Kurdistan: prospettive internazionali e responsabilità politiche
Va consumandosi in silenzio, nonostante occasionali e ancora isolate contestazioni degli attivisti per i diritti umani, l’operazione del governo turco “Ramoscello d’Ulivo”, nei confronti del Cantone di Afrin e del Governatorato di Aleppo. Ai giuristi spetta di trarre alcune conclusioni che si spera concorreranno a far maturare nell’opinione pubblica internazionale prese di coscienza più determinate e incisive avverso situazioni di questo tipo.
L’intervento del governo turco presenta a prima vista almeno tre profili problematici. Innanzitutto, si tratta di un’operazione militare indirizzata, anche formalmente, contro movimenti politici di uno Stato terzo: i partiti della rappresentanza curda in Siria.
In particolar modo, il bersaglio immediato sembra essere il Partito dell’Unione Democratica. Per i cultori delle scienze politiche e del diritto comparato, lo statuto di quel partito presenta in realtà aspetti decisamente interessanti, tradottisi in pratiche amministrative ancor più significative.
Il Partito dell’Unione Democratica adotta i principi del confederalismo democratico, ha posizioni non interventiste sulla questione siriana, sostiene l’organizzazione municipale dei territori. Vero è che in filigrana queste rivendicazioni, in realtà non sempre minoritarie nel Medio Oriente, rimandano al pensiero del politico curdo Abdullah Öcalan, detenuto dal 1999 in una struttura speciale turca e tutt’oggi ritenuto leader carismatico del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). D’altra parte, l’influenza di Öcalan sui partiti di orientamento filo-curdo è molto forte e tale pare continuare a essere nel breve e nel medio periodo.
La regione curda è ricompresa tra la Turchia, l’Iran, la Siria, l’Iraq e l’Armenia. In ciascuno di questi Stati operano partiti e movimenti che rivendicano l’autonomia del Kurdistan da posizioni socialiste (talvolta di socialismo libertario). Probabilmente nella sola Armenia, meno interessata alla questione curda per ragioni demografiche e geografiche, ma anche ideologiche, la partecipazione politica dei curdi ha un peso specifico minore. Ciò è ancor più vero se si considera che la regione armena è ormai ritenuta afferente al Kurdistan originario solo da una progressivamente ridotta quota di curdi vetero-nazionalisti. Sembra, inoltre, che l’Armenia non abbia adeguata forza “contrattuale”, nel novero dell’area, per intervenire direttamente in una questione tutto sommato percepita marginalmente dalla sua opinione pubblica. Ciò non bastasse, sarebbe improbabile immaginare un intervento armeno, attesi gli irrisolti strascichi delle controversie internazionalistiche innestatesi sulla definizione del genocidio armeno del 1915/1916. Quei massacri, di carattere etnico-razziale oltre che religioso, furono compiuti dall’Impero Ottomano, che dal punto di vista strettamente costituzionalistico non identifica certamente la stessa soggettività politica dell’attuale Turchia.
Sarebbe, però, parimenti illusorio credere che la presente conformazione giuridico-parlamentare del sistema turco abbia favorito la soluzione della controversia. La Turchia non solo non riconosce il genocidio al tempo compiuto dall’esercito ottomano, ma addirittura variamente avversa, anche in sedi propriamente diplomatiche e internazionalistiche, gli Stati e le entità politiche che riconoscono ufficialmente la portata del genocidio. Proprio su questa tema, del resto, si evidenzia una delle poche iniziative di specifico (ma disatteso) protagonismo geopolitico poste in essere dall’Unione Europea.
In varie risoluzioni parlamentari, sin dalla fine degli anni Ottanta, è stato sovente adoperato il lemma genocide per accostarsi al massacro degli Armeni avvenuto all’inizio del Ventesimo secolo. Queste implicazioni non hanno particolare voce nel recepimento internazionalistico della questione curda, se non forse come ulteriore elemento di discredito nei confronti del governo turco, ma è prudente che le due controversie (quella armena, trascorsa e non riconosciuta; quella curda, ancora in atto e di difficile composizione) siano ritenute concettualmente autonome sotto il profilo giuridico, oltre che ideologico.
Nelle strategie di Ankara, comunque sia, la sconfitta, se del caso anche militare, della vasta area del dissenso politico curdo sembra prioritaria, al punto che alcuni osservatori internazionali hanno ben concluso che, persino più dell’Unione Democratica, vero bersaglio di “Ramoscello d’Ulivo” sia la milizia organizzata dell’Unità di Protezione Popolare. Non appena si consideri che anche la forza armata del Rojava è in comprovati rapporti col PartîyaKarkerénKurdîstan, la natura inequivocabilmente anti-curda dell’operazione militare è destinata ad apparire ancor più difficilmente controvertibile.
In secondo luogo, per quanto il Kurdistan ricada in parte nel territorio di Stati europei che ambiscono ad aderire all’Unione (come la Turchia) o di Stati che hanno risalenti rapporti geostrategici con i Paesi europei, l’assalto ad Afrin riguarda al momento soprattutto i rapporti tra gli Stati Uniti e la Turchia. Questo aspetto certifica la strutturale debolezza dell’Unione Europea in materia di diplomazia internazionale, ove è spesso scavalcata da ragioni di realpolitik (facilitate dalla ancora parziale messa a fuoco dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la politica di sicurezza, nel diritto dei trattati e nella correlata prassi attuativa).
D’altra parte, ciò testimonia dell’uso intenzionalmente bifronte che il governo statunitense ha fatto della resistenza curda, appoggiandone gli esiti quando il bersaglio principale dell’autonomismo curdo armato era l’Islamic State, ma disinteressandosi degli attacchi turchi nelle altre circostanze. Il Presidente Erdoğan ha chiarito che proseguirà in direzione di Mambij, proprio la città dove un contingente statunitense aveva dato man forte alle truppe curde per scacciare vittoriosamente le milizie di Daesh nel 2016. A quel punto il ruolo politico-militare degli Stati Uniti dovrà essere formalizzato anche sul piano eminentemente giuridico.
L’impressione è che la dottrina internazionale della Presidenza Trump stia antistoricamente opponendo alla crisi del multilateralismo – persino in materia commerciale: si pensi alla politica di dazi e sanzioni – un ritorno al bilateralismo circostanziale, negoziato volta per volta secondo l’alleanza più vantaggiosa. Se in questo quadro dovesse risultare più utile il confronto con la Repubblica di Turchia, ogni recente trascorso di alleanza territoriale locale per smantellare i fortini dell’Islamic State sarebbe presto consegnato al dimenticatoio.
Una posizione allo stato equilibrata è quella della Repubblica Islamica dell’Iran, per bocca del suo presidente, HassanRouhani, giurista e fautore almeno dichiarato dell’implementazione dei diritti umani nell’area. In questa fase storica, l’intervento contro i partiti e i movimenti del confederalismo democratico in Siria non era né una priorità politica, né una urgenza internazionale. Oltretutto, e lo testimonia il discreto attivismo del Presidente di una repubblica sciita, aspetto non irrilevante della battaglia autonomistica curda è dato dalla multireligiosità, sostanzialmente pacifica, del suo popolo. Non è raro imbattersi in comunità curde dove convivono, nonostante le fisiologiche tensioni, sunniti ed ebrei, cristiani e sciiti, devoti dei culti zoroastriani, ma anche laici secolari.
In ultimo, l’intervento militare turco rischia di compromettere la soluzione politica dell’autonomia curda, contestualmente creando nella medesima area geografica le condizioni per un ripristino di cellule terroristiche, di molto agevolate dalla inevitabile confusione portata dalle operazioni belliche.
Un passo importante era stato compiuto col referendum nella regione irachena, avvenuto nel Settembre 2017. Il prevedibile plebiscito a favore dell’autonomia curda dall’Iraq, in realtà, non era l’indizio di una rappresaglia contro il governo iracheno, che, anche nel quadro politico-costituzionale successivo alla seconda guerra del Golfo, ribadiva, e stavolta su delega dell’autorità governativa statunitense, uno statuto prudentemente municipalista per la regione curda. La posizione degli Stati Uniti, non ostile alle rivendicazioni curde almeno dal punto di vista strumentale, aveva pure determinato il sostegno israeliano alla causa referendaria, attesi i rapporti politici ulteriormente rinsaldatisi tra il governo di Gerusalemme e quello di Washington.
Sullo scacchiere internazionale, purtroppo, altre questioni sembrano ora rivendicare ben maggior peso dei massacri di Afrin, che non hanno riguardato, secondo operatori internazionali accreditati come Human Rights Watch, soltanto i ribelli siriani filo-curdi, ma anche semplici civili e rifugiati. Capire se Erdoğan, ottenuta la piena egemonia dell’area, potrà tornare alleato affidabile tanto per l’Alleanza atlantica quanto per la Federazione Russa – che hanno nelle medesime regioni interessi tuttavia spesso confliggenti – appare questione impellente per le diplomazie più forti. Verificare cosa sarà della Presidenza siriana dell’alawita Bashar al-Assad pare ulteriore “distrattore”, rispetto allo sforzo delle cancellerie internazionali.
Il silenzio della UE, in parte voluto e in parte incoraggiato dalla maggior forza dei fattori esterni, non toglie imbarazzo e colpe per le migliaia di morti che un’operazione militare intitolata alla pace sta invece inequivocabilmente mietendo.
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Domenico Bilotti
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