Iva, lavori straordinari su beni di terzi: nuove problematiche
Sommario: 1. La detraibilità dell’Iva per i lavori straordinari effettuati su beni di terzi – 2. La rimborsabilità dell’Iva per i lavori straordinari effettuati su beni di terzi – 3. Nuovi problemi creati dalla sentenza n. 11533/2018 e n. 13162/2024 – 3.1. Abuso del diritto ed elusione – 3.2. Autoreferenzialità dell’Agenzia delle Entrate – 3.3. La Cassazione scomoda la normopoietica per non disturbare la Corte di Giustizia e la Corte costituzionale – 4. Conclusioni
La lunga e annosa vicenda della detraibilità e della rimborsabilità dell’iva per i lavori straordinari eseguiti sui beni di terzi sembrava approdata a una soluzione definitiva con la sentenza della cassazione a Sezioni Unite n. 11533 dell’11 maggio 2018 e n. 13162 del 14 maggio 2024. Invero, le due sentenze hanno aperto problemi nuovi e più complessi. la sentenza n. 11533 dell’11 maggio 2018 ha ritenuto di non prendere in considerazione i rischi di abuso del diritto o di operazioni elusive con riferimento all’iva relativa ai lavori eseguiti presso beni di terzi. La sentenza n. 13162 del 14 maggio 2024 ha visto la corte di cassazione impegnata a “legiferare” sul punto, anziché trasmettere gli atti alla corte costituzionale che accogliendo la tesi del giudice remittente avrebbe potuto risolvere il problema ermeneutico mediante una sentenza additiva che avrebbe, forse, potuto rendere inutile l’intervento del legislatore, che ora s’impone per evitare violazioni del principio di eguaglianza.
1. La detraibilità dell’Iva per i lavori straordinari effettuati su beni di terzi
L’Iva è stata, sin dal giorno della sua istituzione, un tributo dal meccanismo applicativo a prima vista semplice, che ha causato una serie imprecisata di dubbi interpretativi. Nell’ambito di questa collezione di problematiche si colloca l’istituto della detrazione e i relativi rimborsi. La questione della detraibilità dell’imposta sul valore aggiunto ha trovato una soluzione con la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 11533 dell’11 maggio 2018, mentre quella relativa ai rimborsi con la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 13162, depositata il 14 maggio 2024. Le conclusioni, invero, benché provenienti dagli autorevoli Ermellini, aprono problemi ulteriori cui gli stessi giudici fanno riferimento, incidenter tantum, nel tentativo di dare maggiore forza motivazionale alle proprie decisioni.
Un requisito fondamentale che consente al debitore Iva di esercitare il diritto di detrazione in relazione all’acquisto di specifici beni e/o servizi è sicuramente l’inerenza. L’articolo 19, comma 1, del D.P.R. n. 633/1972 permette all’acquirente di detrarre l’imposta che gli è stata addebitata dal venditore, a patto che l’acquisto sia stato fatto nell’ambito di un’impresa o di un’attività professionale. Questo articolo richiede che l’acquirente sia un imprenditore o un lavoratore autonomo e che il bene acquistato sia “inerente”, ovvero utile, all’attività imprenditoriale o professionale che viene svolta. La “strumentalità” del bene deve essere determinata confrontando l’operazione passiva (l’acquisto) con le operazioni attive (le vendite) che sono state già effettuate o che sono state solo programmate. Deve essere dimostrata la strumentalità dell’operazione passiva rispetto alle operazioni attive. Questa valutazione deve essere fatta in base alla natura effettiva del bene e in relazione agli obiettivi dell’impresa o della professione.[1]
L’inerenza deve essere valutata in base a un criterio qualitativo, non quantitativo, e correlato all’attività imprenditoriale. Ne consegue che la detrazione dell’Iva non può essere negata solo sulla base di un giudizio di congruità del costo, a meno che l’Amministrazione Finanziaria non dimostri l’evidente antieconomicità dell’operazione, indicativa dell’assenza di correlazione tra l’operazione Iva e l’attività imprenditoriale.[2]
Per quanto riguarda la detrazione dell’Iva per lavori straordinari effettuati su immobili di terzi (cioè affittati, locati o concessi in comodato), negli ultimi anni la giurisprudenza di Cassazione aveva mostrato posizioni oscillanti, negando in alcuni casi il diritto alla detrazione[3] e riconoscendolo in altri[4], proprio sulla base dell’assenza o della presenza del requisito di inerenza in relazione a tali operazioni.
In particolare, nelle sentenze che hanno escluso la detrazione, c’è spesso la preoccupazione per i giudici che il contratto di locazione potrebbe essere stato predisposto allo scopo di permettere al conduttore una detrazione dell’Iva a cui il proprietario dell’immobile, in quanto “consumatore finale”, non avrebbe avuto diritto – proprio perché non svolge attività imprenditoriale o professionale – mancando l’effettuazione di operazioni Iva a valle dalle quali potrebbe derivare un debito d’imposta eventualmente compensabile.
Risolvendo questo contrasto giurisprudenziale a favore della detrazione, la Corte di Cassazione, riunita a Sezioni Unite, con la sentenza n. 11533 dell’11 maggio 2018, ha dichiarato che “deve essere riconosciuto il diritto alla detrazione Iva per lavori di ristrutturazione o manutenzione anche in caso di immobili di proprietà di terzi, purché esista un legame di strumentalità con l’attività imprenditoriale o professionale, anche se quest’ultima sia potenziale o prospettiva. E ciò anche se – per cause estranee al contribuente – l’attività in questione non sia poi stata effettivamente esercitata”. Un legame di strumentalità che, quindi, si interrompe solo quando l’attività economica, anche potenziale, a cui avrebbe dovuto accedere l’utilizzatore non è stata intrapresa per circostanze non estranee al contribuente.
È, inoltre, importante sottolineare che la giurisprudenza dell’Unione Europea ha già esaminato questa questione, arrivando a stabilire una soluzione equilibrata – recentemente ribadita – perfettamente in linea con il carattere generalmente assoluto del principio di neutralità fiscale, come costantemente affermato dalla stessa Corte di Giustizia.
La soluzione adottata dalla Corte dell’Unione Europea deve essere recepita nel diritto interno secondo i seguenti principi: “Si deve riconoscere il diritto alla detrazione dell’Iva per lavori di ristrutturazione o manutenzione anche in caso di immobili di proprietà di terzi, purché esista un legame di strumentalità con l’attività imprenditoriale o professionale, anche se quest’ultima è potenziale o futura. Questo vale anche se, per cause indipendenti dalla volontà del contribuente, l’attività in questione non sia poi stata effettivamente esercitata”.
Queste regole consentono di rispettare il fondamentale principio europeo del diritto alla detrazione per beni che sono comunque strumentali all’attività imprenditoriale – un diritto che la giurisprudenza dell’Unione Europea nega solo in casi del tutto eccezionali – a condizione che sia dimostrato il legame di strumentalità dell’immobile. Questo permette di evitare che chi è sostanzialmente un “consumatore finale” possa detrarre l’imposta. L’orientamento della giurisprudenza della Corte UE supera le perplessità contenute in tutte le decisioni che hanno negato la detrazione, ove c’è la preoccupazione comune che il contratto di affitto potrebbe essere stato organizzato con l’intento di permettere all’inquilino di beneficiare di una detrazione che la proprietaria dell’immobile, essendo una “consumatrice finale”, non avrebbe potuto ottenere – proprio perché non svolge un’attività imprenditoriale o professionale. Di conseguenza, non ci sarebbero state operazioni Iva “a valle” che avrebbero potuto generare un debito fiscale eventualmente compensabile. Inoltre, la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 215 del 2021, ha confermato la neutralità dell’iva, che ha un carattere, tendenzialmente, assoluto.
È l’ulteriore aggiunta, già menzionata, della sentenza che “la questione [della detrazione] non ha nulla a che fare con casi abusivi o elusivi”, potrebbe tingere l’orizzonte a tinte fosche. Vedi sottoparagrafo: Abuso del diritto ed elusione
2. La rimborsabilità dell’Iva per i lavori straordinari effettuati su beni di terzi
La sentenza n. 11533 dell’11 maggio 2018 della Corte di Cassazione riunita a Sezioni Unite ha alimentato il contenzioso sulla rimborsabilità dell’Iva per i lavori straordinari effettuati su beni di terzi. Allorché l’Agenzia delle entrate di Brescia ha inviato a un operatore di agriturismo, una notifica di recupero del credito Iva che era stato richiesto inappropriatamente come rimborso, poiché le spese erano legate alla ristrutturazione di edifici e impianti su un terreno affittato, quindi di proprietà di terzi. Il contribuente, avverso l’atto, ha presentato un ricorso che è stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Brescia. L’Agenzia delle entrate ha presentato appello avverso la già menzionata sentenza, sostenendo che la richiesta di rimborso non rispettava i requisiti dell’art. 30 D.P.R. 633/1972, che consente il rimborso dell’iva per la dichiarazione annuale se l’importo supera i 2.582,28 euro e riguarda beni ammortizzabili. Tuttavia, la Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione distaccata di Brescia, ha respinto l’appello. In particolare, ha considerato che la decisione n. 11533 del 11 maggio 2018 delle Sezioni Unite della Cassazione era pertinente alla questione in discussione. Di conseguenza, applicando i principi stabiliti in quella sentenza, si doveva concludere che il diritto al rimborso dell’iva era dovuto. Non era oggetto di contestazione il legame strumentale tra le opere realizzate su beni di terzi e l’attività imprenditoriale svolta.
L’Agenzia delle Entrate ha presentato un ricorso per cassazione contro la sentenza, sostenendo che il giudizio si basava erroneamente sul diritto alla detrazione dell’iva, mentre la questione riguardava il diritto al rimborso dell’iva, richiesto per spese relative a lavori di ristrutturazione su un terreno in affitto dal contribuente.
L’Agenzia ha ribadito che, secondo l’art. 30, comma 3, lett. c) del D.P.R. n. 633 del 1972, il rimborso dell’iva può essere riconosciuto solo per l’acquisto o l’importazione di beni ammortizzabili di cui gli esercenti hanno il possesso o la titolarità del diritto di proprietà o di altro diritto reale.
L’Amministrazione finanziaria ha quindi sottolineato che, poiché la questione riguardava il diritto al rimborso dell’iva, il giudice di appello aveva erroneamente fatto riferimento ai principi stabiliti dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 11533 del 11 maggio 2018, che riguardava solo il diritto alla detrazione dell’iva.
In relazione alla questione, la Corte di Cassazione ha ritenuto che ci fossero le condizioni per rimettere il ricorso al Primo Presidente, ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c., per un’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. In particolare, si doveva verificare se i requisiti per il diritto alla detrazione dell’iva fossero sostanzialmente equivalenti a quelli per il diritto al rimborso dell’iva per le spese sostenute per lavori su beni di proprietà di terzi, nel caso in cui il contribuente avesse un titolo di godimento che gli permetteva di eseguire i lavori.
L’ordinanza n. 14975 del 29 maggio 2023[5] richiede alle Sezioni Unite di esprimersi sulla questione del diritto a un credito iva richiesto come rimborso per operazioni effettuate su beni di terzi, esistendo due diverse interpretazioni giuridiche su questo argomento:
il diritto al rimborso sarebbe garantito a condizione che il bene sia utilizzato come strumentale all’attività dell’impresa. Questa soluzione sarebbe la più in linea con il principio di neutralità dell’iva;
attribuisce valore alla nozione di bene ammortizzabile secondo il TUIR e considera la possibilità di richiedere il rimborso come un’opzione “eccezionale”, richiedendo sia l’uso strumentale del bene per l’attività dell’impresa, sia l’acquisto del bene da parte dell’impresa stessa.
Nel richiedere l’esame della questione da parte delle Sezioni Unite, il giudice remittente sottolinea l’importanza dei principi che regolano l’autonomia procedurale degli Stati in materia di iva nella risoluzione della questione e anticipa la futura discussione di questioni fondamentali relative alla normativa nazionale sul rimborso.
La stessa Agenzia delle Entrate non ha mancato di dare interpretazioni diverse ai numerosi casi pratici che sono stati portati alla sua attenzione.
Non è stato concesso il diritto di essere rimborsati in seguito alla firma di un contratto preliminare per la vendita di un bene ammortizzabile.[6] L’acquirente promissario, con la stipulazione di un contratto preliminare di vendita di un bene ammortizzabile, non ottenendo la proprietà del bene non può ottenere, di conseguenza, il rimborso dell’imposta pagata sull’anticipo del prezzo al momento del preliminare.
Le spese sostenute per l’incremento, la modifica o l’estensione di beni appartenenti a terzi, concessi in uso o in prestito, sono costi per i quali non è possibile ottenere il rimborso dell’iva.[7]
L’Agenzia afferma, in generale, che i costi incrementali su beni di terzi possono essere capitalizzati e registrati come “altre immobilizzazioni immateriali” se le opere realizzate sono separabili dai beni di terzi a cui si accede e hanno una funzionalità autonoma.
Il diritto al rimborso è stato negato anche per le strutture costruite nell’ambito di una concessione relativa alla gestione di un complesso ricreativo e culturale su un’area comunale[8], trattandosi di beni che fin dall’inizio appartengono all’ente locale concedente, non possono essere oggetto di ammortamento ai fini delle imposte dirette da parte del concessionario e la società non può richiedere il rimborso dei relativi costi. Anche nel caso dell’installazione di un impianto su beni di terzi, è stato negato il diritto al rimborso perché l’impianto non era separabile dal bene immobile a cui si riferiva.[9] Si ribadisce, ancora una volta, che, se l’opera non è rimovibile, non appartiene al soggetto che l’ha realizzata, non può essere registrata nel bilancio come bene ammortizzabile e non si può applicare l’art. 30, comma 2, lett. c), D.P.R. n. 633/1972. Si sostiene anche che non è rilevante se, dopo aver sostenuto i costi di acquisto, l’individuo diventa proprietario del bene principale o se viene istituito a suo favore un diritto reale di godimento.
Il diritto al rimborso dell’iva è stato riconosciuto dall’Agenzia delle Entrate[10], invece, se i costi sostenuti dal concessionario per la realizzazione di un complesso immobiliare fossero funzionali all’acquisizione del diritto di concessione, nonché in relazione all’acquisto di stazioni di ricarica di veicoli elettrici installate su suolo pubblico, se non integrate irreversibilmente al suolo.[11] Infatti, se un’impresa, per condurre la propria attività economica, acquista le infrastrutture e i servizi necessari per allestire e gestire ogni stazione di ricarica, e queste non sono fissate in modo irreversibile al terreno, tali risorse devono essere classificate come beni strumentali ammortizzabili secondo l’articolo 102 del TUIR.
Pertanto, sia la pratica amministrativa che la giurisprudenza adottano due approcci riguardo alla possibilità di ottenere il rimborso dell’iva in relazione a operazioni a monte su beni di proprietà di terzi. Inoltre, contrariamente a quanto stabilito dalla giurisprudenza di Cassazione del 2015, sembra che la mancanza di proprietà del bene non sia il motivo principale per rifiutare il diritto al rimborso.
La pratica, infatti, attribuisce un’importanza decisiva al fatto che il bene sia o meno rimovibile dal terreno del terzo a cui appartiene: se il bene è rimovibile, e quindi utilizzabile autonomamente, allora si ha diritto al rimborso; in caso contrario, ciò non accade. Vedi sottoparagrafo autoreferenzialità dell’Agenzia delle Entrate
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13162 emessa il 24 maggio 2024, hanno stabilito che è possibile ottenere un rimborso dell’iva pagata su lavori di ristrutturazione riguardanti beni di proprietà di terzi.
Il diritto di detrarre l’iva pagata per interventi effettuati su immobili di proprietà di terzi, di cui si ha la detenzione, era ormai riconosciuto.[12]Tuttavia, riguardo alla possibilità di richiedere un rimborso dell’iva detratta, all’interno della stessa Corte Suprema si era sviluppato un doppio orientamento, la cui risoluzione è stata affidata alle Sezioni Unite.[13]
I giudici di legittimità, con la sentenza n. 13162/2024, hanno preso, formulando il seguente principio di diritto: “Chi esercita un’attività d’impresa o professionale ha diritto al rimborso dell’iva per i lavori di ristrutturazione o manutenzione di immobili di cui non è proprietario, ma che detiene in virtù di un diritto personale di godimento, a condizione che esista un legame di strumentalità tra tali beni e l’attività svolta”.
Ripercorrendo le principali decisioni che hanno portato a sottoporre la questione alle Sezioni Unite:
da un lato, si faceva riferimento al principio di neutralità dell’iva, che non può portare a distinzioni tra il diritto alla detrazione e il diritto al rimborso, essendo equivalenti i presupposti che li legittimano;[14] dall’altro, si evidenziava l’eccezionalità del rimborso, soggetto a normative più restrittive per quanto riguarda le modalità di esercizio del diritto alla detrazione.[15] Il problema interpretativo consiste nel capire se la normativa dell’Unione permetta al legislatore nazionale di differenziare il trattamento giuridico della detrazione da quello del rimborso in termini sostanziali o solo procedurali, esaminando, a tal fine, l’art. 183 § 1 della direttiva 2006/112/Ce, secondo cui, “qualora, per un periodo d’imposta, l’importo delle detrazioni superi quello dell’iva dovuta, gli Stati membri possono far riportare l’eccedenza al periodo successivo, o procedere al rimborso secondo modalità da essi stabilite”.
Le Sezioni Unite hanno interpretato la disposizione come un’equivalenza tra i presupposti per la detrazione e il rimborso dell’IVA. Questa norma ha un carattere principalmente procedurale, non sostanziale, e si limita a concedere agli Stati membri il diritto di stabilire le “modalità” per il rimborso dell’imposta. Le condizioni sostanziali per il diritto alla detrazione (e al rimborso) sono stabilite negli articoli 167 e seguenti della direttiva citata, mentre gli articoli 178 e seguenti regolano le modalità di esercizio di tali diritti.
Esaminando le decisioni in cui la Cassazione ha negato il rimborso, emerge come sia stato valorizzato il dato letterale dell’art. 30 comma 2 lett. c) del D.P.R. 633/72, dove si fa riferimento ai termini “acquisto” e “beni ammortizzabili”. Il diritto al rimborso veniva negato per i beni acquisiti secondo un titolo diverso dal diritto di proprietà e per i beni non iscrivibili in bilancio tra le immobilizzazioni, anche se strumentali all’esercizio dell’attività.
Il punto di vista che, al contrario, sosteneva il diritto al rimborso enfatizzava il principio di neutralità fiscale dell’Unione Europea. Si riferiva alla nozione di “acquisto” come alla semplice disponibilità del bene e alla nozione di “bene ammortizzabile” come alla sua durata e utilità nel lungo termine, oltre al semplice significato letterale dell’articolo 30 menzionato.
In definitiva, aderendo al secondo indirizzo, le Sezioni Unite affermano i seguenti principi:
Il giudice nazionale ha l’obbligo di fornire un’interpretazione conforme delle disposizioni, la questione è risolta sulla base della disciplina dell’Unione, fondata sul principio di neutralità, in virtù del quale vi è una “totale equiparazione di detrazione e rimborso”; la normativa interna (art. 30 comma 2 lett. c) del D.P.R. 633/72) non può essere interpretata limitandosi al tenore letterale (“acquisto […] di beni ammortizzabili”), ma deve essere riconosciuto il significato di “disponibilità di tali beni in virtù di un titolo giuridico che ne garantisca il possesso ovvero la detenzione per un periodo di tempo apprezzabilmente lungo”. Rientra tra le fattispecie ammesse al rimborso, dunque, anche l’acquisizione del bene mediante un titolo diverso dalla proprietà o da un diritto reale, come nel caso di un contratto di locazione o comodato, ferma restando la necessaria “strumentalità” dei beni stessi all’esercizio dell’impresa (presupposto generale della detraibilità iva ex art. 19 comma 1 del D.P.R. 633/72).
In merito alla nozione di “bene ammortizzabile”, molto chiaramente le Sezioni Unite sanciscono che tale concetto “non può essere correttamente inteso nel contesto giuridico dell’iva con riferimento alle previsioni normative in materia di imposte dirette (artt. 102 e 103 del TUIR)”, né secondo “le disposizioni sul bilancio contenute nel codice civile ovvero i principi contabili”. Considerato il superamento esplicito di tale nozione rispetto alle norme dell’Unione, dovrebbe spettare ora al legislatore, nell’ambito della delega di riforma fiscale, tenerne conto in sede di revisione della disciplina dei rimborsi iva (art. 18 comma 1 lett. i) della L. 111/2023).
In questo contesto, ad avviso della Corte di Cassazione a Sezioni Unite è necessario valutare e risolvere il contrasto giurisprudenziale.
L’approccio che limita l’applicabilità della disposizione dell’art. 30, secondo comma, lett. c), D.P.R. 633/1972, si basa principalmente sulle espressioni “acquisto” e “ammortizzabili”, negando che l’iva pagata su beni non acquistati, cioè di cui il soggetto passivo non ha acquisito la proprietà o un altro diritto reale, e che quindi non rientrano tra i beni ammortizzabili dell’impresa, possa essere rimborsata, anche se si tratta di beni strumentali per l’esercizio dell’impresa stessa. In sostanza, queste decisioni derivano il concetto di “bene ammortizzabile” dagli articoli 102, 103, D.P.R. 917/1986, 2424, lettera B) I e II, codice civile, come un bene che può essere registrato tra le “immobilizzazioni” (materiali o immateriali). Secondo i principi contabili ONIC (n. 24, n. 119/2024), queste sono associate a costi con utilità pluriennale per l’acquisto di beni durevoli, escludendo che la semplice “strumentalità” del bene possa essere considerata sufficiente a tal fine.
Questa giurisprudenza, con riguardo specifico all’aspetto della uniformità della disciplina dell’Iva nell’Unione Europea, ha affermato che il principio di neutralità non implica una corrispondenza biunivoca tra detrazione e rimborso, essendo il secondo un modo non ordinario di garantire tale principio, a differenza del primo.
L’orientamento, invece, che interpreta in modo più ampio la norma in questione attribuisce un valore tendenzialmente assoluto al principio di neutralità dell’Unione europea, nel senso che, in ogni caso, il soggetto passivo dell’imposta non può essere gravato come un consumatore finale.
Questa interpretazione “orientata all’Unione” fa da guida all’ermeneutica dell’art. 30, secondo comma, lett. c), D.P.R. 633/1972, andando oltre la sua stretta letteralità, intendendo per “acquisto” la disponibilità del bene e per “ammortizzabile” la sua durata pluriennale, con il concetto funzionale e imprescindibile, di “strumentalità” ai fini imprenditoriali del soggetto passivo.
La Cassazione ha ritenuto di seguire il secondo orientamento, per la ragione decisiva che il giudice nazionale, in particolare quello di ultima istanza, in caso di dubbio deve adottare un criterio di “interpretazione conforme” al diritto europeo, tanto più se, come nel caso in esame, l’oggetto del giudizio è un’imposta “armonizzata”, cioè soggetta alla disciplina dell’Unione delle ben note “direttive iva”. L’obbligo della “interpretazione conforme”, quale strumento di attuazione del principio di primato del diritto dell’Unione, è del tutto pacifico nella giurisprudenza[16] della Corte di giustizia e della Corte costituzionale
Il principio fondamentale della disciplina dell’Unione sull’imposta sul fatturato è sicuramente il principio di neutralità, inteso innanzitutto nel senso che l’imposta non può gravare sui soggetti passivi, ma solo sul consumatore finale. Questa è la logica dell’imposizione sul consumo di beni o servizi forniti da un soggetto economico nel territorio fiscale dell’Unione, sempre a condizione che si tratti di beni/servizi scambiati all’interno del modulo attuativo dell’imposta de qua.
La base ermeneutica della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE è, certamente, orientata nel senso della totale equiparazione di detrazione e rimborso, quali strumenti atti a garantire il principio generale in questione. La Corte di Lussemburgo, nel corso di un’ampia serie di casi che illustrano questo principio, ha chiarito che l’essenza del diritto alla detrazione è regolata dagli articoli 167-172 della Direttiva 2006/112. Allo stesso tempo, gli articoli 178-183 della stessa Direttiva regolano esclusivamente le modalità di esercizio di tale diritto e del diritto alternativo al rimborso.
La Corte dell’Unione, in stretta conseguenzialità logico-giuridica, ha quindi affermato che il modo di esercitare il diritto al rimborso dell’iva non deve mai ledere il principio di neutralità, dovendo rispettare i principi di proporzionalità ed efficacia, limitandosi in questi termini ben circoscritti il diritto – meramente procedurale – degli Stati membri ex art. 183.
Pertanto, l’applicazione della disposizione legislativa in questione dovrebbe essere estesa ai beni che, sebbene non siano ammortizzabili in senso stretto, sono comunque destinati all’uso nell’impresa per un periodo di tempo significativamente lungo.
Quindi, con l’intento di rafforzare ulteriormente l’orientamento dominante nella Sezione specializzata tributaria e di allineare la giurisprudenza di questa Corte ai principi europei, non c’è alternativa a un’interpretazione ampia della normativa interna.
In particolare, l’espressione “acquisto… di beni ammortizzabili”, utilizzata dal legislatore dell’IVA nazionale (art. 30, terzo comma, lett. c), D.P.R. 633/1972), dovrebbe essere interpretata nel senso più ampio di avere tali beni a disposizione grazie a un titolo legale che ne garantisca il possesso o la detenzione per un periodo di tempo considerevolmente lungo. Questo include non solo la proprietà o un diritto reale, ma anche un contratto di affitto o comodato, purché i beni siano “strumentali” all’attività dell’impresa.
L’istituzione di un sistema comunitario per l’Imposta sul Valore Aggiunto (iva) ha avuto origine nel 1967. Le fondamenta di un sistema unificato per l’iva sono state stabilite con le prime Direttive iva[17] La VI Direttiva iva (77/388/CEE) ha portato all’armonizzazione della base imponibile dell’imposta, fornendo un quadro più strutturato per l’armonizzazione dell’imposta stessa. Il sistema attuale è regolato dalla Direttiva iva rifusa 2006/112/CE, che è stata successivamente modificata dalla Direttiva 2008/117/CE.
Quindi, dobbiamo fare riferimento al concetto fondamentalmente economico di “beni di investimento”, che è quello utilizzato nella direttiva “rifusa” (articoli 174, paragrafo 2, lettera a) e paragrafo 3, 188, paragrafo 1, secondo periodo, e paragrafo 2, 189, lettera a), 190, direttiva 2006/112/CEE). Questo risulta essere l’unico criterio a cui un’interpretazione “conforme” deve fare riferimento.
Quindi, appare chiaro che l’applicazione della normativa in questione deve essere necessariamente estesa ai beni che, pur non essendo strettamente ammortizzabili, sono comunque destinati all’esercizio dell’impresa per un periodo di tempo medio-lungo, come “investimenti” (beni strumentali).
Questo è esattamente ciò che è accaduto nel caso in esame, dato che il contribuente ha effettuato lavori su beni di terzi che sono destinati, in modo stabile, all’esercizio della sua attività imprenditoriale (agriturismo).
Pertanto, negare, in concreto, il diritto al rimborso dell’iva equivarrebbe a violare il principio generale di neutralità secondo l’interpretazione data dalla Corte di giustizia, anche e proprio sotto il profilo che viene approfondito nella parte iniziale della memoria della difesa erariale, ossia la necessità di “depurare” l’onere di tale imposta dal finanziamento/fiscale della deduzione frazionata pluriennale dei costi, quindi, quoad effectum, in stretta analogia con la disciplina fiscale dei beni ammortizzabili.
Va precisato che l’interpretazione proposta del testo normativo in contesto non oltrepassa il “confine” dell’“interpretazione conforme”, come stabilito dalla stessa giurisprudenza della Corte di giustizia[18], non entra nel campo della normopoietica e non richiede quindi un rinvio pregiudiziale alla Corte medesima. Vedi sottoparagrafo: La Cassazione scomoda la normopoietica per non disturbare la Corte di Giustizia e la Corte costituzionale.
D’altra parte, bisogna sottolineare che non esiste un vincolo di conformità/continuità ermeneutica tra diritto civile e diritto tributario, data la natura speciale di quest’ultimo, che impone specifiche attribuzioni di senso al suo lessico (basti pensare al concetto di “possesso di redditi” di cui all’art. 1, D.P.R. 917/1986, che pacificamente non può essere ricondotto al solo assonante concetto civilistico), mentre
è certamente vincolante l’acquis[19] della citata giurisprudenza dell’Unione Europea, che appunto sospinge la soluzione della questione di diritto in oggetto nel senso che si è indicato.
In definitiva, il Collegio ritiene di poter affermare che il principio di diritto espresso da queste Sezioni Unite nella sentenza n. 11533/2018 in tema di detrazione iva va esteso al rimborso dell’imposta medesima.
Pertanto, in relazione al caso specifico in questione, viene formulato il seguente principio giuridico: “L’operatore di un’attività commerciale o professionale ha diritto al rimborso dell’IVA per i lavori di ristrutturazione o manutenzione di immobili di cui non è proprietario, ma che detiene in base a un diritto personale di godimento, a condizione che esista un legame di strumentalità tra tali beni e l’attività svolta”.
3. Nuovi problemi creati dalla sentenza n. 11533/2018 e n. 13162/2024
3.1. Abuso del diritto ed elusione
La sentenza della Corte di giustizia[20] , nota come caso Halifax, ha stabilito un principio di immanenza di una norma generale antiabuso nell’ambito dell’iva. Questo principio è vincolante in Italia, senza bisogno di una norma positiva che confermi tale potere, sia a livello comunitario che nazionale. L’Amministrazione finanziaria ha la possibilità di utilizzare questo principio per rifiutare comportamenti abusivi da parte dei contribuenti.
La Corte di Cassazione – nella sentenza n. 10352 del 5 maggio 2006 – aveva confermato in modo esplicito i principi espressi nella precedente sentenza dalla Corte di Giustizia[21] di tenore sostanzialmente analogo a quella in commento.
In particolare, la Suprema Corte ha affermato che “…peraltro, con riferimento all’ordinamento comunitario, con la recentissima pronuncia del 21 febbraio 2006, nella causa 0419-2002, la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha chiarito che la 6° direttiva CEE n. 77/388/CEE, direttamente applicabile in quello nazionale, aggiunge alla tradizionale bipartizione dei comportamenti tenuti dai contribuenti in tema di Iva, fra quello fisiologico e quello patologico (proprio delle frodi fiscali), il primo idoneo a consentire una piena detraibilità dell’imposta assolta ed il secondo la sua assoluta indetraibilità, una sorta di tertium genus, in dipendenza del comportamento abusivo ed elusivo del contribuente, comportante il recupero dell’Iva detratta e l’eventuale rimborso in favore del soggetto che abbia posto in essere l’operazione elusiva; … pertanto, nell’ordinamento comunitario e, quindi, anche in quello interno deve considerarsi vigente il principio di indetraibilità dell’Iva (art. 17 della citata direttiva n. 77/388/CEE) assolta in corrispondenza di comportamenti abusivi, volti cioè a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale ed autonoma ragione economica giustificatrice delle operazioni economiche che, perciò, risultano eseguite in forma solo apparentemente corretta ma, in realtà, sostanzialmente elusiva; …”. I dettagli di questa direttiva sono contenuti nella circolare dell’Agenzia n. 67/E del 13 dicembre 1986.
La controversia riguardante la società Halifax plc è stata oggetto di analisi da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. La questione centrale era la legittimità, alla luce dei principi del diritto comunitario, dei comportamenti posti in essere dagli operatori commerciali con l’obiettivo di aggirare la normativa comunitaria per ottenere benefici fiscali. La Halifax plc, un istituto bancario, aveva prestazioni esenti in gran parte, consistenti principalmente nell’erogazione di servizi finanziari. Tuttavia, per costruire alcuni call center, i consulenti della Halifax avevano elaborato un piano per recuperare l’intero importo dell’iva sui lavori immobiliari. Questo piano coinvolgeva società controllate dalla Halifax che commissionavano i lavori edilizi a terze parti. L’Amministrazione fiscale britannica si oppose alla detrazione dell’iva invocata dalle società del gruppo Halifax. Sostennero che le attività delle società controllate erano finalizzate solo a consentire la detrazione dell’iva alla società controllante. Il giudice del rinvio sottopose alla Corte due questioni:
Se le operazioni controverse costituivano “attività economiche” nonostante la finalità di aggirare una norma tributaria.
Se era legittimo disconoscere il diritto alla detrazione di imposta per queste attività alla luce della teoria dell’abuso del diritto.
La Corte stabilì che le operazioni in questione costituivano “attività economiche”. Nonostante la finalità di ottenere un vantaggio fiscale, l’abuso del diritto non poteva essere applicato in questo caso perché secondo la giurisprudenza consolidata, l’articolo 4, n. 2 della sesta direttiva deve essere interpretato in modo ampio e obiettivo. L’attività del soggetto passivo è considerata “economica” indipendentemente dagli scopi o risultati, purché sia suscettibile di valutazione economica.
Nonostante l’obiettivo di ottenere un vantaggio fiscale, le operazioni delle società controllate sono considerate “attività economiche”. La nozione di “cessioni di beni” e “prestazioni di servizi” si applica oggettivamente, indipendentemente dagli scopi delle operazioni. La normativa comunitaria non consente l’abuso del diritto per ottenere vantaggi. Ma L’operatore deve agire con consapevolezza e finalità per essere considerato “abusivo”.
Quindi, la Corte ha concluso che se il giudice rileva che le operazioni in questione costituiscono un abuso, poiché, sebbene rispettino formalmente le condizioni stabilite dalla sesta direttiva e dalla legislazione nazionale che la implementa, esse danno luogo a un beneficio fiscale che sarebbe in contrasto con l’obiettivo di tali disposizioni. In tal caso, il giudice sarà obbligato a ordinare il rimborso retroattivo delle somme indebitamente dedotte per ogni operazione, poiché il diritto alla detrazione è stato esercitato in modo abusivo.
Gli Ermellini riuniti a Sezioni Unite con la sentenza n. 11533/2018 ha liquidato il problema dell’abuso del diritto e dell’elusione con troppa non curanza. Il settore Iva è probabilmente quello più interessato dalle frodi come è dimostrato dalle vicende pressoché quotidiane. I giudici si sono limitati, sic et simpliciter ad ammettere la detraibilità dell’Iva per i lavori su beni di terzi, lasciando al legislatore sia il problema della durata del contratto di locazione, affitto e comodato, senza tra l’altro tenere conto dell’impossibilità giuridica di equiparare il contratto di affitto e locazione da una parte e il contratto di comodato dall’altra. Infatti, per il contratto di locazione e di affitto esiste, di norma un termine minimo di efficacia, mentre per il contratto di comodato ha una sua disciplina legale. Il principio che emerge e che è in linea con la prevalente giurisprudenza[22] può essere parafrasato così: “Il fatto che un immobile prestato sia destinato a un’attività specifica non basta per considerare il contratto correlato soggetto a una scadenza implicita. Pertanto, chi ha prestato l’immobile può richiederne la restituzione prima che l’attività specifica cessi”.
3.2. Autoreferenzialità dell’Agenzia delle Entrate
L’Agenzia delle Entrate, come abbiamo avuto modo di vedere, si è anch’essa occupata della detraibilità dell’Iva per lavori su beni di terzi, ma la mancanza di proprietà dell’oggetto non sembra essere il motivo principale per negare il diritto al rimborso. Infatti, la pratica attuale dà un peso significativo alla possibilità di rimuovere o meno l’oggetto dal terreno di proprietà di un terzo: se l’oggetto può essere rimosso e quindi utilizzato in modo indipendente, allora si ha diritto al rimborso; altrimenti, non si ha tale diritto. È chiaro ormai da diversi decenni che l’Agenzia delle Entrate stia promuovendo un suo nuovo ruolo, sottraendo spazio al legislatore che probabilmente
si è avveduto di questa deriva istituzionale che lo ha indotto a modificare lo Statuto del
contribuente.[23] Infatti l’art. 10-septies prevede che “il Ministro dell’economia e delle finanze ovvero, quando nominato, il suo Vice Ministro delegato per l’amministrazione finanziaria, adotta su proposta dell’Amministrazione finanziaria gli atti di indirizzo interpretativo ed applicativo di cui all’articolo 4, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai quali devono attenersi le circolari di cui al comma 1, lettere a), b) e c)”, ma fino ad oggi la norma ha avuto purtroppo scarsa attuazione con la conseguenza del perdurare del caos normativo: l’Agenzia elabora interpretazioni delle norme prive di fondamento in queste ultime e orientamenti di prassi in contrasto, anche con una consolidata giurisprudenza. In un prossimo articolo torneremo su questo argomento rilevante ai fini della semplificazione delle disposizioni e del rispetto della riserva di legge sulla capacità contributiva.
3.3. La Cassazione scomoda la normopoietica per non disturbare la Corte di Giustizia e la Corte costituzionale
Secondo la Corte di Cassazione l’interpretazione proposta del testo normativo di cui all’art. 30 del D.P.R. 633/72 non oltrepassa il “confine” dell’“interpretazione conforme”, come stabilito dalla stessa giurisprudenza della Corte di giustizia[24], non entra nel campo della normopoietica e non richiede quindi un rinvio pregiudiziale alla Corte medesima. Invero, la tesi sostenuta dalla Suprema Corte di Cassazione riunita a Sezioni Unite non è del tutto condividibile, perché i Giudici per legittimare il principio della rimborsabilità dell’Iva con la sentenza n. 13162, depositata il 14 maggio 2024 hanno demolito alcuni principi generali dell’ordinamento giuridiche e le norme specifiche relative all’Iva, alle Imposte Dirette e alla redazione del Bilancio. La Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha ritenuto di ampliare, forse anche di stravolgere, l’applicabilità dell’articolo 30, comma 2, lettera c), del D.P.R. 633/1972, che si fondava sui termini “acquisto” e “ammortizzabili” il cui concetto deriva da quello di “bene ammortizzabile” dagli articoli 102, 103, D.P.R. 917/1986, dall’art. 2424, lettera B) I e II, e dai principi contabili ONIC (n. 24, n. 119/2024) che si riferiscono a costi con utilità pluriennale per l’acquisto di beni durevoli, escludendo che la semplice “strumentalità” del bene possa essere considerata sufficiente a tal fine.
Secondo la Corte di cassazione è stato necessario fare riferimento al concetto economico di “beni di investimento”, come definito nella direttiva “rifusa” (artt. 174, comma 2, lett. a) e comma 3, 188, comma 1, secondo periodo, e comma 2, 189, lett. a), 190, direttiva 2006/112/CEE). Questo concetto è l’unico criterio su cui si deve basare un’interpretazione “conforme”. Di conseguenza, è evidente che l’applicazione della legislazione pertinente deve essere estesa ai beni che, sebbene non siano strettamente ammortizzabili, sono comunque destinati all’uso nell’impresa per un periodo di tempo medio-lungo, come “investimenti” (beni strumentali). Questo è esattamente ciò che è accaduto nel caso specifico, poiché il contribuente ha effettuato lavori su beni di terzi che sono destinati, in modo permanente, all’esercizio della sua attività imprenditoriale (agriturismo).
Appare chiaro che la Corte di Cassazione per legittimare il rimborso Iva ha dovuto sostanzialmente “legiferare”. Non si può negare questa realtà trincerandosi dietro l’affermazione apodittica che non si operava nel campo della normopoietica, attribuendo significati diversi ai beni ammortizzabili ai fini Iva rispetto alle Imposte Dirette, alle norme di bilancio e ai principi contabili. Se gli Ermellini erano convinti secondo scienza e coscienza prima della detraibilità e poi dei rimborsi relativi alle opere su beni di terzi era doveroso che gli atti fossero rimessi alla Corte Costituzionale, ma il giudice di legittimità ha preferito la strategia del fare da te. La volontà “autonomistica” della sentenza emerge da un ulteriore passaggio ove si legge che è chiaro che la legge dovrebbe essere ampliata per includere beni che, anche se non sono esattamente ammortizzabili, sono comunque previsti per l’uso nell’azienda per un periodo medio-lungo, come “investimenti” (beni strumentali). Cosa intende la Corte di Cassazione per periodo medio lungo? Può la Corte di Cassazione nel valutare la detraibilità o la rimborsabilità dell’iva nei lavori straordinari presso terzi, determinare il concetto di periodo medio lungo di un contratto di affitto, di locazione o di comodato? È di tutta evidenza che la Corte di Cassazione non detiene questo potere, ma, ciò nonostante, ha ritenuto nella fattispecie oggetto del giudizio di ritenere che il contratto di affitto per lo svolgimento dell’attività agrituristica fosse medio lungo. Sulla base di queste considerazioni non può che sostenersi, a nostro modo di vedere, che la Cassazione non si sarebbe dovuta pronunciare sulla legittimità della richiesta di rimborso iva per lavori eseguiti su beni di terzi, ma avrebbe dovuto trasmettere alla Corte Costituzionale gli atti, sottoponendo a quest’ultima la problematica della legittimità o meno dell’articolo 30 del D.P.R. 633/72 nella parte in cui non prevedeva la rimborsabilità dell’iva per i lavori eseguiti su beni di terzi.
La soluzione alla quale è pervenuta la Corte di Cassazione, in assenza di una sentenza additiva della Corte Costituzionale renderà indispensabile l’intervento del legislatore se si vuole evitare che le lacune normative siano colmate da provvedimenti dell’Agenzia delle Entrate, rendendosi necessario una integrazione della normativa in materia di rettifica Iva dei beni ammortizzabili e, ora, dei lavori presso terzi.
L’Agenzia delle Entrate, con l’interpello n. 131 del 29 aprile 2019, ha fornito spiegazioni sulla corretta modifica della detrazione iva per le spese di manutenzione straordinaria su immobili posseduti attraverso un diritto di usufrutto. Questo chiarimento risolve alcuni dubbi riguardanti: i) il titolo di proprietà dell’immobile; ii) le spese che danno diritto a detrazione; iii) la realizzazione della rettifica in caso di trasferimento del diritto sull’immobile.
Il diritto di detrazione, principio chiave nel sistema iva, richiede che l’operatore economico possa recuperare l’iva sulle spese sostenute a monte, che sono correlate a operazioni soggette a iva (o equivalenti) a valle.
Nel caso di un edificio o parte di esso, il diritto di detrazione dell’imposta sulle spese sostenute è concesso anche a chi ha acquisito il bene attraverso un “diritto reale di godimento” (cioè usufrutto) che gli permette di “gestire il bene, di fatto, come se fosse il proprietario”.
A questo proposito, la Corte di giustizia UE ha precisato in più occasioni che il concetto di “trasferimento di beni” deve essere interpretato in senso lato, includendo “qualsiasi operazione di trasferimento di un bene materiale effettuata da una parte che autorizza l’altra parte a gestire di fatto tale bene come se ne fosse il proprietario”.[25]
Inoltre, nel caso specifico, la detrazione dell’iva sulle spese di manutenzione straordinaria di immobili è permessa poiché tali spese si riferiscono a immobili affittati in regime di tassabilità.
Per quanto riguarda la rettifica della detrazione, la manutenzione straordinaria, essendo una “miglioria”, è considerata alla stessa stregua dei beni ammortizzabili a cui si riferisce (gli immobili in questione), quindi l’iva sulle spese sostenute è soggetta alla stessa disciplina applicabile ai beni ammortizzabili di cui è aumentato il valore o prolungata la durata utile.
Da ciò deriva anche che, nel caso di successiva destinazione degli immobili a operazioni non soggette a iva, è necessario procedere alla rettifica della detrazione originariamente effettuata. In particolare, a seguito della cessione, in regime di esenzione, del diritto di usufrutto da parte della società usufruttuaria, è necessario procedere alla rettifica della detrazione dell’iva già effettuata.
A questo proposito, la risposta all’interpello sottolinea la correttezza di tale rettifica, in quanto la cessione del diritto di usufrutto è avvenuta nel corso dei dieci anni successivi al completamento della manutenzione straordinaria, dies a quo del cosiddetto periodo di osservazione fiscale. La correzione deve essere effettuata in relazione a tanti decimi dell’IVA detratta quanti sono gli anni che mancano per completare il decennio.
In conclusione, l’Agenzia ritiene che sia corretto che si sia effettuato l’aggiustamento della detrazione relativa all’iva pagata per le spese di miglioramento classificate come “manutenzione straordinaria”. Queste spese, infatti, per quanto riguarda la disciplina dell’aggiustamento della detrazione, devono essere considerate relative a beni ammortizzabili e, come tali, soggette alla stessa disciplina applicabile ai beni ammortizzabili il cui valore aumentano. Inoltre, per queste spese, il “dies a quo” del periodo decennale di osservazione fiscale coincide con il completamento della manutenzione straordinaria dell’immobile.
Come stabilito dall’art. 19-bis2 del DPR n. 633/72, la detrazione dell’iva relativa ai beni e servizi acquistati dal soggetto passivo viene modificata (aumentata o diminuita) se tali beni e servizi vengono utilizzati per operazioni che danno diritto a una detrazione in misura diversa da quella prevista al momento dell’acquisto.
In conclusione, si rende necessario, come anticipato, un intervento, per equiparare in termini di rettifica dell’Iva i lavori straordinari su beni di terzi ai beni ammortizzabili. L’Agenzia delle Entrate commetterebbe un errore giuridico grave se decidesse di effettuare l’equiparazione vigente mediante l’istituto dell’analogia e probabilmente anche della interpretazione estensiva, perché si porrebbe in aperto contrasto con lo Statuto del contribuente[26] che vieta le disposizioni tributarie con effetto retroattivo. L’unica eccezione permessa dal nostro sistema giuridico è contenuta nell’articolo, comma 1, dello Statuto del contribuente. Il testo sostiene che l’implementazione di regolamenti interpretativi in ambito fiscale è permessa solamente in circostanze straordinarie e mediante una legge comune, identificando le norme come di interpretazione autentica.
4. Conclusioni
La Corte di Cassazione surrogandosi alla Corte Costituzionale che sarebbe potuta intervenire, affermando che l’art. 30 del D.P.R. era costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevedeva i rimborsi dell’Iva relativa ai lavori straordinari eseguiti presso terzi ha complicato non poco la disciplina relativa. Se il legislatore, malauguratamente, non interverrà in tempi brevi, si verificherà che la disciplina della detraibilità e della rimborsabilità Iva sui beni ammortizzabili diventerà per il contribuente più restrittiva della disciplina relativa all’Iva per i lavori eseguiti sui beni dei terzi, apprendo la via a ulteriori contenziosi. Inoltre, se non sarà disciplinata in modo ragionevole la durata dei contratti di locazione, affitto e comodato si creeranno i presupposti per consentire al consumatore finale di portare l’iva in detrazione mediante escamotage di facile realizzazione, ma di difficile individuazione nel tempo, per l’utilizzo di contratti di durata tale da essere difficilmente presidiati in assenza di adeguate procedure informatiche.
[1] Sentenza n. 16696 del 9 agosto 2016 (ud 14 marzo 2016)
[2] www.altalex.com di Anna Maria Zigrino
[3] Cass. sez. tributaria, 12/07/2006, n. 15808; Cass. sez. tributaria, n. 2939 del 2006; Cass. sez. tributaria n. 13494 del 2015; Cass. sez. tributaria n. 6936 del 2011.
[4] Cass. sez. tributaria n. 3544 del 2010; Cass. sez. tributaria 30/04/2009, n. 10079 del 2009; Cass. sez. tributaria n. 13327 del 2011).
[5]www.tcnotiziario.it/Articolo/Index?settings=TXE1cVhkRXlNbkV0MS9rQ0thSkdJa1hUTGhvd2FoRHFuTUxwSFBEL3FFekJKSGNBSHVmV2lOOTJ2M2dNSVlYYXZmQ3A2V0pGcEVsTnphV1Yvc1lFMDRrMWg0UXA4V2M3a3A5Q0Z0QzNSeXp0VEZkVDRUcHMwcW81VDFEUmpobUQ=
[6] Risoluzione 27 dicembre 2005, n. 179/E; Risoluzione 9 aprile 2002, n. 111/E
[7] Circolare 31 maggio 2005, n. 27/E
[8] Risoluzione 6 ottobre 2008, n. 372/E
[9] Circolare 19 dicembre 2013, n. 36/E; Risposta a interpello n. 861 del 23 dicembre 2021
[10] Nota n. 34486/2010
[11] Risposta a interpello n. 497 del 22 ottobre 2020
[12] Sentenza SS.UU. n. 11533/2018
[13] Cassazione ordinanza n. 14975/2023
[14] Cass. n. 27813/2022, Cass. n. 8389/2013
[15] Cass. n. 24518/2020, Cass. n. 24779/2015
[16] Sentenza Von Colson, C-14/83; Corte costituzionale sentenza Granital, n. 170 del 1984).
[17] Direttive 67/227/CEE e 67/228/CEE.
[18] Corte giustizia, C-105/03, Pupino, C- 306/12, Spedition Welter, C-335/21, Vicente
[19] L’acquis dell’Unione europea (Unione) è un insieme di diritti e doveri comuni che formano il nucleo del diritto dell’Unione, incorporato nei sistemi giuridici degli Stati membri dell’Unione. L’acquis dell’Unione è in continua evoluzione e include: i contenuti, i principi e gli obiettivi politici dei trattati dell’Unione; qualsiasi legislazione adottata per mettere in pratica i trattati sopracitati e la giurisprudenza sviluppata dalla Corte di giustizia dell’Unione europea; dichiarazioni e risoluzioni adottate dall’Unione; misure relative alla politica estera e di sicurezza comune e alla giustizia e agli affari interni; accordi internazionali stipulati dall’Unione e accordi tra gli stessi Stati membri riguardanti le attività dell’Unione.
I paesi candidati devono accettare l’acquis per poter entrare a far parte dell’Unione. Le deroghe (eccezioni) all’acquis sono concesse solo in circostanze straordinarie e in modo limitato. L’acquis deve essere incorporato nei rispettivi sistemi giuridici nazionali dei paesi candidati dalla data della loro adesione all’Unione e quindi applicato da quel momento in poi.
[20] Corte di Giustizia 21 febbraio 2006, caso C-255/02
[21] Sentenza C-419/02 del 21 febbraio 2006
[22] Così Cass. Civile Sez. 3, Sentenza del 25/06/2013 n. 15877; anche Cass. Civile Sez. Un., Sentenza del 09/02/2011 n. 3168
[23] Art. 10-septies. (Circolari). L’amministrazione finanziaria pubblica circolari per fornire: a) la ricostruzione del procedimento formativo delle nuove disposizioni tributarie e i primi chiarimenti dei loro contenuti; b) approfondimenti e aggiornamenti interpretativi conseguenti a nuovi orientamenti legislativi e giurisprudenziali; c) inquadramenti sistematici su tematiche di particolare complessità; d) istruzioni operative ai suoi uffici.
Nella elaborazione delle circolari di cui al comma 1, lettere a), b) e c), l’amministrazione finanziaria, nei casi di maggiore interesse, può effettuare interlocuzioni preventive con soggetti istituzionali ovvero con ordini professionali, associazioni di categoria o altri enti esponenziali di interessi collettivi, nonché farle oggetto di pubblica consultazione prima della loro pubblicazione.
Il Ministro dell’economia e delle finanze ovvero, quando nominato, il suo Vice Ministro delegato per l’amministrazione finanziaria, adotta su proposta dell’Amministrazione finanziaria gli atti di indirizzo interpretativo ed applicativo di cui all’articolo 4, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai quali devono attenersi le circolari di cui al comma 1, lettere a), b) e c).
[24] Corte giustizia, C-105/03, Pupino, C- 306/12, Spedition Welter, C-335/21, Vicente
[25] Sentenza C-494/12 del 21 novembre 2013, caso Dixons Retail
[26] Art. 3 Efficacia temporale delle norme tributarie. Salvo quanto previsto dall’articolo 1, comma 2, le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo. ((Le presunzioni legali non si applicano retroattivamente.)) Relativamente ai tributi ((dovuti, determinati o liquidati periodicamente)) le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono. In ogni caso, le disposizioni tributarie non possono prevedere adempimenti a carico dei contribuenti la cui scadenza sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla data della loro entrata in vigore o dell’adozione dei provvedimenti di attuazione in esse espressamente previsti. I termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non possono essere prorogati.
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