provvedimento non presenta basi legali e che arreca un danno ai propri diritti garantiti dagli artt. 8, 9, 10 della CEDU e dall’art. 2 del Protocollo, Şahin si vede respingere il ricorso in quanto per il tribunale amministrativo adito il rettore di una Università, ai sensi della legge n. 2547/1998 relativa all’insegnamento di grado universitario, ben poteva decidere in materia di abbigliamento degli studenti per assicurare il mantenimento dell’ordine (art. 13)[23]. A seguito di tale pronuncia, Leyla Şahin si recava comunque all’Università continuando ad ignorare il provvedimento, per cui le venivano comminate le sanzioni disciplinari previste dalla circolare universitaria[24]. Nell’aprile del 1999 la ricorrente veniva espulsa dall’università per un periodo della durata di un semestre. Inoltre, poiché a seguito dell’introduzione della legge n. 4584 del 2000 (che prevedeva l’amnistia delle sanzioni disciplinari contro gli studenti) la Corte suprema amministrativa rifiutava di esaminare il ricorso per cessazione della materia del contendere, la Şahin decideva di trasferirsi in Austria per continuare i suoi studi con la possibilità di indossare liberamente il foulard durante le lezioni.
Investita della questione La Corte Europea dei Diritti dell’uomo è stata chiamata a pronunciarsi sul delicato ponendo particolare attenzione alla sussistenza o meno di un’interferenza da parte dell’Università di Istanbul al diritto alla libertà religiosa e se, in caso affermativo, la stessa fosse legittima ed i provvedimenti adottati dal rettore fossero realmente necessari per tutelare i valori democratici dello Stato turco.
La sentenza della quarta sezione della Corte EDU, che ha ripreso le argomentazioni elaborate nella giurisprudenza precedente[25], si è particolarmente soffermata fornendone utili chiarimento sull’interpretazione, sugli aspetti che concernono il diritto di libertà religiosa così come disciplinato dall’art. 9 CEDU. La Corte, così, ha certamente riconosciuto che l’uso del velo islamico da parte della ricorrente è espressione del suo sentimento religioso e che le misure adottate dalla Turchia, di conseguenza, interferiscano con la libertà religiosa ma ha dato particolare attenzione anche al secondo paragrafo dell’art. 9, che, limitatamente alla manifestazione della libertà religiosa, prevede la possibilità che siano fissate delle restrizioni. La Corte, dunque, tenuto conto che nelle moderne società democratiche coesistono più religioni presso la stessa popolazione, ha riconosciuto nel caso concreto che le restrizioni fossero proporzionate ad assicurare il principio di laicità e, di conseguenza, idonee a conciliare gli interessi dei diversi gruppi e ad assicurare il rispetto delle convinzioni di ciascuno[26]. Così, «dans leur arrêt du 7 mars 1989, les juges constitutionnels ont estimé que la laïcité, qui constitue le garant des valeurs démocratiques, est au confluent de la liberté et de l’égalité. Ce principe interdit à l’Etat de témoigner une préférence pour une religion ou croyance précise, guidant ainsi ce dernier dans son rôle d’arbitre impartial, et implique nécessairement la liberté de religion et de conscience. Il vise également à prémunir l’individu non seulement contre des ingérences arbitraires de l’Etat mais aussi contre des pressions extérieures émanant des mouvements extrémistes. Selon ces juges, par ailleurs, la liberté de manifester la religion peut être restreinte dans le but de préserver ces valeurs et principes. Comme la Chambre l’a souligné à juste titre (…), la Cour trouve une telle conception de la laïcité respectueuse des valeurs sous-jacentes à la Convention. Elle constate que la sauvegarde de ce principe, assurément l’un des principes fondateurs de l’Etat turc qui cadrent avec la prééminence du droit et le respect des droits de l’homme et de la démocratie, peut être considérée comme nécessaire à la protection du système démocratique en Turquie. Une attitude ne respectant pas ce principe ne sera pas nécessairement acceptée comme faisant partie de la liberté de manifester la religion et ne bénéficiera pas de la protection qu’assure l’article 9 de la Convention et autres, précité»[27].
La Corte, pertanto, afferma chiaramente che «in una società democratica, nella quale coesistono numerose religioni all’interno della stessa popolazione, può essere necessario porre restrizioni alla libertà di manifestare la propria religione o credo al fine di conciliare gli interessi di vari gruppi e assicurare che siano rispettate le convinzioni di ciascuno». In questa prospettiva, il velo islamico quale «signe extérieur fort», caricandolo di un ulteriore significato anche di carattere politico, ben può, secondo la Corte Edu risultare lesivo della libertà di coscienza degli altri alunni e dell’eguaglianza dei sessi, ma anche apparire strumento di proselitismo aggressivo e comunicante valori – quelli di un’appartenenza religiosa – potenzialmente disgreganti e pericolosi per la tenuta di una società democratica (tanto da arrivare a giustificare in caso di trasgressione al divieto la sanzione dell’espulsione definitiva di studentesse minori dalla scuola pubblica)[28].
Quando sono in gioco questioni concernenti la relazione tra lo Stato e le religioni, continua la Corte, «occorre riconoscere un’importanza fondamentale agli organi decisionali», specialmente se si tratta di questioni riguardanti l’abbigliamento religioso nelle scuole, rispetto alle quali si registrano diversi approcci da parte delle autorità nazionali e non è possibile individuare in Europa «una concezione uniforme del significato della religione nella società».
Così, il principio di laicità, quale baluardo a protezione della democrazia in grado di legittimare, come un istituto emergenziale, una forte compressione di diritti e libertà fondamentali, per quanto non espressamente contemplato nell’art. 9 CEDU, viene espressamente accolto e valorizzato dalla Corte di Strasburgo.
In sostanza, i giudici hanno manifestato espressamente l’intento di proteggere i diritti e le libertà di coloro che non professano una particolare religione, motivando la misura con l’esigenza di evitare discriminazioni tra i praticanti, i credenti non praticanti e coloro che non credono. Subentra, dunque, il fondamentale criterio del contesto sociale, elaborato dalla Corte Edu stessa, che vuole in qualche modo motivare le scelte legislative nazionali sulla base dell’insieme degli elementi socio-politici che caratterizzano una determinata società. Sulla scorta di ciò, si giunge a motivare e a giustificare anche quei provvedimenti restrittivi proprio delle libertà dell’individuo.
Tuttavia, l’applicazione di questo criterio non può non suscitare qualche perplessità se si pensa che il contesto sociale di ciascun Paese risulta anche dalla diversa composizione religiosa della popolazione. Nel caso di specie, ad esempio, si deve considerare che la Turchia è un Paese a maggioranza islamica, pertanto il divieto di indossare il velo previsto dall’Università può essere diversamente interpretato. Nello Stato turco ha indubbiamente lo scopo di tutelare le minoranze non musulmane dalle pressioni promananti dalla maggioranza, in Paesi in cui invece l’Islam non è la religione maggioritaria, lo stesso divieto potrebbe invece nascondere l’intento di neutralizzare le diverse minoranze religiose dietro il manifesto obiettivo di evitare che i diritti e i modelli culturali della maggioranza opprimano quelli della minoranza, soprattutto in un ambiente scolastico dove i ragazzi avvertono, e possono subire, maggiormente le differenze[29].
Certamente, il criterio del contesto sociale costituisce appare opportunamente richiamato nella sentenza in esame poiché la Turchia, ex art. 2 della Costituzione, appare uno Stato di diritto democratico, laico e sociale. Il principio di laicità appare, così, il baricentro delle riforme legislative, iniziate con il Trattato di Sèvres del 1920, da cui prende avvio il processo di “occidentalizzazione” della società turca. La laicità è considerata condizione indispensabile della democrazia, soprattutto «in considerazione dell’esperienza storica del Paese e delle caratteristiche dell’Islam» ed è «garante della libertà di religione e del principio di uguaglianza davanti alla legge»[30].
Lo Stato non può semplicemente astenersi dal manifestare una preferenza per una particolare religione o credenza, ma deve intervenire per eliminare tutte le manifestazioni che possono in qualsiasi modo minacciare la laicità e, con questa, i fondamenti della democrazia[31]. Si è così inteso tutelare i valori del pluralismo, dell’uguaglianza e, ovviamente, il principio di laicità, anche a costo di sacrificare la libertà di associazione politica o quella di religione. Certamente, anche posto in questi termini, la tematica dell’uso dei simboli religiosi in Turchia comporta ancora non poche riflessioni (e non pochi problemi). Il foulard, infatti, non configurandosi soltanto quale mero simbolo di appartenenza ad una determinata religione – l’Islam – ma addirittura potendo essere manifestazione di determinate inclinazioni politiche[32], è destinato ad essere ancora oggetto di un dibattito che, avendo sullo sfondo il criterio del margine di apprezzamento, è alla ricerca di un continuo equilibrio tra la libertà religiosa e le restrizioni che di volta in volta vengono adottate su base nazionale e che, al tempo stesso, devono essere conformi al dettato della Cedu.
3. La temporanea rimozione del velo islamico per ragioni di pubblica sicurezza alla luce delle sentenze El Morsli c. Francia e Dogru e Kervanci c. Francia del 2008
Nel caso El Morsli c. Francia, la ricorrente è la signora Fatima El Morsli, cittadina marocchina, nata nel 1980 a Tagzirt (Marocco) e residente a Marrakech. La ricorrente, di fede musulmana e sposata dal 2001 con un cittadino francese residente in Francia, nel 2002 si reca al Consolato Generale di Francia a Marrakech per richiedere un visto di ingresso nel territorio francese per ricongiungersi con suo marito. Essendosi rifiutata di togliere il velo per sottoporsi ad un controllo di identità, non veniva autorizzata ad entrare all’interno del consolato e, pertanto, optava per presentare la richiesta a mezzo di lettera raccomandata. Essendo però risultato impossibile identificarla il Consolato Generale di Francia le negava il rilascio del titolo di soggiorno.
Così, il marito della signora El Morsli, a nome della moglie, presentava ricorso contro il provvedimento di rifiuto del visto di ingresso che, però, veniva respinto. Egli, allora, presentava un ulteriore ricorso, sempre a nome di sua moglie, dinanzi al Consiglio di Stato francese, con il quale invocava il diritto della moglie al rispetto della vita familiare (ex art. 8 CEDU) e alla libertà di religione (ex art. 9 CEDU).
Nel 2005 il Consiglio di Stato respingeva il ricorso, asserendo che «l’uso del velo o del foulard, con cui le donne di fede musulmana possono voler manifestare il proprio credo religioso, può essere oggetto di restrizioni dovute alla tutela dell’ordine pubblico» e, considerando che «nel momento in cui la donna rifiutava di sottoporsi a tale restrizione temporanea al fine di consentire un controllo della sua identità, è come se costei avesse rinunciato di sua propria iniziativa a presentare la richiesta di visto nelle forme prescritte; e che, di conseguenza, ella non era legittimata ad avvalersi delle disposizioni dell’art. 8 della Convenzione». Invocando l’art. 9 della Convenzione, la ricorrente denunciava però anche una violazione del suo diritto alla libertà di religione da parte delle autorità consolari. Ella sosteneva, inoltre, che la violazione appariva ancora più ingiustificata in quanto la stessa non aveva rifiutato l’identificazione essendosi dimostrata pronta a rimuovere il velo solo in presenza di una donna. La signora Er Morsli lamentava così non solo una violazione degli artt. 8 e 9 CEDU ma anche di essere stata oggetto di discriminazione (vietata dall’art. 14 CEDU) nella misura in cui il godimento del diritto di manifestare la propria religione attraverso l’abbigliamento non era stato garantito da parte della autorità consolari.
Al riguarda la Corte EDU ha ricordato che l’uso del velo, che può essere considerato come un «atto motivato o ispirato da una religione o da un credo religioso»[33], può pacificamente ai sensi dell’articolo 9, par. 2 CEDU subire anche solo delle limitazioni temporanee tutte le volte in cui sia necessario per ragioni di pubblica sicurezza o di ordine pubblico. Proprio nel caso di specie, la Corte ha rilevato che la misura contestata se costituisce indubbiamente una restrizione di cui all’art. 9 CEDU essa allo stesso modo deve essere considerata «necessaria in una società democratica» per raggiungere tali finalità, ai sensi del par. 2 dell’art. 9 CEDU. Del resto, i controlli di sicurezza imposti per l’accesso ai locali del consolato, tra i quali non può non rientrare anche l’identificazione delle persone che desiderano accedervi, sono sicuramente necessari per la sicurezza pubblica soprattutto se si considera che la rimozione temporanea del velo avrebbe rappresentato una misura di durata estremamente circoscritta nel tempo. Inoltre, quanto alla proposta della ricorrente di rimuovere il velo unicamente in presenza di una donna, la Corte ha affermato che il mancato conferimento dell’incarico di identificazione ad un agente di sesso femminile da parte delle autorità consolari non oltrepassasse il margine di discrezionalità dello Stato in materia. La Corte ha ritenuto, pertanto, che la ricorrente non avesse subito alcuna restrizione sproporzionata nell’esercizio del suo diritto alla libertà di religione.
Nel rigettare il ricorso (in applicazione dell’art. 35, par. 3 e 4 CEDU), inoltre, la Corte oltre ad aver escluso qualsiasi restrizione sproporzionata all’esercizio del diritto di libertà religiosa si è anche pronunciata sulla possibile violazione degli artt. 8, 2 e 14 CEDU. Quanto alla prima la Corte ricorda che, ai sensi dell’art. 35, par. 1 CEDU, è necessario che l’interessato abbia sollevato dinanzi alle autorità nazionali «alle condizioni e nei termini previsti dal diritto interno» i motivi di ricorso che intende poi formulare in seguito innanzi alla Corte di Strasburgo[34]. Così, nella misura in cui la ricorrente non ha rispettato le condizioni fissate per l’introduzione di una richiesta di visto e poiché la stessa non ha posto le autorità interne in condizione di valutare i suoi motivi di ricorso fondati sull’art. 8 CEDU, ne consegue che tale tentativo di ricorso deve essere respinto per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, ai sensi degli artt. 35, par. 1 e 4 CEDU. Infine, quanto alla violazione gli artt. 2 e 14 della Convenzione la Corte ha rilevato che la ricorrente non ha sollevato, espressamente o nella sostanza, tali motivi di ricorso dinanzi ai giudici nazionali, per cui tali motivi devono essere rigettati per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne.
Analogamente al caso El Morsli c. Francia, anche nei casi Dogru c. Francia e Kervanci c. Francia, la Corte ha ritenuto, all’unanimità, che l’espulsione da una scuola superiore pubblica di due studentesse che durante le lezioni di educazione fisica si erano rifiutate di togliersi il velo non fosse in contrasto con il godimento della libertà religiosa[35]. Ciò non solo perché le conclusioni delle autorità nazionali non sono apparse sproporzionate ma anche perché non spetta alla Corte il diritto di sostituire la propria visione dei fatti a quella delle autorità disciplinari scolastiche che sono
senza dubbio, per la loro vicinanza alla comunità scolastica, le più idonee a valutare i bisogni e le esigenze educative della comunità locale[36]. Del resto, la stessa Corte EDU non ha dimentica di sottolineare che la questione risulta certamente importante se si considera che chiama in causa il valore della laicità dello Stato e quindi il rapporto tra questo e le confessioni religiose presenti sul territorio. Questione che, come si è visto, in Francia assume un valore tutto particolare[37].Non a caso il Governo francese innanzi alla Corte ha ammesso chiaramente che le restrizioni imposte alla giovane Dogru nell’indossare il velo islamico all’interno della scuola hanno certamente rappresentato una limitazione del suo diritto di manifestare la propria religione. Tuttavia, tale limitazione, rispettosa di quanto disposto dell’art. 9 della Cedu, oltre a rispondere a necessità pratiche, come quella di dotarsi di un abbigliamento adatto all’esercizio dell’educazione fisica a scuola, era necessaria per rispettare i principi costituzionali di laicità e di uguaglianza tra i sessi. Principi ben noti alla giovane Dogru e ai suoi genitori che all’atto dell’iscrizione a scuola, avevano sottoscritto il regolamento dell’istituto che proprio a tal fine vietava espressamente l’uso di «simboli ostentatori che costituiscono in se stessi elementi di proselitismo e discriminazione».
4. Il velo integrale negli spazi pubblici ed aperti al pubblico: il “vivere insieme” e la libertà di manifestare la propria religione nella sentenza S.A.S. c. Francia del 2014
Come si è visto, nel corso degli anni l’uso del velo islamico è divenuto oggetto di controversie in vari paesi europei, culminate nella decisione di alcuni Stati di vietare l’utilizzo di tale indumento in molteplici contesti. Su tali controversie, a partire dal leading case rappresentato da Dahlab c. Svizzera[38], è stata chiamata più volte a pronunciarsi la Corte EDU che ha dovuto effettuare un giudizio di compatibilità del divieto dell’uso del velo con l’art. 9 della Convenzione.
Giudizio che, nel bilanciamento fra libertà di religione e neutralità degli spazi pubblici, ha visto spesso la seconda prevalere[39] in ragione della qualifica del velo quale simbolo religioso «forte», quale «segno immediatamente visibile agli altri, indicante in modo chiaro che la persona che lo indossa aderisce ad una certa religione» il cui uso apparirebbe difficilmente conciliabile col principio di neutralità religiosa degli spazi pubblici e con il principio di uguaglianza di genere[40].
La Corte sembra, così, aver delineato una sorta di «presunzione di lesività del simbolo religioso», nella convinzione – certo discutibile – che «l’impiego del foulard tradizionale rechi lesioni tali alla libertà religiosa altrui da giustificare la compressione della naturale dialettica tra le differenti posizioni di fede che, nella logica del confronto democratico e libero, è parte integrante della stessa manovra educativa»[41].
Analogamente nel 2014 con la sentenza S.A.S c. Francia, del 1° luglio 2014 la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha stabilito che la legge francese dell’11 ottobre 2010 contenente il divieto di indossare qualunque capo di abbigliamento che copra il volto non viola la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Il ricorso, presentato alla Corte da una giovane donna pakistana di religione musulmana di rito sunnita, residente in Francia ed in possesso della cittadinanza francese, ha riguardato non la concreta e tangibile lesione di un diritto[42] quanto, piuttosto, la questione di compatibilità[43] tra la CEDU e, appunto, la succitata legge nazionale francese. In particolare, l’oggetto del ricorso ha riguardato i primi tre articoli della suddetta legge, contenenti disposizioni che disciplinano il porto del velo nei luoghi pubblici[44].
In particolare, per la ricorrente il divieto generalizzato imposto dalla legge francese, appariva in violazione degli artt. 3, 8, 9, 10 e 11 della Convenzione, articoli tra l’altro invocati anche in connessione al divieto di discriminazioni di cui all’art. 14 CEDU.
La sentenza della Corte,particolarmente significativa, in primis ha escluso che nel caso di specie si sia realizzato «le minimum de gravité» capace di incardinare la questione in termini di trattamenti disumani e degradanti ex art. 3 CEDU; ha escluso, altresì, che si possa ravvisare una violazione diretta del diritto alla libertà di associazione di cui all’art. 11; ha invece sottolineato che la questione ictu oculi attiene alle facoltà derivanti dalla libertà religiosa individuale ex art. 9 CEDU.
Il percorso argomentativo della Corte, così, nuovamente incentrato su un giudizio di legittimità delle restrizioni previste dalla legge francese, parte dall’analisi degli obiettivi cui essa protende, vale a dire la «sicurezza pubblica» e il «rispetto dei valori minimi di una società aperta e democratica».
Per quanto attiene alla tutela della sicurezza pubblica, la Corte ha rilevato e ha obiettato che la legge n. 1192/2010, che ha introdotto un divieto generalizzato di indossare abiti che celano il volto (divieto che non è circoscritto ai soli ambiti pubblici), «non può essere considerato proporzionato laddove non esiste una minaccia generale alla pubblica sicurezza»[45].
Tuttavia, nei confronti del «rispetto per i requisiti minimi della vita nella società», del «vivre ensemble» richiamato dal Governo francese, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che la legge, a certe condizioni, possa determinare una legittima limitazione del diritto di libertà religiosa, in quanto misura di «protezione dei diritti e delle libertà altrui». In questo senso – ha precisato la Corte – la presenza di una barriera nei confronti degli altri, determinata da un velo che copre interamente il volto, è stata percepita dallo Stato come una violazione del diritto degli altri di vivere in uno spazio di socializzazione che rende più facile vivere insieme ed interagire[46].
Si evince, pertanto, che la Corte ha fondato il suo iter argomentativo sull’importanza attribuita dalla legge francese alla protezione di un principio di interazione tra individui, in quanto reputato essenziale non solo perché estrinsecazione del pluralismo, ma anche della tolleranza, senza la quale una società non può mai dirsi democratica. La Grande Camera ha, pertanto, riconosciuto apertamente alla Francia un ampio margine di apprezzamento nel caso di specie[47] e si è pronunciata con una sentenza non del tutto esente da critiche. La prima è sul concetto – spiccatamente generale – del «vivre ensemble», che non è enucleato in alcuno dei diritti e delle libertà garantiti dalla Convenzione. Peraltro, si è ritenuto inverosimile che esso possa toccare indirettamente specifici diritti, come quello del rispetto della vita privata (art. 8) e il diritto a non essere discriminati (art. 14), anche perché i giudici non sono entrati nel merito della nozione del «vivre ensemble». Vi è, poi, il riferimento alla «società aperta e tollerante» che è apparso talmente generico da poter essere «riempito di contenuto a piacimento degli Stati»[48].
Indubbiamente, dietro il concetto del «vivre ensemble» si cela «la difesa di una ben precisa concezione laica dello spazio pubblico nella quale sono legittimate soltanto forme di interazione sociale che esigono il volto scoperto»[49], a maggior ragione per la considerazione che lo stesso concetto viene dedotto dal principio costituzionale di fraternité, che il governo francese considera minacciato dall’occultamento del volto «poiché tale pratica sarebbe espressione del desiderio di chiamarsi fuori dalla vita sociale»[50].
Con l’introduzione della nozione di «vivre ensemble» è sembrato che la Corte abbia elaborato una «nuova strategia persuasiva», attraverso la quale «si ricava una regola molto decisa e costruita come un vero e proprio “diritto a vivere insieme»[51]; una regola che, attraverso il margine di apprezzamento, sostanzialmente autorizzerebbe la Francia «a ricavare dal principio ulteriori regole: quella di vedere in faccia qualsiasi potenziale interlocutore che si muove nello spazio pubblico e, di converso, l’obbligo per tutti i consociati di mostrare il volto»[52].
Inoltre, con tale sentenza la Corte non ha tenuto conto di molti fondamentali fattori. In primis, riconoscere l’importanza dell’esigenza della sicurezza pubblica (e garantirla) non significa che la legge francese non possa comunque dirsi sproporzionata rispetto ai fini che intendeva perseguire: la Corte sarebbe potuta giungere ad una soluzione differente pur tenendo presente «da un lato, l’esigenza di diffusa riconoscibilità […] di chi circola nello spazio pubblico, e, dall’altro, l’individuazione dei luoghi (pubblici) in cui quell’esigenza potrebbe risultare meno stringente o meno pressante, così da consentire una “espansione” del diritto di manifestare la propria religione, secondo le modalità in questione, altrimenti (o, meglio, altrove) compromesso»[53]. In casi come questi si può operare una «valutazione pragmatica e condotta caso per caso, che consente di adottare misure proporzionate ai problemi pratici creati dall’uso del burqa e di rispettare fin dove possibile la libertà di religione e di espressione delle donne che intendono indossarlo»[54].
In secondo luogo, la Corte avrebbe potuto concentrare le proprie valutazioni sul rapporto intercorrente tra velo islamico e principio della dignità della donna che lo indossa.
Dal punto di vista religioso, infatti, il velo islamico ha un fondamento coranico[55], intimamente collegato al principio di dignità della donna. Dietro alla parola hijab, a cui si riferisce il velo che copre le spalle e il capo, «vi è il significato di coprire, celare, ma non solo nel senso materiale bensì anche spirituale, ovvero come manifestazione di purezza e castità da parte della donna»[56], che, con il Profeta, diventa un indice dell’appartenenza religiosa femminile. Dall’altro lato, il velo integrale, escludendo la possibilità di vedere il volto della persona, copre e annulla la sua identità e, in tal senso, comprime la sua dignità, impedendo qualunque forma di socializzazione[57].
Al riguardo, la Corte di Strasburgo, ha così riconosciuto che il divieto generalizzato certamente intacca sia il diritto alla vita privata, protetto dall’art. 8 della Cedu, che la libertà religiosa, protetta dall’art. 9[58], ma ha anche ritenuto che «la Francia ha un ampio margine di apprezzamento» (par. 155) in quanto la restrizione imposta rientra in quelle «misure necessarie in una società democratica … per la protezione dei diritti e della libertà altrui», che entrambi gli articoli autorizzano. In concreto, coprire il volto viola – secondo la Corte – il «diritto altrui ad abitare uno spazio di socializzazione che facilita il vivere insieme» (par. 122). La Corte EDU, così, concentrandosi sull’analisi di «un’eventuale lesione della dignità degli altri individui»[59] e ritenendo che la libera volontà della donna che indossa tale indumento escluda direttamente ogni tipo di lesione della sua dignità, ha individuato nel principio di fraternità e a quello, assai incerto, di vivre ensemble[60], il criterio più persuasivo per dichiarare la legittimità della legge francese[61].
5. La compatibilità del velo integrale e del burkini con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Osmanoğlu e Kocabaş c. Svizzera del 2017
Anche i fatti che hanno portato la Corte europea di Strasburgo a pronunciarsi nel caso Osmanoğlu e Kocabaş c. Svizzera hanno visto due cittadini svizzeri, di origine turca, fedeli della religione musulmana, denunciare per violazione dell’art. 9 CEDU le autorità scolastiche che, innanzi alla loro richiesta, si sono visti negare l’esonero per le figlie da un corso di nuoto obbligatorio a cui partecipavano studenti di entrambi i sessi. Pure in questo caso, dunque, il tema dei simboli religiosi e «dell’abbigliamento religioso mostra tutta la sua scivolosità se si considera che nemmeno nel contesto culturale islamico vi è accordo sui simboli e sulle situazioni da considerarsi accettabili o legittime»[62]. In questo caso, poi, al di là dei profili connessi al diritto di libertà religiosa, emerge anche il tema del riconoscimento dei diritti del minore nelle questioni educative e negli spazi preposti all’istruzione. Infatti, il sistema educativo non può che essere un banco di prova per testare la salute della democrazia, il rispetto e la garanzia dei diritti fondamentali che entrano in gioco in questo particolare settore, nonché il grado di riconoscimento della diversità culturale e religiosa esistente in un Paese. Nella scuola, oltre a trasmettersi conoscenze, si forma la cittadinanza, si apprendono comportamenti, atteggiamenti e valori democratici, si impara il rispetto per i diritti degli altri a garanzia di una pacifica convivenza. Quanto maggiore è la diversità che esiste in una società tanto più ampio e intenso deve essere lo sforzo delle istituzioni pubbliche teso a trasmettere le regole di comportamento e gli atteggiamenti che assicurano un’educazione rispettosa di codici di valore e stili di vita differenti. Indubbiamente, però, al diritto dei genitori di dare ai figli un’educazione quanto più possibile conforme ai propri convincimenti morali e religiosi, imponendo agli Stati di rispettare tale diritto nell’esercizio delle proprie funzioni educative, fa eco e si frappone, un legittimo interesse degli Stati a promuovere, attraverso progetti educativi scolastici, i principi ed i valori che devono informare (anche le più elementari) regole di convivenza, le quali non solo non sono sancite all’interno delle Costituzioni nazionali, ma sono altresì confermate dagli impegni internazionali assunti dagli Stati al fine di tutelare i diritti umani e le libertà fondamentali. In tale contesto, in una posizione intermedia tra i diritti dei genitori e gli interessi degli Stati si colloca l’interesse del minore, che non solo favorisce un dialogo tra le posizioni contrapposte, ma risulta essere titolare del diritto alla libertà religiosa e di educazione[63].
Così, in questo caso, la Corte EDU ha basato la propria decisione sul superiore interesse del minore, che apre un varco sui diritti riconosciuti ai minori nel sistema internazionale di tutela dei diritti umani, in un processo di bilanciamento che vede coinvolti il diritto di libertà religiosa (dei genitori) e il diritto all’uguaglianza e alla non discriminazione legate al sesso e alla religione (delle bambine), nonché il diritto all’istruzione – da intendersi nella sua dimensione collettiva.
Nel caso di specie, dunque, la Corte EDU è stata investita dai genitori delle bambine in età prepuberale della lunga querelle giudiziaria iniziata nei confronti delle autorità scolastiche pubbliche svizzere. Alla direttiva scolastica che, per venire incontro alle specifiche esigenze religiose delle famiglie, ha previsto che le alunne siano dispensate dai corsi obbligatori di ginnastica e di nuoto[64] solo dopo il raggiungimento dell’età della pubertà[65], i due ricorrenti, descritti nella sentenza come «ferventi praticanti della religione musulmana», chiedevano una immediata dispensa per le loro figlie dai corsi di nuoto misti, facendo valere un impedimento di ordine religioso. Ciò perché, pur ammettendo che non esiste alcuna prescrizione del Corano che imponga di coprire il corpo femminile prima del raggiungimento della pubertà, da una parte sentivano il dovere di preparare le loro figlie al rispetto dei precetti che in seguito le figlie avrebbero dovuto seguire e, dall’altra, ritenevano inaccettabile l’uso del burkini che, pur avendo un significato psicologico e simbolico molto profondo, avrebbe stigmatizzato e isolato le loro figlie.
Così, nonostante i ripetuti inviti della direttrice della scuola e del capo Dipartimento dell’Istruzione pubblica a tornare sulle proprie posizioni e a cercare di trovare un compromesso, i genitori continuavano a sostenere che il proprio diritto di educare le bambine dovesse prevalere sulle scelte dell’istituto scolastico. Pertanto, nonostante la scuola avesse ricordato ai genitori anche la possibilità di far indossare il burkini, i ai genitori che ritenendo inaccettabile una soluzione che a detta loro avrebbe stigmatizzato le loro figlie, veniva comminata una sanzione pecuniaria[66] per aver impedito alle figlie di frequentare i corsi di nuoto. Anche in questo caso la Corte di Strasburgo, chiamata a pronunciarsi, ha stabilito che le misure adottate dalla scuola sono state proporzionate all’obiettivo perseguito nell’interesse del minore a una scolarizzazione completa che permetta la socializzazione e l’integrazione delle bambine. L’argomentazione, consapevole del dibattito attuale sui simboli religiosi islamici nello spazio pubblico (in questo caso il burkini) e rispettosa della libertà di religione, si fonda sull’interesse all’integrazione e al rispetto dei valori della cultura locale, nonché sull’importanza di seguire i corsi di nuoto per ragioni di socializzazione, sicurezza e uguaglianza di opportunità fra donne e uomini. Appare chiaro che anche in questa decisione la Corte di Strasburgo ha esaminato la proporzionalità della misura e l’impatto lesivo che può produrre sui diritti in gioco. Tenendo presente che ad essere prioritario in questo caso deve essere l’interesse del minore all’istruzione la Corte di Strasburgo, pur sottolineando che la libertà educativa dei genitori costituisce uno dei profili attraverso i quali si manifesta il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, ha affermato che non vi è stata violazione dell’art. 9 CEDU.
6. Conclusioni
Si può dire che la sintesi che unisce laicità e libertà religiosa all’interno di un comune quadro democratico di riferimento è costituita dalla convergenza di entrambe a garantire la legittima coesistenza di una pluralità di posizioni. Al di fuori di tale convergenza, infatti, la società cessa di essere democratica ed esprime piuttosto valori autoritari ma difficilmente compatibili con il sistema della Convenzione. Così, quale che sia nel concreto l’interpretazione nazionale del principio di laicità. È certo che dallo stesso non può scaturire una qualsiasi mutilazione o affievolimento dei diritti soggettivi che la Convenzione intende salvaguardare. Come si è visto, gli Stati europei hanno spesso affrontano le questioni relative alle manifestazioni fideistiche personali nella sfera pubblica in modo differente. Infatti, se il punto di partenza per gestire i complessi problemi delle società multietniche e multiculturali è il medesimo, vale a dire il costituzionalismo liberale, diverso è l’atteggiamento nell’affrontare il problema religioso, tant’è che diverso risulta il concreto bilanciamento degli interessi in gioco quando occorre stabilire entro quali limiti vi può legittimamente essere una compressione del diritto di libertà religiosa. Ad esempio, in Francia e in Belgio, a partire dal 2011, è stata introdotta una nuova normativa volta ad impedire l’utilizzo del velo integrale, quali il niqab[67] e il burqa[68], ovvero indumenti idonei a nascondere il viso in pubblico, che acuisce i problemi scaturenti dall’utilizzo del velo islamico e dal connesso suo divieto generalizzato. In particolare, l’art. 1 della legge in esame stabilisce che «nessuna persona, in pubblico, può indossare indumenti al fine di celare il suo volto». Al riguardo, poi, una circolare del Primo Ministro del 2 marzo 2011 precisa anche che tale divieto si intende esteso a qualunque accessorio o capo di abbigliamento che, indipendentemente dalle «intenzioni di chi lo indossa, rende impossibile riconoscere la sua identità».
Diversamente dal hijab, che si limita a coprire le spalle e il capo di chi lo indossa, permettendo di riconoscere la persona che lo porta, anche il velo integrale, nelle sue diverse forme, è vietato dalla legge francese perché non solo non consente di identificare chi lo indossa, con i relativi problemi di ordine pubblico, ma si pone altresì quale ostacolo alla socializzazione e all’interazione con gli altri.
Queste motivazioni tendono a tracciare un chiaro «confine di compatibilità-incompatibilità»[69] del burqa con i principi ordinamentali. Di certo si tratta di un confine che «si fa flessibile e si sposta continuamente a seconda dell’ottica in cui ci si pone: della sicurezza pubblica, dell’eguaglianza tra uomo e donna, della dignità della donna, della libertà religiosa, e via di seguito»[70].
Del resto, l’accoglimento o meno delle richieste in tema di velo integrale è strettamente connesso con la visione della donna presso le correnti più integraliste dell’Islam ed è sintomo «di una situazione di sottomissione della donna all’uomo»[71]. A fronte di tali problemi, sovente è emerso un «[…] atteggiamento ambiguo nel quale trovano coagulo gli equivoci del multiculturalismo: la tolleranza verso costumi che non accetteremmo mai da altre religioni o tradizioni culturali; il non voler riconoscere che la copertura totale del volto si traduce in una umiliazione della donna, la isola dall’ambiente esterno, impedisce la sua specializzazione; l’accettazione dei profili più regressivi di alcune tradizioni che cristallizzano alcune negatività storiche invece di evolvere verso forme superiori di convivenza.»[72];alla luce di questi elementi appare chiaro che «evitare una scelta di valore sulla questione del burqa vuol dire tacere sulla condizione delle donne che ne sono vittime, o per diretta pressione degli elementi maschili a loro vicini, o per subalternità ad una cultura compressiva dei loro diritti»[73]. Per questo è auspicabile un cambiamento culturale che favorisca il superamento di concezioni basate su «un’interpretazione arbitraria dei testi religiosi», e che, piuttosto, si fondi «sull’argomentazione e sul convincimento», teso a far evolvere e non a regredire[74]. La maggior parte dei Paesi europei ha fino ad ora preferito astenersi dall’imporre divieti di carattere assoluto «seguendo la linea suggerita dalle istituzioni europee, volta a contenere il fenomeno facendo leva sulle “armi” democratiche dell’educazione e del dialogo, piuttosto che su quelle legislative»[75].
Ciò che emerge è il crescente sviluppo della tutela dei diritti dell’uomo, a livello internazionale e in ambito europeo, atto a fornire un quadro essenzialmente uniforme al cui interno ancora sussistono margini d’azione degli Stati. Le istituzioni europee spesso si sono pronunciate sulla questione del velo con particolare cautela anche se, in alcuni casi, hanno assunto un atteggiamento tendenzialmente contrario a un divieto generalizzato. Non a caso, con la Risoluzione n. 1743 del 2010 l’Assemblea del Consiglio d’Europa, sottolineando che il velo indossato dalle donne, soprattutto quello integrale, è spesso interpretato come manifestazione della sudditanza delle donne agli uomini, ha osservato da una parte che divieti generalizzati inciderebbero anche sulla posizione giuridica delle donne che liberamente desiderano indossare un velo integrale e, dall’altra che gli stessi potrebbero avere un effetto negativo, ossia determinare una maggiore pressione da parte della famiglia e delle comunità, costringendo le donne a rimanere in casa e a limitare i contatti con altre persone. Per questi motivi, l’assemblea ha invitato gli Stati a sviluppare politiche mirate a sensibilizzare sui diritti delle donne musulmane, ad aiutare queste donne a prendere parte alla vita pubblica, ad offrire loro pari opportunità nell’intraprendere la vita professionale e nella acquisizione dell’indipendenza sociale ed economica. Anche la Raccomandazione n. 1927 del 2010 ha invitato gli Stati membri ad evitare un divieto generale del velo integrale o di altri indumenti religiosi, cercando, invece, di proteggere le donne da ogni costrizione fisica e psicologica, nonché di tutelare la loro libera scelta di indossare abiti religiosi, garantendo pari opportunità nella partecipazione alla vita pubblica. Al tempo stesso, la Raccomandazione ha precisato che la libertà di espressione può subire restrizioni legali nel caso in cui esse siano necessarie in una società democratica, per tutelare la sicurezza o nei casi in cui la funzione pubblica o professionale delle persone richieda una neutralità religiosa o la visibilità del proprio viso. Pertanto, gli Stati sono stati invitati a garantire la libertà di espressione delle donne sanzionando, da un lato, tutte le forme di coercizione, di oppressione o violenza che costringono le donne a indossare il velo o il velo integrale, e creando, dall’altro, le condizioni sociali ed economiche che consentano alle donne di fare delle scelte informate attraverso la promozione di specifiche politiche.
Così, anche la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, pur rimanendo fedele, in linea di principio, alla dottrina del margine di apprezzamento, ha assunto progressivamente – proprio per effetto della crescente eterogeneità delle tradizioni culturali dei paesi facenti parte del Consiglio d’Europa – un ruolo creativo di fissazione degli standard unitari di tutela dei diritti fondamentali.
Dunque, a livello europeo si registra la forte tendenza a contrastare le pratiche palesemente lesive dei diritti fondamentali della persona, senza impedire l’uso di un indumento religioso «quando questo sia liberamente scelto dalla donna come manifestazione della sua identità culturale, e non sia palesemente in conflitto con le disposizioni normative dell’ordinamento ospitante»[76]. La giurisprudenza della Corte EDU tende pertanto a seguire una strada di compromesso. Mostra cautela di fronte alle posizioni più radicali e, allo stesso tempo, cerca di valorizzare adeguatamente le questioni inerenti alla libertà religiosa e al riconoscimento delle diversità culturali e religiose. In questo senso, la questione dei simboli religiosi è emblematica dei mutamenti di civiltà cui stiamo assistendo e dell’evoluzione o metamorfosi del principio di laicità o neutralità confessionale in Europa[77].
In conclusione si può affermare che l’orientamento emergente dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo tende a coniugare la presenza e la visibilità dei simboli religiosi nei luoghi pubblici con le esigenze, anch’esse funzionali alla tutela di un crescente pluralismo religioso e ideologico, imposte dalla protezione dei diritti e delle libertà fondamentali altrui ed il mantenimento dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza.
[1] S. FERRARI, I simboli religiosi nello spazio pubblico, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2, 2012, p. 317 e ss.
[2] C. CARDIA, Il simbolo religioso e culturale, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica, (www.statoechiese.it), n. 23 del 2012, p. 10.
[3] Cfr. P. CAVANA, Laicità e simboli religiosi, in AA. VV., Lessico della Laicità, a cura di G. DALLA TORRE, Studium, Roma, 2007; ID., I segni della discordia. Laicità e simboli religiosi in Francia, Giappichelli, Torino, 2004; R. COPPOLA, Libertà delle confessioni e simboli religiosi, in AA. VV., Diritto ecclesiastico e Corte Costituzionale, a cura di R. BOTTA, ESI, Napoli, 2006, p. 81 e ss.; S. FERRARI, Islam ed Europa. I simboli religiosi nei diritti del vecchio continente, Carocci, Roma, 2006.
[4] Cfr. J. CASANOVA, Public Religions in the Moder World, The University of Chicago Press, Chicago 1994(trad. it. Oltre la secolarizzazione: le religioni alla riconquista della sfera pubblica, il Mulino, Bologna, 2000).
[5] Cfr. G.KEPEL, La revanche de Dieu. Chrétiens, juifs et musulmans à la reconquête du monde, Le Seuil, Paris, 1991.
[6] P. CAVANA, I simboli religiosi nello spazio pubblico nella recente esperienza europea, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), ottobre 2012.
[7] S. FERRARI, La Corte di Strasburgo e l’articolo 9 della Convenzione europea. Un’analisi quantitativa della giurisprudenza, in AA. VV., Diritto e religione in Europa. Rapporto sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di libertà religiosa, a cura di R. Mazzola, il Mulino , Bologna, 2012, p. 27 ss.; J.MARTÍNEZ-TORRÓN, La (non) protezione dell’identità religiosa dell’individuo nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, ivi, p. 55 ss.; P.VOYATZIS, Pluralismo e libertà di religione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ivi, p. 103 ss.; M.VENTURA, Conclusioni. La virtù della giurisdizione europea sui conflitti religiosi, ivi, p. 293 ss.
[8] In dottrina, il criterio del margine di apprezzamento è stato definito quale misura di discrezionalità concessa agli Stati membri per dare attuazione alle norme della Convenzione, tenendo conto delle specifiche situazioni e condizioni nazionali. In particolare, esso mira a realizzare un bilanciamento tra l’adempimento degli obblighi pattizi e la tutela di altre esigenze statali interne. Tale principio prevede, dunque, che sia rispettata l’eterogeneità che contraddistingue le diverse nazioni europee, motivo per il quale l’attività della giurisdizione di Strasburgo deve presentarsi come elastica e tendente al rispetto della sfera di autonomia che deve essere garantita alle nazioni medesime. Cfr. D. DURISOTTO, Istituzioni europee e libertà religiosa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, ottobre 2016; F. DONATI e P. MILAZZO, La dottrina del margine di apprezzamento nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, in AIC, Rivista telematica (www.archivio.rivistaaic.it).
[9] Caso Leyla Şahin c. Turchia, Corte EDU, Grande Camera, 10 novembre 2005, ric. n. 44774/98. «In una società democratica, nella quale coesistono numerose religioni all’interno della stessa popolazione, può essere necessario porre restrizioni alla libertà di manifestare la propria religione o credo al fine di conciliare gli interessi di vari gruppi e assicurare che siano rispettate le convinzioni di ciascuno. Nell’esaminare la questione del velo islamico nel contesto turco, non si può prescindere dall’impatto che può avere indossare un tale simbolo, presentato o percepito come un obbligo religioso, su coloro che lo indossano. In tale contesto, dove i valori del pluralismo, del rispetto dei diritti altrui e, in particolare, della parità tra uomo e donna dinnanzi alla legge sono insegnati e applicati nella pratica, è comprensibile che le autorità competenti abbiano voluto preservare il carattere laico degli istituti e considerare contrario a tali valori indossare abiti religiosi, incluso, come nella fattispecie, il velo islamico».
[10] Caso Dogru c. Francia. La Corte lega le sue decisioni al contesto di quel determinato Stato contro il quale è stato sollevato ricorso, sia avendo riguardo al caso in esame, relativo alla Francia, sia al caso Leyla Şahin c. Turchia. In questa fattispecie i giudici hanno «preso atto del fatto che la laicità in Turchia costituiva il garante dei valori democratici e dei principi di inviolabilità della libertà di religione e di uguaglianza, che mirava allo stesso tempo a proteggere l’individuo non soltanto dalle ingerenze arbitrarie dello Stato, ma anche da pressioni esterne che emanano da movimenti estremisti e che la libertà di manifestare la propria religione poteva essere ristretta al fine di preservare tali valori. Essa ha concluso che una tale concezione della laicità sembrerebbe essere rispettosa dei valori alla base della Convenzione la cui salvaguardia può essere considerata come necessaria per la protezione del sistema democratico in Turchia».
[11] Così D. DURISOTTO, Istituzioni europee e libertà religiosa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2016. La Commissione individua una concezione di laicità che lascia alle autorità la possibilità di restringere ad libitum i diritti dei cittadini, per di più sulla base di ipotetici, astratti e paventati pericoli, che poco hanno a che vedere con le limitazioni previste dall’art. 9 CEDU e ciò attraverso una interpretazione della Convenzione che rimane saldamente ancorata alla “necessità di considerare il contesto storico e nazionale nel quale si situa la fattispecie sottoposta al suo esame, la natura e la tradizione dello Stato nel quale essa si è presentata, il valore del dato quantitativo religioso in quel determinato Paese e il criterio di proporzionalità che il provvedimento impugnato deve presentare rispetto ad altri criteri. Per ulteriori approfondimenti, cfr. C. CARDIA, Identità religiosa e culturale europea. La questione del crocifisso. In secondo luogo, la Commissione individua le ragioni del divieto di indossare indumenti legati all’appartenenza religiosa nella necessità di evitare una pressione eccessiva su coloro che non praticano quel dato credo e, quindi, nella necessità di evitare un uso generalizzato del velo islamico, per non creare difficoltà a chi non vuole indossarlo.
[12] Nell’esperienza francese l’espressione laïcité che indica essenzialmente «une conception politique impliquant la séparation de la société civile [de l’État] et de la société religieuse», la presenza di simboli religiosi nei luoghi pubblici viene intesa quasi come una sfida al primato dello Stato e dei suoi valori sulla società civile e come un vulnus ad una sorta di sacralità laica dello spazio pubblico. Così nel 2004 è stato introdotto il divieto per gli alunni di portare simboli religiosi nelle scuole pubbliche. Inoltre, anche la successiva legge n° 2010-1192 du 11 octobre 2010 interdisant la dissimulation du visage dans l’espace public, ha disposto il divieto di indossare nello spazio pubblico abiti che nascondano il viso (art. 1), estendendo a dismisura l’area di applicazione spaziale dei vincoli di uniformità dettati dal principio di laicità (art. 2). Cfr. S.FERRARI, La Corte di Strasburgo e l’articolo 9 della Convenzione europea. Un’analisi quantitativa della giurisprudenza, in AA. VV., Diritto e religione in Europa. Rapporto sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di libertà religiosa, a cura di R. MAZZOLA, il Mulino, Bologna, 2012, p. 27 ss.
[13] Corte EDU 4 dicembre 2008, ric. n. 27058/5, Dogru c. Francia, par. 17. La Corte approfondisce in modo dettagliato i percorsi storico-giuridici che hanno portato la Francia a definire il concetto di laicità, partendo dalla Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, fino alla Legge di Separazione del 1905 e ai più recenti interventi della Costituzione e della legislazione ordinaria. Si rinviene una precedente fattispecie riguardante il velo anche nel caso El Morsli c. Francia.
[14] D. DURISOTTO, Istituzioni europee e libertà religiosa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2016. Ciò emerge nel caso Ahmet Arslan e a. c. Turchia del 2010, sollevato da un gruppo di fedeli, denominato Aczimendi tarikatÿ, condannati per aver indossato dei turbanti identificativi della propria appartenenza religiosa mentre si dirigevano alla moschea per partecipare ad una funzione. Questa pronuncia si differenzia dai precedenti casi sul velo per due aspetti. Anzitutto, ha riguardato comuni cittadini e non soggetti preposti ad una funzione pubblica; il gruppo di fedeli, inoltre, si trovava al momento dell’arresto nella pubblica via e non in un edificio pubblico.
[15] Così P. PALERMO, Islam e shari’a tra libertà alla diversità religiosa. Una sintesi sulle possibili prospettive europee di convergenza, in Forum di Quaderni Costituzionali, Rivista telematica (www.forumcostituzionale.it), 23 maggio 2010, p. 4.
[16] Così L. P. VANONI, I simboli religiosi e la libertà di educare in Europa, in Rivista AIC, Rivista telematica (www.rivistaaic.it), luglio 2010, p. 29.
[17] Giacché l’utilizzo di tale simbolo religioso sarebbe in contrasto con l’art. 6 della Legge sull’istruzione pubblica del Cantone del 1940 che «garantisce il rispetto delle convinzioni politiche e confessionali degli alunni e dei genitori».
[18] «The Court accepts that it is very difficult to assess the impact that a powerful external symbol such as the wearing of a headscarf may have on the freedom of conscience and religion of very young children. The applicant’s pupils were aged between four and eight, an age at which children wonder about many things and are also more easily influenced than older pupils. In those circumstances, it cannot be denied outright that the wearing of a headscarf might have some kind of proselytising effect, seeing that it appears to be imposed on women by a precept which is laid down in the Koran and which, as the Federal Court noted, is hard to square with the principle of gender equality. It therefore appears difficult to reconcile the wearing of an Islamic headscarf with the message of tolerance, respect for others and, above all, equality and non-discrimination that all teachers in a democratic society must convey to their pupils». Così CEDU, IIᵉ section, Dahlab c. Suisse (n° 42393/98), décision sur la recevabilité, 15 fevrier 2001.
[19] La laicità come esclusione della religione dalla sfera pubblica è stata spesso intesa come un baluardo a protezione della democrazia, in grado di legittimare, come un istituto emergenziale, una forte compressione di diritti e libertà fondamentali. Cfr. P. CAVANA, I simboli religiosi nello spazio pubblico nella recente esperienza europea, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica, www.statoechiese.it, n. 28/2012, 1° ottobre 2012, p. 12 .
[20] Dove pure, in rapporto al principio del margine di apprezzamento, si è sottolineato che «lorsque se trouvent en jeu des questions sur les rapports entre l’Etat et les religions, sur lesquelles de profondes divergences peuvent raisonnablement exister dans une société démocratique, il y a lieu d’accorder une importance particulière au rôle du décideur national (…). Tel est notamment le cas lorsqu’il s’agit de la réglementation du port de symboles religieux dans les établissements d’enseignement, d’autant plus, (…), au vu de la diversité des approches nationales quant à cette question. En effet, il n’est pas possible de discerner a travers l’Europe une conception uniforme de la signification de la religion dans la société (…) et le sens ou l’impact des actes correspondant à l’expression publique d’une conviction religieuse ne sont pas les mêmes suivant les époques et les contextes (…). La réglementation en la matière peut varier par conséquent d’un pays à l’autre en fonction des traditions nationales et des exigences imposées par la protection des droits et libertés d’autrui et le maintien de l’ordre public. Dès lors, le choix quant à l’étendue et aux modalités d’une telle réglementation doit, par la force des choses, être dans une certaine mesure laissé à l’Etat concerné, puisqu’il dépend du contexte national considéré». Cfr. Corte EDU, 29 giugno 2004, Ric. n. 44774/98.
[21] Cfr. A. BONCOMPAGNI, Il velo islamico di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo tra laicità e pluralismo, in Rivista di Studi Politici Internazionali, Vol. 74, n. 1, pp. 1010-119.
[22] La circolare, datata 23 febbraio 1998, afferma che «ai sensi della Costituzione, della legge, dei regolamenti, e conformemente alla giurisprudenza del Consiglio di Stato, della Commissione europea dei Diritti dell’Uomo ed alle decisioni adottate dai comitati amministrativi delle università, le studentesse che hanno “la testa coperta” (che portano il foulard islamico) e gli studenti che portano la barba (compresi gli studenti stranieri) non devono essere accettati ai corsi, tirocini ed esercitazioni”. La circolare poi continua, affermando che, laddove gli studenti “persistono a non voler uscire dalle aule dei corsi, l’insegnante redige verbale che constata la situazione e […] porta ugualmente la situazione a conoscenza dell’autorità dell’università per la sanzione».
[23] L’art. 130 della Costituzione turca riconosce le Università come persone giuridiche di diritto pubblico, dotate di autonomia, sotto il controllo dello Stato, che si traduce con la presenza al loro vertice di organi di direzione, tale il rettore, che dispone dei poteri attribuiti dalle leggi, tra cui appunto la già citata legge n. 2547 del 1998. Per quanto riguarda le sentenze: sentenza del 19 marzo del 1999 del Tribunale amministrativo di Istanbul: successivamente il Consiglio di Stato, con sentenza del 19 aprile del 2001, respinse il ricorso in appello presentato dalla studentessa.
[24] Anche contro le sanzioni disciplinari fu presentato ricorso in annullamento presso il Tribunale amministrativo di Istanbul, che però lo respinse (sentenza del 30 novembre 1999).
[25] La ricorrente ha affermato che, indossando il velo, obbediva a un precetto religioso e manifestava in tal modo il suo desiderio di rispettare rigorosamente i doveri imposti dalla fede islamica. Di conseguenza, la sua decisione di indossare il velo può essere considerata come motivata o ispirata da una religione o da convinzioni personali e, senza decidere se tali decisioni siano in ogni caso necessarie per adempiere ad un dovere religioso, la Corte parte dal presupposto che la normativa di cui trattasi, che ha posto restrizioni quanto al luogo e alla modalità di esercizio del diritto di indossare il velo islamico nelle università, comporti un’interferenza col diritto della ricorrente a manifestare la sua religione. […]. La Corte dichiara che vi era nel diritto turco una base per l’interferenza. […] Sarebbe dovuto essere chiaro alla ricorrente, dal momento in cui è entrata all’Università di Istanbul, che vi erano regolamenti in materia di utilizzo del velo islamico e che, dal 23 febbraio 1998, le poteva essere rifiutato l’accesso alle lezioni se lei avesse continuato ad utilizzarlo. […] Tenuto conto delle circostanze del caso e delle modalità delle decisioni dei tribunali nazionali, la Corte ritiene che la misura impugnata perseguisse principalmente gli obiettivi legittimi di tutela dei diritti e delle libertà degli altri e di tutela dell’ordine pubblico. […] La Corte rileva che, nelle decisioni Karaduman c. Turchia […] e Dahlab c. Svizzera […], gli organi della Convenzione hanno affermato che in una società democratica lo Stato può imporre restrizioni all’utilizzo del velo islamico se esso risulta incompatibile con l’obiettivo di tutelare i diritti e le libertà altrui, l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica. […] Nel caso Dahlab, in cui la ricorrente era un’insegnante responsabile per una classe di bambini, [la Corte] ha evidenziato tra l’altro l’impatto che il «forte simbolo religioso esterno» veicolato dal suo utilizzo del velo poteva generare, dato che sembrava essere imposto alle donne da un precetto stabilito nel Corano, il quale era difficile da conciliare con il principio della parità di genere. Al fine di valutare la «necessità» dell’interferenza causata dalla circolare del 23 febbraio 1998 che impone restrizioni riguardo al luogo e alle modalità di esercizio dei diritti delle studentesse […] la Corte deve porre la circolare nel suo contesto giuridico e sociale ed esaminarla alla luce delle circostanze del caso di specie. […] La Corte nota l’enfasi posta sulla protezione dei diritti delle donne nel sistema costituzionale turco […]. La parità di genere, riconosciuta dalla Corte europea come uno dei principi fondamentali che ispirano la Convenzione è un obiettivo da raggiungere da parte degli Stati membri del Consiglio d’Europa, […] è stata considerata dalla Corte costituzionale turca come un principio implicito nei valori sottostanti alla Costituzione […]. Inoltre, come la Corte costituzionale […], la Corte [europea] ritiene che, nell’esaminare la questione del velo islamico nel contesto turco, si debba ricordare l’impatto che l’uso di un tale simbolo, presentato o percepito come un dovere religioso obbligatorio, può avere su coloro che scelgono di non indossarlo. […] La Corte non perde di vista il fatto che ci sono movimenti politici estremisti in Turchia, che cercano di imporre alla società nel suo insieme i loro simboli religiosi e la concezione di una società fondata sui precetti religiosi […]. Alla luce di quanto precede, il principio di laicità […] è la considerazione fondante il divieto di indossare i simboli religiosi nelle università. È comprensibile che in un contesto dove vengono insegnati e applicati i valori del pluralismo, il rispetto dei diritti degli altri e, in particolare, l’uguaglianza di fronte alla legge tra uomini e donne, le autorità competenti abbiano considerato che sarebbe stata in contrasto con la promozione di tali valori l’accettazione dell’uso di segni distintivi religiosi e del fatto che, come nel caso di specie, le studentesse si coprano il capo con un velo all’interno di locali universitari. Alla luce di quanto precede e tenuto conto, in particolare, del margine di apprezzamento lasciato agli Stati contraenti, la Corte ritiene che i regolamenti dell’Università di Istanbul che hanno imposto delle restrizioni quanto all’uso del velo islamico, nonché gli strumenti adottati per la loro attuazione, siano giustificati in linea di principio e proporzionati agli obiettivi perseguiti e, quindi, possono essere considerati come «necessari in una società democratica».
[26] M. SALVETTI, La Corte di Strasburgo parla di laicità. La problematica dei simboli religiosi nello spazio pubblico alla luce dell’incidenza del diritto sopranazionale sull’ordinamento italiano, in Diritto e Religioni, II, 2010, p. 264 e ss.
[27] CEDU, Grande Chambre, Leyla Sahin c. Turquie(n° 44774/98), arrêt, 10 novembre 2005, nn. 113-114. cfr. per una argomentazione analoga CEDU, Vᵉ sez., Kervanci c. France (n° 31645/04), arrêt, 4 dicembre 2008, nn. 71-73.
[28] “La Cour constate en effet que l’interdiction de tous les signes religieux ostensibles dans les écoles, collèges et lycées publics a été motivée uniquement par la sauvegarde du principe constitutionnel de laïcité et que cet objectif est conforme aux valeurs sous-jacente à la Convention ainsi qu’à la jurisprudence en matière rappelée ci-dessous. (….). Dans ces conditions, la Cour estime que la sanction de l’exclusion définitive d’un établissement scolaire public n’apparaît pas disproportionnée. Elle constate par ailleurs que l’intéressée avait la possibilité de poursuivre sa scolarité dans un établissement d’enseignement à distance, dans un établissement privé ou dans sa famille selon ce qui lui a été expliqué, avec sa famille, par les autorités scolaires disciplinaires. Il en ressort que les convictions religieuses de la requérante ont été pleinement prises en compte face aux impératifs de la protection des droits et libertés d’autrui et de l’ordre public». Così CEDU, Vª section., Tuba Aktas c. France(n° 43563/08), décision sur la recevabilité, 30 juin 2009. Cfr. CEDU, Bayrak c. France(n° 14308/08), Gamaleddyn c. France(n° 18527/08), Ghazal c. France(n° 29134/08), J. Singh c. France(n° 25463/08), R. Singh c. France(n° 27561/08).
[29] L’uso uniforme nelle scuole di simboli religiosi è motivato dalla necessità di armonizzare le differenze tra i gruppi religiosi, di evitare una classificazione degli studenti in base alla loro appartenenza religiosa e infine di creare una comune identità.
[30] Sentenza della Corte costituzionale turca del 7 marzo 1989, richiamata in Şahin c. Turchia § 39.
[31] Emblematico è il caso del Refah Partisi, partito di tendenza islamica, è stato sciolto dalla Corte costituzionale turca perché considerato «centro di attività nemiche del principio di laicità». Esso fu fondato nel 1983 ed ottenne un consenso molto ampio nelle elezioni politiche del 1995, vincendo le elezioni del 1996. La Corte Europea dei Diritti Umani si è pronunciata ben cinque volte su questo partito. L’ultima pronuncia è del 31 luglio 2001, in cui la Corte confermò lo scioglimento del partito deciso dalla Corte costituzionale turca, avvenuto in nome della democrazia, e non ravvisando nessuna violazione della libertà di espressione ex art. 11 CEDU. Lo scioglimento del Refah Partisi sulla base della violazione del principio di laicità è molto significativo. Emerge chiaramente da questa decisione, e altre simili, che è l’Islam con le sue regole ad essere giudicato incompatibile con la democrazia, e non la manifestazione della propria appartenenza religiosa. Difatti, l’intervento dello Stato sullo scioglimento dei partiti politici mira a preservare la natura laica dell’ordinamento ed è pertanto giudicato “necessario in una società democratica”.
[32] Così nella sentenza in esame: «Al di là di una semplice abitudine innocente, il foulard sta diventando il simbolo di una visione contraria alla libertà della donna ed ai principi fondamentali della Repubblica».
[33] Cfr. Leyla Şahin c. Turchia [GC], ric. n. 44774/98, 10 novembre 2005, CEDH 2005-XI, par. 78.
[34]Cardot c. Francia, sentenza del 19 marzo 1991, Serie A n. 200, p. 18, par. 34; Fressoz et Roire c. Francia [GC], n. 29183/95, par. 36-37, CEDU 1999-I.
[35] Parere sostanzialmente basato su quattro motivi: i) l’obbligo di frequenza (art. 10 della legge di orientamento sull’educazione n. 89-486 del 10 luglio 1989); ii) le disposizioni del regolamento interno del collegio (esse prevedevano che gli alunni dovevano vestirsi con una tenuta che «rispettasse le regole di igiene e di sicurezza» e di presentarsi ai corsi di educazione fisica e sportiva con una tenuta sportiva; iii) la nota di servizio n. 94-116 del 1994 (riguardava la sicurezza degli alunni durante la pratica delle attività scolastiche, la quale precisava che «il rispetto scrupoloso del regolamento che disciplina la responsabilità dei membri dell’insegnamento non fa venir meno l’ampio apprezzamento personale che è lasciato all’insegnante nella gestione delle situazioni concrete» e che «nell’ambito della conduzione del suo corso l’insegnante deve essere in grado di scovare e far cessare ogni comportamento degli alunni che possa divenire pericoloso e che non presenti un carattere di repentinità ed imprevedibilità»); iiii) la decisione del Consiglio di Stato del 1995.
[36] Corte europea dei diritti dell’uomo, V sez., 4 dicembre 2008, ric. 27058/05.
[37] Il Paese transalpino, infatti, è l’unico ad aver realizzato fin dal 1905, una totale separazione tra Stato e Chiesa. La questione del velo è considerata come minaccia contro tale separazione e come negazione della laicità. Di fronte al propagarsi delle polemiche all’interno del territorio francese, e prima che il caso Dogru giungesse dinanzi alla Cedu, il parlamento nel 2004 ha approvato una legge che bandisce i simboli religiosi dalle scuole statali francesi. La decisione è stata presa a larghissima maggioranza, perché hanno votato a favore sia la maggioranza (allora di centrodestra) sia l’opposizione socialista. Il governo ha più volte sottolineato che essa non mirava a colpire alcuna religione, ma intendeva difendere, appunto, la laicità dello Stato.
[38] G. GATTI, in AA. VV., Diritti fondamentali in Europa, a cura di P. MONZINI, A. LOLLINI, Il Mulino, Bologna, 2012.
[39] L’unico caso che ha avuto per oggetto il porto di indumenti che esprimono una credenza religiosa – ma non si trattava di porto del velo integrale – nello spazio pubblico e non in un luogo determinato è anche l’unico caso in cui la Corte EDU si è espressa in modo favorevole ai ricorrenti e si tratta del caso Ahmet Arslan e altri c. Turchia (ric. n. 41135/98 del 23 febbraio 2010). In tale circostanza la Corte EDU nel motivare la propria decisione si è riferita proprio a questo caso, citato dalla ricorrente, applicando tuttavia la tecnica del distinguishing. La Corte, così, ha precisato che non poteva trovare applicazione la propria giurisprudenza elaborata con riferimento agli insegnanti o agli studenti sia perché si trattava di semplici cittadini sia perché non si trovavano in un luogo specifico, ma sul suolo pubblico; ancora, che non poteva ritenersi che il fatto che i ricorrenti si fossero abbigliati in quel modo e si trovassero davanti a una moschea per partecipare a una cerimonia religiosa minacciasse l’ordine pubblico o che essi avessero fatto delle pressioni abusive ai passanti nell’intento di promuovere le loro convinzioni religiose.
[40] In tema G. GATTI, in AA. VV., Diritti fondamentali in Europa, a cura di P. MONZINI, A. LOLLINI, Bologna, 2012 per il quale il velo risulta «essere imposto alle donne da un precetto che è stabilito nel Corano e che […] è difficilmente compatibile con il principio della parità di genere».
[41] Così D. DURISOTTO, Istituzioni europee e libertà religiosa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2016, p. 182.
[42] Non essendo mai stata direttamente colpita dalla legge con una sanzione, la giovane donna musulmana si è presentata dinanzi alla Corte come una «vittima potenziale». Ella ha sostenuto infatti che la sua posizione potesse essere assimilata a quella dei ricorrenti dei casi Dudgeon v. United Kingdom (7527/76), Norris v. Ireland (10581/83), Modinos v. Cyprus (15070/89). In queste sentenze il giudice di Strasburgo, infatti, ha riconosciuto lo status di vittima a soggetti che, pur non essendo mai incorsi nelle sanzioni della legge, erano tuttavia stati messi di fronte al controverso dilemma se seguire le proprie convinzioni e violare la legge o adattarsi ad essa e rinnegare la loro identità. Così, la Corte EDU ha ammesso la legittimazione ad agire «per violazioni derivanti direttamente da una legge o da un provvedimento di carattere generale» anche in assenza di qualsiasi misura individuale di applicazione quando i ricorrenti siano costretti a «modificare la propria condotta a pena di essere perseguiti penalmente» o facciano parte «di una categoria di persone che rischia di essere direttamente colpita» dalla regolamentazione statale. Per quel che qui interessa, va segnalato che la nozione di “vittima potenziale” è già stata utilizzata dalla Corte EDU nei confronti di ricorrenti, non ancora vittime dirette, per i quali l’appartenenza a una data categoria dava la certezza di incorrere in una sanzione. Cfr. sul tema Tanase c. Moldavia, ric. n. 7/2008 del 27 aprile 2010, §104. In merito si vd. anche: Burden c. Regno Unito, [GC], ric. n. 13378/05 del 29 aprile 2008, Marckx c. Belgio, ric. n. 6833/74 del 13 giugno 1979 . Si veda altresì A. LICASTRO, I mille splendidi volti nella giurisprudenza di Strasburgo: “guardarsi in faccia” è condizione minima del “vivere insieme”, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), settembre 2014. Per l’Autore «l’apertura alle violazioni potenziali concorre […] ad accentuare la funzione “oggettiva” del meccanismo di tutela di Strasburgo”, conferendo così nuove sembianze al giudizio dinanzi alla Corte, alquanto dissomiglianti dal suo volto originario di rimedio ancorato alla salvaguardia di posizioni individuali (garantite dalla Convenzione) che si assumano, di volta in volta, concretamente ed effettivamente lese. Anche per questo aspetto, si rafforza l’analogia con il tipico giudizio di costituzionalità delle leggi, non focalizzato per definizione su una situazione concreta di violazione di un diritto, ma rivolto piuttosto ad un controllo astratto di norme, e quindi necessariamente proiettato su questioni di interesse generale, trascendenti la portata del caso particolare da cui il giudizio trae spunto».
[43] Così D. DURISOTTO, Istituzioni europee e libertà religiosa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2016, p. 182.
[44] Art. 1: «Nessuno può indossare negli spazi pubblici capi di abbigliamento che nascondono il volto».Tale divieto, come precisa la successiva circolare del Primo Ministro del 2 marzo 2011, si estende a qualunque «accessorio» o «capo di abbigliamento» che, indipendentemente dalle «intenzioni di chi lo indossa, rende impossibile riconoscere la sua identità». Per ciò che riguarda il significato di «spazio pubblico», l’art. 2 stabilisce invece che questa nozione si riferisce sia alle strade pubbliche sia ai luoghi che sono aperti al pubblico o assegnati al servizio pubblico. A questo proposito, la circolare ministeriale sopra ricordata precisa che il divieto non può estendersi a coloro che, pur coprendosi il volto nelle strade pubbliche, lo facciano all’interno di automobili private. L’art. 2 stabilisce altresì che il divieto non si applica in quei casi nei quali il capo di abbigliamento in oggetto è prescritto o autorizzato dalla legge. Quando è ad esempio autorizzato dal codice della strada per ragioni di sicurezza o è giustificato da considerazioni che riguardano la salute e la sicurezza sul lavoro. In modo analogo, la disciplina non si applica in tutti quei casi in cui la copertura del volto avviene in contesti sportivi o è legata a pratiche che fanno parte di eventi artistici o festività, quali ad esempio processioni religiose legate a manifestazioni tradizionali. L’art. 3, infine, disciplina le sanzioni connesse alla violazione del divieto, che la legge fissa nel pagamento di una somma pari a 150 euro.
[45] Caso S. A. S. c. Francia, cit., par. 139.
[46] Nel caso S.A.S. c. Francia, si osserva che il volto svolge un ruolo importante nell’interazione sociale. Essa comprende il punto di vista secondo cui coloro i quali si trovano in luoghi aperti a tutti potrebbero non desiderare vedere lo sviluppo di pratiche o atteggiamenti che potrebbero mettere in discussione la possibilità di relazioni interpersonali aperte, la quale, in virtù di un consenso affermato, si configura come un indispensabile elemento della vita in comunità all’interno della società in questione. La Corte è quindi in grado di accettare che la barriera sollevata nei confronti degli altri attraverso un velo che nasconde il volto sia percepita dallo Stato convenuto come una violazione del diritto degli altri a vivere in uno spazio di socializzazione che rende più facile la convivenza.
[47] La Corte rileva due ulteriori argomenti a sostegno della propria tesi, che suscitano non pochi dubbi in dottrina. La considerazione del «carattere lieve della pena» previsto dalla legge francese in caso di violazione degli obblighi da essa imposti, viene ripresa dai giudici di Strasburgo quale elemento di valutazione al fine di escludere la violazione dell’art. 9. Tale considerazione, però, non esclude «lo stato di fatto originato da una condotta statale, ivi inclusa l’emanazione di una disposizione legislativa, che si estende nel tempo» (C. PITEA, Art. 35, in S. BARTOLE, P. DE SENA e V. ZAGREBELSKY, Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo) e determina, tra l’altro, la conseguenza che chi indossa il velo integrale rischia di incorrere in sanzioni ripetute. Secondo la Corte, inoltre, mancherebbe in questa materia un comune «consenso europeo». Ma anche questo strumento argomentativo suscita delle perplessità, in ragione del fatto che, «se in alcuni casi la Corte adotta un approccio di tipo strettamente normativo, limitandosi a guardare le norme in vigore nei vari Paesi, in altri casi (come nel nostro), propende invece per un punto di vista di tipo sociologico. Questo secondo punto di vista […] presenta però l’inconveniente che gli elementi da cui la Corte ritiene di poter trarre indicazioni sono variabili. Talvolta essi appartengono all’area del ‘giuridico’ […], ma in altri casi si tratta di dati extragiuridici, e tale assenza di coerenza ha inevitabili ricadute negative in termini di certezza del diritto» (M. STARITA, La sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti umani nel caso S. A. S. c. Francia: una ‘sentenza-monito’ ma di che tipo?, in Rivisteweb, Rivista telematica (www.rivisteweb.it), gennaio-aprile 2015.
[48] M. STARITA, La sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti umani nel caso S.A.S. c. Francia: una ‘sentenza-monito’, ma di che tipo?, in Rivisteweb, Rivista telematica (www.rivisteweb.it), gennaio aprile 2015.
[49] Così A. VACCARI, La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e il diritto di “vivre ensemble”, in Osservatorio AIC, Rivista telematica (www.osservatorioaic.it), aprile 2015, p. 5, nota 14.
[50]Ibidem. L’Autore ipotizza che oggetto ultimo del divieto non sia «il fatto in sé di coprirsi il volto ma il modo in cui lo fanno i musulmani. Ciò che è fastidioso e perturbante è il significato simbolico attribuito al velo integrale: l’idea che esso costituisca un ostacolo intrinseco all’interazione fra le persone».
[51] Così D. DURISOTTO, Istituzioni europee e libertà religiosa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2016.
[52] Così I. RUGGIU, S.A.S. c. France. Strasburgo conferma il divieto francese al burqa con l’argomento del “vivere insieme”, in Forum dei Quaderni Costituzionali, Rivista telematica (www.forumcostituzionali.it), 12 settembre 2014, p. 2.
[53] Così A. LICASTRO, I mille splendidi volti della giurisprudenza della Corte di Strasburgo: “guardarsi in faccia” è condizione minima del “vivere insieme”, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), p. 35.
[54] Così S. FERRARI, Il «burqa» e la sfera pubblica in Europa, in Quad. dir. pol. ecc., 2012, p. 4. L’Autore precisa che «esistono situazioni in cui vedere il volto di una persona è necessario (nel caso di controllo dei documenti d’identità per esempio), attività che è pericoloso svolgere indossando il burqa (guidare un’automobile per fare un altro esempio), casi in cui apparire in pubblico con il viso coperto può creare allarme sociale. In tali frangenti è legittimo proibire di indossare questo indumento in base ad un esame concreto delle difficoltà che il suo uso può provocare. Ma in queste ipotesi l’oggetto della valutazione non è il burqa, bensì i problemi a cui può dar luogo apparire in pubblico con il volto coperto».
[55] Cfr. G. VERCELLIN, Istituzioni del mondo musulmano, Einaudi, Torino, 2002, pp.168-172.
[56] Così D. DURISOTTO, Istituzioni europee e libertà religiosa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2016.
[57] Non è mancato chi ha evidenziato come la semantica del velo non sia interpretabile in modo univoco, poiché si tratta di un simbolo che viene oggi riscritto in un contesto nuovo che si trova all’incrocio fra «rifugio dell’identità culturale che cancella la libertà individuale e rivendicazione della differenza islamica rispetto all’omologazione occidentalista globale». Così I. DOMINIJANNI, Corpo e laicità: il caso della legge sul velo, in Le ragioni dei laici, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 173.
[58] La Corte, rimandando anche al caso Ahmet Arslan and Others, ha affermato che la difesa della neutralità degli spazi pubblici può riguardare soltanto divieti parziali, ad esempio riservati ai dipendenti pubblici, e non generalizzati poiché in questo caso si violerebbe la libertà religiosa (par. 151).
[59] D. DURISOTTO, Istituzioni europee e libertà religiosa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2016, p. 189.
[60] Seguendo il ragionamento già formulato dalla difesa francese, la Corte ha sostenuto che la fraternité costituisce un valore fondamentale della Repubblica che garantisce la coesione della nazione. Secondo la Corte questo principio sarebbe minacciato dall’occultamento del volto poiché tale pratica sarebbe espressione del desiderio di chiamarsi fuori dalla vita sociale. Questa linea argomentativa non sembra pienamente convincente. Ciò che appare in primo luogo discutibile è la possibilità di ricavare da un principio generale come quello della fraternité una “regola di vita sociale” che prevede un diritto/dovere all’interazione sociale da parte di tutti coloro che occupano lo spazio pubblico. Più precisamente: un diritto che ciascuno avrebbe «a non essere, anche incidentalmente, coinvolto in una pratica che mette in discussione la possibilità di una relazione interpersonale a viso aperto».
[61] La legge francese è, dunque, apparsa legittima in quanto compatibile con i requisiti di proporzionalità cui il margine di apprezzamento è sottoposto, prevedendo una sanzione amministrativa di lieve entità (150 euro) e un divieto limitato al volto e non ad un qualsiasi abbigliamento religiosamente connotato o tradizionale, quale il semplice velo, il chador o la jilaba, che sono risultati in generale ammessi nello spazio pubblico (salve le restrizioni per i luoghi di lavoro statali).
[62] Così C. DRIGO, Traiettorie di una convivenza difficile. Spunti di riflessione a partire dalla c.d. questione burkini, in Percorsi costituzionali (www.unibo.it), 2017.
[63] D. DURISOTTO, Educazione e libertà religiosa del minore, Jovene, Napoli, 2011. L’attuale e articolato sistema di protezione internazionale dei diritti dei minori si fa carico di questo intreccio di relazioni, individuando nel best interest of the child il punto di arrivo di un complesso normativo che mira a risolvere le tensioni possibili tra i diversi soggetti coinvolti nel segno della garanzia di colui che rimane, in fin dei conti, il destinatario principale di ogni intervento.
[64] Il regolamento vigente nel Cantone della città prevede che, in base ai programmi scolastici, almeno tre ore alla settimana, siano dedicate alle attività sportive, tra le quali figurano corsi di nuoto obbligatori. I corsi sono misti fino al sesto anno di scuola (corrispondente all’incirca ai 12 anni degli alunni), dopo il quale vengono impartiti separatamente a maschi e femmine.
[65] La direttiva è rubricata «Note sul trattamento delle questioni religiose nella scuola».
[66] Come previsto dal regolamento scolastico in caso di mancato adempimento degli obblighi genitoriali.
[67] Il niqab è un velo presente nella tradizione araba preislamica e in quella islamica, che copre l’intero corpo della donna, compreso il volto, lasciando scoperti solo gli occhi. Di solito, si compone di due parti, divise fra loro: la prima è formata da un fazzoletto di stoffa leggero e traspirante, che viene collocato al di sotto degli occhi a coprire naso e bocca, e legato al di sopra delle orecchie, mentre la seconda parte è formata da un pezzo di stoffa molto più ampio del primo, che nasconde i capelli e buona parte del busto, da legare dietro la nuca, e poi lasciato cadere morbido lungo le orecchie.
[68] Il burqa, o burka, è un capo d’abbigliamento usato esclusivamente dalle donne in Afghanistan e in Pakistan. Burqa è l’arabizzazione della parola persiana purda (parda) che significa “cortina”, “velo”, lo stesso significato cioè di hijab. Il termine burqa individua due tipi di vestiti diversi: il primo è una sorta di velo fissato al capo che copre l’intera testa, permettendo di vedere solamente attraverso una finestrella all’altezza degli occhi e che lascia gli occhi stessi scoperti, o che lascia scoperti occhi e bocca, che rimane però coperta da una sorta di mascherina. L’altra forma, chiamata anche burqa completo o burqa afghano, è un abito, solitamente di colore nero o blu, che copre sia la testa sia il corpo. All’altezza degli occhi può anche essere posta una retina che permette di vedere parzialmente senza scoprire gli occhi della donna.
[69] Così D. DURISOTTO, Istituzioni europee e libertà religiosa, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2016.
[70] Così G. BASSETTI, Interculturalità, libertà religiosa, abbigliamento. La questione del burqa, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), 2012.
[71]Ibidem. Il velo integrale è causa di problemi di integrazione in virtù di una costrizione fisica e psicologica che impedisce alla donna musulmana di socializzare. Secondo l’Autore, ciò avviene «nel momento in cui la scelta volontaria, quindi non forzata, di portare questo indumento trova la sua motivazione nell’essere uno strumento per vivere la modernità attraverso la manifestazione delle proprie tradizioni»; al contrario, si sarà in luogo di una scelta che preclude una corretta integrazione nella realtà circostante, connotata, invece, da una diversa concezione della figura femminile, in cui quelle stesse libertà di emancipazione e partecipazione alla vita sociale, negate alla donna attraverso il velo integrale, hanno prodotto in occidente la sublimazione di un’immagine femminile che afferma la parità sociale e culturale. In un contesto, quale quello occidentale, in cui i valori di laicità e libertà hanno scritto «un’altra storia e un’altra prospettiva, che ha portato alla crescita delle libertà personali, all’eguaglianza tra uomo e donna» (C. CARDIA, Principi di diritto ecclesiastico, Terza edizione, Giappichelli, Torino, 2002), non possono essere tollerate delle limitazioni ai diritti delle donne.
[72] C. CARDIA, Principi di diritto ecclesiastico, 4ª ed., Giappichelli Editore, 2015.
[73]Ibidem.
[74] C. CARDIA, Il burqa nega i diritti della donna, in Avvenire, 12 ottobre 2007.
[75] Così S. ANGELETTI, Il divieto francese al velo integrale, tra valori, diritti, laicité e fraternité, in www.federalismi.it, 22 gennaio 2016, p. 3.
[76] G. BASSETTI, Interculturalità, libertà religiosa, abbigliamento. La questione del burqa, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese,it), luglio 2012.
[77] Cfr. G. DALLA TORRE, Metamorfosi della laicità, in AA. VV., Laicità e relativismo nella società post-secolare,a cura di S. ZAMAGNI e A. GUARNIERI, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 143 e ss.
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Avv. Alessandro Palma
Alessandro Palma, avvocato del Foro di Napoli e specializzato in professioni legali, è dottore di ricerca in Filosofia del Diritto presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Presso lo stesso Ateneo si è perfezionato in Amministrazione e Finanza degli Enti Locali ed è cultore della materia in Diritto Ecclesiastico ed in Diritti Confessionali.
E’ Tutor di Diritto Costituzionale alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II nonché Tutor di Diritto Ecclesiastico presso l’Università Telematica Pegaso. Per l’a. a. 2018/2019 è docente a contratto sulla cattedra di Diritto Ecclesiastico presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cassino.
I suoi interessi di ricerca vertono principalmente su questioni di bioetica e biodiritto, con particolare riguardo alle tematiche della fine vita e dei diritti fondamentali, sull’esperienza religiosa alla luce delle neuroscienze e della psicologia evoluzionistica e cognitiva, sui rapporti tra diritto e religione e sugli strumenti di inclusione giuridica delle diversità culturali nelle società multiculturali.
E’ autore di molteplici recensioni e pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali e di una monografia intitolata Finis Vitae. Il Biotestamento tra diritto e religione, Artetetra, Capua, 2018.
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