La bancarotta semplice patrimoniale e documentale
Sommario: 1. Premessa – 2. Gli interessi tutelati – 3. L’oggetto giuridico – 4. I soggetti attivi – 5. Il ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento – 6. Consumazione – 7. La bancarotta nella legge vigente – 8. La bancarotta semplice – 9. La Bancarotta semplice patrimoniale – 9.1. La bancarotta semplice per inosservanza delle obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare – 10. La bancarotta semplice documentale – 10.1. L’elemento soggettivo – 11. Caso Alitalia
1. Premessa
Il reato di bancarotta rappresenta il reato fallimentare per definizione, la cui origine può farsi risalire molto addietro nel tempo.
Originariamente sia la dottrina sia la giurisprudenza erano orientati a identificare il fallimento e la bancarotta, come quasi a voler dire che, al sopraggiungere della procedura concorsuale per ciò stesso si determinasse il verificarsi della fattispecie di bancarotta.
Nella prassi applicativa si è riusciti a dimostrare, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, che le crisi delle imprese non fossero più fenomeni isolati, correlati ad eventuali incapacità dell’imprenditore oppure a comportamenti colposi o dolosi, e sono diventati fenomeni ricorrenti, rientranti nella fisiologia del sistema industriale[1].
In generale, la parola “bancarotta” deriva, dal punto di vista etimologico, dai soggetti attivi del reato, i bancae ruptores.
Negli statuti medievali, i bancae ruptores erano i commercianti che, figurativamente, “spezzavano il banco” e quindi – detto in altre parole – rompevano gli impegni presi.
I bancae ruptores erano pertanto considerati dei frodatori.
Oggi, può affermarsi che il reato di bancarotta si articola in diverse tipologie di ipotesi delittuose, scandite da alcune fondamentali dicotomie[2].
Una prima distinzione da farsi è quella tra bancarotta fraudolenta di cui all’art. 216 l.fall. e bancarotta semplice di cui all’art. 217 l. fall..
La differenza tra le due deve ricondursi ad un piano principalmente psicologico: la fraudolenza richiama una volontà offensiva; mentre quando si parla di bancarotta semplice si pensa ad una categoria residuale e, tendenzialmente, di origine colposa.
Un’altra catalogazione può effettuarsi con riferimenti alla bancarotta propria e alla bancarotta impropria (o societaria).
La bancarotta propria concerne i reati commessi dall’imprenditore individuale (artt. 216 e 217 l.fall.) e dai soci illimitatamente responsabili delle società in nome collettivo e in accomandita semplice.
La bancarotta impropria, invece, riguarda i fatti commessi “da persone diverse dal fallito”, e quindi dai titolari di posizioni qualificate all’interno dell’impresa gestite in forma societaria (amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società dichiarate fallite). In particolare, alla figura della bancarotta impropria o societaria si riconducono anche le ipotesi delittuose previste:
– dal n. 1 dell’art. 223, comma secondo; si tratta di fatti previsti da disposizioni penali societarie causativi dal dissesto della società (bancarotta del reato societario);
– dal n. 2 (causazione del fallimento con dolo o per effetto di operazioni dolose) del comma secondo dell’art. 223 e dell’art. 224, n. 2 (causazione colposa del dissesto della società).
Infine, si distingue tra bancarotta pre-fallimentare e bancarotta post-fallimentare: la prima è costituita da quei comportamenti realizzati prima della sentenza dichiarativa di fallimento; la bancarotta post-fallimentare, invece, riguarda comportamenti tenuti dopo la sentenza dichiarativa di fallimento.
2. Gli interessi tutelati
La disamina circa l’oggetto di tutela del reato di bancarotta ha sempre costituito un elemento di discussione in dottrina.
Un primo filone di pensiero, che si è sviluppato tra gli studiosi del diritto commerciale, riteneva che la bancarotta dovesse qualificarsi come reato contro l’economia pubblica, perché in grado di estendere i suoi effetti all’intero sistema economico, attese le grandi correlazione che caratterizzano i rapporti di credito tra le imprese e tra queste il sistema bancario.
In questo quadro costituito da poco equilibrio, viene in gioco la capacità dei fatti di bancarotta di ledere non solo gli interessi dei creditori, ma del credito in generale.
Secondo un autorevole Autore, invece, la bancarotta è un reato contro l’amministrazione della giustizia[3].
A questa conclusione si arriva partendo da una considerazione di base: i diritti patrimoniali dei creditori non vengino soddisfatti individualmente, ma in modo collettivo. Pertanto, essendo l’interesse al soddisfacimento di tutti i creditori – da realizzare secondo i principi della par condicio creditorum – un interesse “pubblicistico-processuale”, il vero oggetto di tutela della bancarotta sarebbe il corretto svolgimento del processo esecutivo concorsuale.
Invece, secondo la tesi maggiormente prevalente, la bancarotta dovrebbe essere annoverata alla famiglia dei reati contro il patrimonio. È un delitto, difatti, che mette in pericolo gli interessi patrimoniali dei creditori[4]. Alcuni Autori lo hanno considerato appartenente a questa categoria, ritenendosi affatto “ragionevole assumere l’ipotesi che il bene complessivamente tutelato dal nucleo principale dell’incriminazioni sia [appunto] quello dell’interesse patrimoniale dei creditori” e intendendo, in particolare, il patrimonio in “un’accezione non meramente individualistica, ma in una dimensione più collettiva, trattandosi infatti di fatti commessi nei confronti di una pluralità di interessati”[5].
In coerenza rispetto a quanto evidenziato dall’illustre Autore, è un’ipotesi particolare di delitto contro il patrimonio, poiché le condotte incriminate non concernono beni di terzi, ma beni di proprietà dello stesso agente: invero, ciò che viene messo in evidenza non è il patrimonio in sé considerato, ma il ruolo di garanzia impresso su di esso nel momento in cui l’imprenditore lo vincola al soddisfacimento delle proprie obbligazioni[6]. Tale tesi è stata confutata affermando che esistono ipotesi di bancarotta che non prendono in considerazione, nel loro oggetto di tutela, il diritto di credito: come per esempio la bancarotta documentale[7]. È stato, altresì, prospettato come la lesione del diritto di credito non costituisca un requisito necessario di questo tipo di reati, quest’ultimo costituito al più dalla lesione degli interessi dei creditori collegata al verificarsi dello stato di insolvenza[8].
Infine, un’altra sostiene che le teorie atte a ricondurre ad un unico oggetto di tutela le diverse ipotesi di bancarotta non sono propriamente soddisfacenti.
Il fenomeno dell’insolvenza, si afferma, realizza tanti effetti; cosicché, insieme con l’esigenza di tutela dei diritti dei creditori sociali, assume rilevanza anche la tutela del credito pubblico (da intendersi come interesse all’attuazione di scambi normali e fiducia dell’esercizio del commercio): la bancarotta sarebbe dunque un reato plurioffensivo[9], anche se opportunamente si segnala come una formula di tale sorta sia “capace di riempirsi dei contenuti più diversi ma inidonea a fornire un qualche chiarimento o solida indicazione interpretativa”[10].
3. L’oggetto giuridico
Le fattispecie di bancarotta tutelano molteplici interessi:
– la garanzia patrimoniale dei creditori (delitti contro il patrimonio);
– l’interesse al corretto andamento delle relazioni economiche (delitto contro l’economia pubblica);
– l’interesse pubblicistico al massimo soddisfacimento dei creditori in modo paritario (delitto contro l’amministrazione della giustizia);
– l’interesse a conoscere la consistenza del patrimonio e il movimento degli affari;
– l’interesse alla par condicio (trattamento paritetico) dei creditori in caso di insolvenza;
– l’interesse dei creditori a essere soddisfatti nella maggior misura e nel minor tempo possibili.
Sul punto, è stato correttamente osservato dalla Suprema Corte in materia “le varie fattispecie di bancarotta prefallimentare sono chiamate a proteggere vari interessi, attesa la rilevata loro autonomia. Accanto all’interesse dei creditori e conservare la garanzia patrimoniale, è ravvisabile l’interesse degli stessi a conoscere la consistenza del patrimonio e del movimento degli affari dell’imprenditore (bancarotta documentale), come pure l’interesse al rapido e paritetico trattamento nel caso di insolvenza (bancarotta preferenziale)” (Cass.pen., Sez. V, 22 marzo 2017, n. 13910).
4. I soggetti attivi
Con riguardo al soggetto autore del reato, si possono distinguere i reati di bancarotta propria e i reati di bancarotta impropria, i quali trovano disciplina all’ art 223 l.f e ss..
In particolare, l’ipotesi di bancarotta propria si realizza quando le condotte tipizzate sono realizzate dall’imprenditore fallito (art. 216 l.f e 217 l.f) o dai soci illimitatamente responsabili di società in nome collettivo o società in accomandita semplice (art 222 l.f). Invece, la bancarotta impropria si consuma quando le condotte tipizzate dalla norma sono messe in atto da persone diverse dal fallito. L’art 223 l. fall. comprende fra i soggetti agenti gli amministratori, i direttori generali, i sindaci, i liquidatori di società dichiarate fallite.
Il protagonista dei reati di bancarotta propria è l’imprenditore commerciale. Ciò si desume dal combinato disposto degli artt. 216 – 217 l.fall. con gli artt. 2082 e 2195 c.c.[11].
Per individuare il soggetto autore dei reati in oggetto occorre fare riferimento a due requisiti: la commercialità e la fallibilità. La nozione di commercialità si ravvisa dal collegamento fra l’art. 2082 c.c., che definisce l’imprenditore, come chi esercita un’attività economica organizzata al fine della produzione e lo scambio di beni o servizi, con l’art. 2195 c.c., nel quale si individuano una serie di attività per le quali l’imprenditore è obbligato ad iscriversi nel registro dell’imprese; il criterio della commercialità, così descritto, serve ad escludere, dal novero dei soggetti agenti, l’imprenditore agricolo.
La nozione di fallibilità si ricava dall’art 1 l.fall. come modificato dal d.lgs. 12 settembre 2007 n.169. Prima di tale modifica legislativa la medesima disposizione si limitava ad affermare la non fallibilità del piccolo imprenditore e a fornire una definizione valida agli effetti della sola legge fallimentare. Tale definizione non si coordinava bene con la definizione di piccolo imprenditore di cui all’art 2083 c.c., che descriveva tale soggetto in termini qualitativi.
Tale problema di coordinamento venne meno quando entrambi i criteri richiesti dall’art.1 l.fall. vennero soppressi: il primo, che prendeva come riferimento l’imposta di ricchezza mobile e qualificava come piccolo imprenditore chiunque avesse un reddito inferiore al minimo imponibile, – venne soppresso in seguito all’eliminazione di tale imposta; il secondo, che faceva riferimento al capitale investito, venne abrogato da una pronuncia di incostituzionalità del 1989.
A seguito di tale pronuncia, era rimasta in vigore la sola definizione codicistica di piccolo imprenditore individuale che però creava non pochi problemi pratici in sede di dichiarazione di fallimento: non era semplice, infatti, accertare in concreto i criteri che tale definizione prevedeva. Per queste ragioni, la riforma della legge fallimentare del 2006, a sua volta modificata dal d.lgs. 12 settembre 2007 n. 169, ha reintrodotto nell’ art 1, 2° comma, l.fall. un sistema di regole basato su criteri esclusivamente quantitativi. La nuova norma non definisce più il “piccolo imprenditore” ma individua alcuni parametri dimensionali dell’impresa, al di sotto dei quali l’imprenditore commerciale non fallisce. Il nuovo art.1 l.fall. recita: “Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:
a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila;
b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore;
c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila.
La nuova formulazione della norma ha comportato una riduzione della categoria dei soggetti fallibili e di conseguenza anche una diminuzione dei soggetti ai quali può essere addebitata responsabilità penale ex artt. 216 ss. l.fall.. Tale riforma ha comportato una querelle interpretativa nella dottrina penalistica circa il problema delle modificazioni mediate della fattispecie incriminatrice. A titolo esemplificativo, pensiamo a un imprenditore che, dichiarato fallito sotto la previgente disciplina, risultasse, a seguito della riforma “carente” dei requisiti in assenza dei quali a seguito della riforma del 2006, egli non potrebbe essere soggetto alle procedure concorsuali, col risultato di difettare della qualifica di imprenditore fallito.
La domanda che si cominciò a porre in dottrina era se ci si trovasse di fronte a un abolitio criminis sancita all’art 2, 2 ° comma c.p..
La dottrina è unanime nel dare risposta positiva. La giurisprudenza, sul tema, ha proposto orientamenti discordanti. Il primo si è manifestato nella sentenza 17.5.2007 della V sezione della Suprema corte, nella quale si è affermato che “i ricorsi per dichiarazione di fallimento e le domande di concordato fallimentare depositate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 5 del 2006, nonché le procedure di fallimento e di concordato fallimentare presenti alla stessa data, sono definiti secondo la legge anteriore”.
Tale affermazione è stata sostenuta sulla base dell’applicazione della disciplina transitoria, prevista all’art 150 del suddetto d.lgs., applicabile, ad opinione della Corte, anche in campo penale.
Poco dopo, con la sentenza 21 novembre 2007 n. 43076, la V sezione della Cassazione ha affermato l’orientamento opposto. Con tale sentenza infatti la Suprema Corte ha ritenuto che l’intervenuta modifica del 2006 abbia comportato un’abolitio criminis parziale, a prescindere dalla previsione di una disciplina transitoria ai sensi dell’art 150 del suddetto decreto legislativo.
Si è creato così un contrasto giurisprudenziale che è stato risolto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che con sentenza del 2008 hanno affermato l’orientamento meno favorevole all’imputato sulla base di tre considerazioni: l’efficacia vincolante della sentenza dichiarativa di fallimento per il giudice penale, la non incidenza dell’art 1 l.fall. sulla struttura del reato e l’operatività dell’art 150 del d.lgs. suddetto anche in campo penale.
5. Il ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento
Da sempre nella materia fallimentare la sentenza dichiarativa di fallimento assume un ruolo di rilevante importanza. Gli artt. 216 e 217 l.f. prevedono infatti che risponda di bancarotta fallimentare oppure di bancarotta semplice l’imprenditore che ha commesso uno dei fatti descritti negli articoli sopracitati “se è dichiarato fallito”. Ne risulta che per l’integrazione delle fattispecie non basta la commissione dei fatti anzidetti, come non basta da solo il fallimento: è indispensabile il concorso degli uni e dell’altro[12].
La determinazione del ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento in tema di bancarotta post fallimentare trova una soluzione pacifica in dottrina e in giurisprudenza nel caso di bancarotta post fallimentare; infatti i due schieramenti ritengono che qualora i fatti di bancarotta siano commessi dopo l’apertura della dichiarazione fallimentare, questa debba essere ritenuta un presupposto del reato.
Molto problematica è, invece, la configurazione della dichiarazione di fallimento nella bancarotta prefallimentare. Su questo punto da sempre si contrappongono due orientamenti consolidati: da un lato si colloca la giurisprudenza[13], che assegna al fallimento il ruolo di elemento costitutivo del reato; dall’altro si pone, invece, la dottrina[14] che rinviene nell’istituto una condizione di punibilità, secondo la nozione ricavabile dall’art 44 cod. pen..
6. Consumazione
La consumazione del reato di bancarotta è differente se si tratta di una bancarotta post-fallimentare o prefallimentare. Con riguardo alla prima fattispecie, la consumazione del reato coincide con il momento in cui si è realizzata la condotta tipizzata[15].
Nei casi di bancarotta impropria da reato societario o da condotta dolosa, il momento consumativo coincide, invece, con quello in cui viene dichiarato il fallimento[16], costituendo, quest’ultimo, l’evento naturalistico del reato. In tema di bancarotta prefallimentare, la dottrina prevalente e, oggi, anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione, inquadrano la sentenza dichiarativa di fallimento fra le condizioni obiettive di punibilità. In base a questa impostazione la bancarotta prefallimentare si consumerebbe, anch’essa, nel momento in cui il tribunale dichiara il fallimento attribuendo alle condotte il carattere dell’illiceità.
Vi è chi contesta l’impostazione da ultimo citata, evidenziando che, nel caso di bancarotta prefallimentare, il momento consumativo dovrebbe essere ricondotto al momento in cui l’agente ha posto in essere i singoli fatti di bancarotta[17].
La giurisprudenza con la sentenza n. 13910/2017, nell’andare a definire la sentenza dichiarativa di fallimento quale condizione obiettiva di punibilità estrinseca, stabilisce allo stesso modo che alla stessa debba farsi riferimento per quanto riguarda il momento consumativo del delitto in oggetto: questo perché non può ritenersi consumato un reato prima che il fatto assuma rilevanza penale, rilevanza penale che è data appunto dall’intervenire della sentenza dichiarativa di fallimento.
La dottrina prevalente e la giurisprudenza[18] – pur in contrasto circa il ruolo da assegnare alla declaratoria di fallimento – sono comunque concordi nell’affermare che il tempus commissi delicti debba essere individuato nel momento in cui è pronunciata la sentenza di dichiarazione di fallimento, ai soli fini del decorso della prescrizione, sulla base della considerazione che, soltanto con il fallimento, le condotte tipizzate dalle fattispecie di bancarotta assumono il crisma di illiceità, divenendo penalmente rilevanti.
La dottrina minoritaria propone una visione contrastante con tale conclusione. Dato il ruolo di condizione di punibilità assegnato alla declaratoria di fallimento, i fatti realizzati avrebbero già un contenuto autonomo di disvalore, e che il fallimento interverrebbe solo per rendere la pena applicabile a comportamenti già tipici sul piano sostanziale; ne consegue che nell’ipotesi di bancarotta prefallimentare il tempus commissi delicti dovrebbe essere individuato, non nel momento di emissione della declaratoria, ma nel momento in cui le singole condotte incriminate si sono realizzate.
Sulla base di tali considerazioni, si arriva allo stesso risultato per quanto riguarda il decorso della prescrizione: la stessa decorrerà dalla data di pronuncia della sentenza di fallimento. Si giungerà a conclusioni diverse, invece, per quanto riguarda l’individuazione del locus commissi delicti, che sarà individuato nel luogo in cui tali condotte si sono manifestate. Non è detto che tale luogo coincida con quello di emissione della sentenza di fallimento, così l’ufficio competente ad accertare le condotte di reato potrebbe essere diverso dalla sede di tribunale competente a pronunciare sentenza di fallimento.
Non sussistono invece le medesime incertezze per l’individuazione del momento consumativo dei reati commessi dopo la dichiarazione di fallimento: esso coincide con il tempo in cui tali condotte sono state eseguite.
7. La bancarotta nella legge vigente
La figura della bancarotta costituisce il più classico reato fallimentare. La tipologia è scandita da qualificazioni e partizioni: bancarotta fraudolenta e semplice; bancarotta patrimoniale, documentale, preferenziale; bancarotta propria ed impropria; bancarotta prefallimentare e post fallimentare.
La bancarotta fraudolenta propria è contemplata nell’art 216 l.f., il quale prevede che è punito con la reclusione l’imprenditore dichiarato fallito, qualora lo stesso abbia distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni, ovvero, al fine di recare pregiudizio ai creditori o ha riconosciuto passività non esistenti; ed anche, colui che abbia sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in modo tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.
È previsto, peraltro, che la medesima pena sia applicato a colui che, dichiarato fallito, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti esposti precedentemente oppure sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili.
Infine, è previsto che è punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare esegue pagamenti o simula titoli di prelazione, per favorire qualche creditore.
La bancarotta semplice propria è delineata nei seguenti termini dall’art. successivo (art 217 l.f.);
È punito con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che, fuori dai casi preveduti nell’articolo precedente:
1) ha fatto spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alla sua condizione economica;
2) ha consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti;
3) ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento;
4) ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa;
5) non ha soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare.
La stessa pena si applica al fallito che, durante i tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento ovvero dall’inizio dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata, non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge o li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta.
Salve le altre pene accessorie di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna importa l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a due anni.
La disposizione conclusiva del capo I, l’art 222 l.fall. estende le fattispecie di bancarotta propria ai soci persone fisiche illimitatamente responsabili di società in nome collettivo e società in accomandita semplice.
Le suddette disposizioni sono integrate da altre che figurano nel capo II del Titolo VI della legge fallimentare “Reati commessi da persone diverse dal fallito”. Esse riguardano la cosiddetta bancarotta impropria e si riferiscono agli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società dichiarate fallite e all’institore dell’imprenditore dichiarato fallito. Si tratta degli artt. 223, 224 e 227 l.fall..
Il primo articolo, sotto la rubrica “Fatti di bancarotta fraudolenta” stabilisce:
«Si applicano le pene stabilite nell’art. 216 agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite, i quali hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nel suddetto articolo.
Si applica alle persone suddette la pena prevista dal primo comma dell’art. 216, se:
1) hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli articoli 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 del codice civile; (1)
2) hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società.
Si applica altresì in ogni caso la disposizione dell’ultimo comma dell’art. 216.»
L’art 224 (fatti di bancarotta semplice) dispone:
«Si applicano le pene stabilite nell’art. 217 agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società dichiarate fallite, i quali:
1) hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nel suddetto articolo;
2) hanno concorso a cagionare od aggravare il dissesto della società con inosservanza degli obblighi ad essi imposti dalla legge.»
8. La bancarotta semplice
Il reato di bancarotta semplice è previsto dall’art. 217 legge fall.[19], nel cui incipit della disposizione è inserita una clausola di sussidiarietà “fuori dai casi preveduti dall’articolo precedente”. Pertanto, la fattispecie in esame può essere definita residuale[20] rispetto alla precedente bancarotta fraudolenta.
La bancarotta semplice può essere catalogata, allo stesso modo di quella fraudolenta, in bancarotta semplice patrimoniale (dalla lettera a) alla lettera d)); bancarotta semplice dal mancato adempimento di obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o liquidatorio giudiziale (fallimentare) ex lett. e); in bancarotta semplice documentale (comma 2).
9. La bancarotta semplice patrimoniale
La condotta caratterizzante la bancarotta semplice patrimoniale si manifesta particolarmente eterogenea attesa l’assenza di una condotta residuale che nella bancarotta fraudolenta patrimoniale è costituita dalla distrazione[21].
Bisogna quindi esaminare ciascuna figura di bancarotta semplice patrimoniale per comprenderne la relativa applicazione.
La prima condotta cui fa riferimento l’art. 217 legge fallimentare è la realizzazione di spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alla condizione economica dell’imprenditore dichiarato in liquidazione giudiziale ovvero fallito, da porsi in evidente analogia con la condotta di dissipazione prevista nella bancarotta fraudolenta. La parola “spesa” significa dunque un’uscita economica: quest’ultima deve essere effettuata per soddisfare un bisogno o un’esigenza di vita personale ovvero della famiglia dell’imprenditore, e non per finalità lucrative[22].
Rispetto alla condotta di dissipazione prevista in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, la condotta qui in esame è connotata dal fatto che le spese, seppure eccessive, restano razionali, mentre una spesa irrazionale integrerà gli estremi della sola condotta dissipativa[23].
La condotta consiste nell’assunzione, da parte dell’imprenditore, di obbligazioni a titolo oneroso che implicano una prestazione a carico del fallito. Non rileverà qualsiasi genere di spesa, ma unicamente quelle che possono considerarsi eccessive in relazione alle condizioni economiche dell’imprenditore e dell’impresa medesima. Peraltro, come accennato precedentemente, deve trattarsi di spese attinenti alla sfera privata dell’imprenditore o dallo stesso sostenute in favore dei propri familiari, mentre nessuna rilevanza hanno le spese affrontate a vantaggio dell’impresa.
L’accertamento della responsabilità dell’imprenditore sarà più rigoroso qualora si sia in prossimità del fallimento dell’impresa[24], considerando che, in questa situazione, il soggetto agente potrà essere considerato esente da responsabilità solo se dimostri di non aver sostenuto spese inconcepibili per un imprenditore in stato di dissesto; più in generale, si osserva come non sia possibile ammettere che il fatto in parola sia incriminabile solo se si è commesso quando il commerciante già si trovi in stato di insolvenza in quanto “sarebbe arbitrario e contrasterebbe con le finalità della legge ritirare escluso dalla figura criminosa le spese personali o di famiglia eccessive che abbiano contribuito a cagionare il dissesto e che, perciò, necessariamente lo hanno preceduto”[25].
Circa l’assimilazione con la condotta di dissipazione costituente bancarotta fraudolenta è stato opportunamente osservato come, nel caso del reato meno grave, le spese, seppure incongrue rispetto a quelle che sono le condizioni economiche dell’imprenditore, restano sempre razionali, mentre si avrà dissipazione allorquando le sborso affrontato si presenti del tutto irrazionale ed evidentemente finalizzato alla diminutio patrimoniale[26].
Un altro criterio distintivo individuato dalla giurisprudenza è quello basato sull’elemento soggettivo, nel senso che il giudice può ritenere integrata l’ipotesi di bancarotta semplice qualora non sia raggiunta la prova del dolo tipico della dissipazione, anche nel caso di atti di gestione del tutto estranei all’esigenza di conduzione dell’impresa[27]. Affermandosi, inoltre, che “le spese eccessive personali o per la famiglia compiute da un amministratore di società di capitali possono integrare il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione e non quello di bancarotta semplice in quanto la fattispecie di cui all’art. 217, comma primo, n.1, legge fallimentare, è da ritenersi applicabile al solo imprenditore individuale”[28].
Il n. 2 dell’art. 217 punisce l’imprenditore dichiarato fallito che abbia consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti. Anche questa condotta presenta degli evidenti caratteri di affinità con la dissipazione costituente bancarotta fraudolenta ma, diversamente da essa, non presuppone la volontà del soggetto agente di recare pregiudizio ai creditori.
La giurisprudenza ha evidenziato che “la fattispecie di bancarotta fraudolenta per dissipazione si distingue da quella di bancarotta semplice per consumazione del patrimonio in operazioni aleatorie o imprudenti, sotto il profilo oggettivo, per l’incoerenza, nella prospettiva delle esigenze dell’impresa, delle operazioni poste in essere e, sotto il profilo soggettivo, per la consapevolezza dell’autore della condotta di diminuire il patrimonio della stessa per scopi del tutto estranee alla medesima”[29].
Le operazioni di pura sorte sono da individuare in quelle il cui esito dipende essenzialmente dai viventi che sfuggono non soltanto al dominio, ma anche alla previsione del soggetto, quali ad esempio il gioco d’azzardo, le lotterie[30]. La giurisprudenza dominante, tuttavia, riconduce il gioco d’azzardo nell’ambito della bancarotta fraudolenta per dissipazione, posto che l’operazione di pura sorte presuppone “l’esercizio di atti di impresa connotati da errori di valutazione”[31].
Per quanto concerne il concetto di operazioni manifestamente imprudenti il riferimento è a quelle attività con oggetto economico e patrimoniale che comportino un rischio di impresa superiore al normale e riconoscibile immediatamente, al di là di ogni ragionevole dubbio[32]. Possono rientrare in questa categoria la speculazione in borsa, nonché le iniziative economiche in un momento particolarmente sfavorevole per il mercato.
È stato affermato che “non ricorre l’ipotesi di bancarotta semplice integrata da operazioni gravemente imprudenti poste in essere dall’imprenditore, ma quella più grave della bancarotta fraudolenta nel caso di sistematica e preordinata vendita sottocosto, o comunque in perdita, di beni aziendali. Invero, anche le operazioni manifestamente imprudenti, di cui al n. 3 dell’art. 217 l. fall., devono presentare, in astratto, un elemento di razionalità nell’ottica dell’esigenza dell’impresa, cosicché il risultato negativo sia frutto di un mero e riscontrabile errore di valutazione”[33].
Ed ancora: “non ricorre l’ipotesi di bancarotta semplice, di cui all’art. 217, comma 1, n. 2, l.fall., integrata da operazioni di manifesti imprudenza, ma quella più grave di bancarotta fraudolenta, allorché si tratti di operazioni che comportino un notevole impegno sul patrimonio sociale, essendo quasi del tutto inesistente la prospettiva di un vantaggio per la società, mentre le operazioni realizzate con imprudenza costitutive della fattispecie incriminatrice della bancarotta semplice sono quelle il cui successo dipende in tutto o in parte dall’alea o da scelte avventate e tali da rendere palese a prima vista che il rischio affrontato non è proporzionato alle possibilità di successo, fermo restando che, in ogni caso, si tratta pur sempre di comportamenti realizzati nell’interesse dell’impresa”[34].
La successiva condotta, prevista dal n. 3 dell’art. 217, consiste nel compimento di operazioni di grave imprudenza volte a ritardare il fallimento. Anche in questo caso l’aspetto che viene subito in rilievo è la necessità che le operazioni poste in essere siano gravemente imprudenti, concetto esemplificativo dell’intento del legislatore di evitare che l’imprenditore venga impossibilitato a compiere qualsiasi operazione economica, anche se la stessa possa essere fatta rientrare nel rischio legittimo l’impresa[35].
“La differenza tra le due ipotesi di bancarotta semplice di cui all’art 217, comma primo, n. 2 e n. 3 legge fall. (relative, rispettivamente, alla consumazione del patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti e dal compimento di operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento) risiede nel fatto che la prima fattispecie riguarda operazioni “in genere”, aventi ad oggetto il patrimonio dell’imprenditore, consumato, in notevole parte, in operazioni aleatorie o di economicamente scriteriate, il cui effetto conclusivo è la diminuzione della garanzia generica dei creditori, costituita proprio dal patrimonio del debitore, ai sensi dell’art. 2740 c.c.; la seconda ipotesi riguarda, invece, operazioni finalisticamente orientate a ritardare il fallimento, ma ad un tempo caratterizzato da grave avventatezza o spregiudicatezza, che superino i limiti dell’ordinaria imprudenza, che, secondo la comune logica imprenditoriale, può a volte giustificare il ricorso, da parte dell’imprenditore che versi in situazione di difficoltà economica, ad iniziative “coraggiose”, da extrema ratio, ma ragionevolmente dotate di probabilità di successo, al fine di scongiurare il fallimento. Inoltre, mentre la seconda ipotesi, per via dell’anzidetta finalizzazione che la connota, ha certamente carattere doloso, la prima è, invece, punibile a titolo di colpa”[36].
In ordine ai rapporti con la bancarotta fraudolenta patrimoniale, la Cassazione ha specificato quanto segue:
“Ai fini del reato di cui all’art. 217, comma primo n. 2 legge fallimentare, operazioni di grave imprudenza sono quelle caratterizzate da alto grado di rischio, prive di serie e ragionevoli prospettive di successo economico, le quali, avuto riguardo alla complessiva situazione dell’impresa, oramai votata al dissesto, hanno il solo scopo di ritardare il fallimento”[37].
Lo scopo di ritardare il fallimento “impone di collocare l’ipotesi nel periodo in cui già esiste l’insolvenza e di ciò l’imprenditore sia consapevole. Scontato che l’imprenditore sia libero di tentare di salvare la propria impresa fino in fondo, ciò gli è consentito unicamente facendo ricorso a mezzi di cui sia possibile calcolare le conseguenze, non a quelli che pongono l’imprenditore in balia di decisioni arbitrarie altrui o lo facciano precipitare nella spirale di prestiti usurari”[38].
La fattispecie di cui al n. 4 sanziona l’imprenditore che ha causato l’aggravamento del dissesto per mancata richiesta di fallimento o per altra grave colpa.
La prima ipotesi ha ad oggetto il comportamento (omissivo) dell’imprenditore che, astenendosi dal chiedere il proprio fallimento ex art. 6 l.fall., cagiona un aggravamento del dissesto dell’impresa.
Per quanto concerne le condotte di grave colpa menzionate nella seconda parte della norma, si fa in genere riferimento a qualsiasi comportamento (attivo o omissivo) che abbia comunque aggravato il dissesto (ad esempio l’abbandono dell’azienda o il mancato approvvigionamento di materie prime senza giustificato motivo) osservandosi, appunto, che a differenza dell’ipotesi di cui ai numeri 1 e 2, il delitto in esame risulta configurabile anche in presenza di una condotta soltanto omissiva[39].
La Corte di Cassazione ha precisato che la colpa grave non deve essere automaticamente ravvisata sulla sola base del fatto che, sussistendo lo stato di insolvenza, l’imprenditore non abbia tempestivamente richiesto il proprio fallimento; al contrario, vi deve essere adeguata dimostrazione che la scelta di ritardare la dichiarazione di fallimento in proprio sia in sè stessa determinata da un atteggiamento gravemente colposo[40].
In dottrina, ritenendosi che la nozione di colpa grave sia comunque di estrema latitudine e si presti, così, alle più diverse interpretazioni, si considera preferibile qualificare “questa ipotesi come dolosa, basata sulla consapevolezza dello stato ormai irreversibile del dissesto dell’impresa e delle conseguenze negative del temporeggiare rispetto alla richiesta di fallimento”[41].
9.1. La bancarotta semplice per inosservanza delle obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare
L’ultima ipotesi di bancarotta semplice, prevista nel n. 5 dell’art. 217 della legge fall., riguarda l’inadempimento di obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo fallimentare. Risultano evidenti le peculiarità di questa condotta rispetto alle precedenti, considerando che in tale caso l’imprenditore non sottrae risorse economiche ai propri creditori, ma, viceversa, l’inadempimento indicato nella disposizione sembra, invero, poter costituire un vantaggio per i creditori, dato che questi vedranno accrescersi “i beni sui quali soddisfare le proprie pretese creditorie”[42].
La ratio dell’incriminazione in questo caso, quindi, deve ricercarsi nell’intento di punire il “fallito recidivo, inadempiente ad un precedente concordato, lungi da potersi considerare vittima della disgrazia, debba senz’altro essere presunto in colpa”[43]. Si deve trattare, quindi, di un inadempimento concernente un concordato preventivo o fallimentare che abbia avuto origine in una precedente procedura fallimentare e non nella medesima riaperta a seguito della risoluzione del concordato fallimentare o preventivo, in quanto in tali ultimi casi non è possibile parlare di recidiva[44].
In senso conforme, in giurisprudenza è stato affermato che “ai fini della configurabilità del reato di bancarotta semplice per inadempimento degli obblighi assunti in un precedente concordato (art. 217, comma primo, n. 5 legge fall.) viene in rilievo il concordato relativo ad una precedente e distinta procedura concorsuale conseguente a un distinto stato di dissesto rispetto quello che ha dato luogo al fallimento che costituisce elemento costitutivo del reato”[45].
Occorre affermare che, infine, per l’integrazione della condotta in esame, l’inadempimento può essere anche parziale, sempre che al momento della condotta sia scaduto il termine per il pagamento.
10. La bancarotta semplice documentale
Il comma 2 dell’art. 217 sanziona l’imprenditore dichiarato fallito che durante i tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento ovvero dall’inizio dell’impresa, se questa avuto una minore durata, non ha tenuto i libri e le scritture contabili previsti dalla legge o li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta.
La disposizione è molto simile alla più grave ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale prevista nell’art. 216, da cui differisce soprattutto in ragione dell’oggetto del reato, assumendo rilevanza, nella fattispecie in esame, esclusivamente i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge. È stato ritenuto preferibile fare riferimento alle disposizioni che impongono obblighi di natura strettamente contabile, mentre le scritture necessarie – ad esempio – esclusivamente a fini fiscali, ancorché se omesse ovvero irregolari, non dovrebbero rilevare – secondo l’opinione prevalente – ai fini dell’integrazione del reato.
Le differenze si ravvisano soprattutto nell’elemento psicologico. Sotto questo profilo, la Cassazione ha precisato quanto segue:
“In tema di bancarotta documentale, qualora sia assente o insufficiente l’accertamento in ordine allo scopo eventualmente propostosi dall’agente ed in ordine alla oggettiva finalizzazione di tale carenza, la mera mancanza dei libri e delle scritture contabili deve essere ricondotta alla ipotesi criminosa di bancarotta semplice. Invero la bancarotta fraudolenta documentale, prevista dall’art. 216 comma primo n. 2) legge fallimentare, è un delitto doloso, mentre la bancarotta semplice è punibile indifferentemente a titolo di dolo o di colpa, per cui è superflua l’indagine sulla efficacia causale dell’omessa o irregolare tenuta dei predetti documenti, che è punita per sé stessa, indipendentemente dalle conseguenze”[46].
Quanto all’oggetto materiale del reato assumono rilevanza, come anticipato, esclusivamente i libri e le scritture contabili prescritte dalla legge, cosicché è necessario fare riferimento all’art. 2214 c.c., il quale individua le scritture contabili obbligatorie nel libro giornale, libro degli inventari e “nelle altre scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa”, ricomprendendosi nella norma, quindi, sia le scritture assolutamente obbligatorie (appunto i libri e le scritture contabili), sia quelle relativamente obbligatorie (le altre scritture richiamate nella disposizione civilistica).
In relazione alle specifiche tipologie di condotta viene rilievo, innanzitutto, la completa omissione della tenuta delle scritture contabili, che si realizza anche quando la contabilità non presenta quei requisiti minimi previsti dalla legge affinché possa definirsi tale[47].
L’obbligo di tenuta delle scritture comporta sia l’obbligo della redazione di tali documenti che, successivamente, l’obbligo della conservazione dei medesimi per un tempo di 10 anni, secondo quanto previsto dall’art. 2220 c.c., cosicché la documentazione precedente potrà essere eliminata senza correre il rischio di porre in essere la fattispecie in esame[48]. Si è, poi, osservato che l’oggetto del reato di bancarotta semplice documentale è rappresentato da qualsiasi scrittura la cui tenuta è obbligatoria, dovendosi ricomprendere tra queste anche quelle richiamate dal secondo comma dell’art. 2214 c.c.[49].
L’irregolare tenuta si configura, invece, quando la contabilità obbligatoria, ancorché correttamente istituita, è stata redatta in maniera difforme da quanto prescritto dal legislatore, come osservato dalla giurisprudenza secondo cui “in tema di bancarotta semplice documentale, l’art. 7-bis del d.l. 10 giugno 1994, n. 357, conv. In legge 8 agosto 1994, n. 489, ha sostituito il disposto dell’art. 2216 c.c. con un nuovo testo, secondo il quale “il libro giornale deve indicare giorno per giorno le operazioni relative all’esercizio dell’impresa”, senza riprodurre la seconda proposizione originaria “deve essere annualmente vidimato”. Ne deriva che la violazione dell’obbligo di vidimazione non concreta più la condotta di “irregolare tenuta” dei libri contabili, costitutiva del diritto ipotizzato dall’art. 217, secondo comma legge fallimentare. (Fattispecie di annullamento senza rinvio perché il fatto non è previsto dalla legge come reato)”[50].
La tenuta incompleta sussiste quando nella tenuta delle scritture, anche se formalmente regolari, si riscontrino intermittenze o lacune tali da ostacolare la sollecita l’esatta ricostruzione della situazione patrimoniale dell’impresa.
La giurisprudenza, in modo unanime, considera la bancarotta documentale semplice come un reato di mera condotta e di pericolo presunto, non essendo necessaria la verifica di un effettivo danno per i creditori[51]. Cosicché sarà irrilevante l’eventuale presenza di altre scritture che rendono possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari, come confermato dalla giurisprudenza secondo cui “il delitto di bancarotta semplice non è escluso nel caso in cui il fallito abbia tenuto, in luogo delle scritture e dei libri contabili che obbligatoriamente debbono essere tenuti, altre scritture, pur se idonee a consentire la ricostruzione del patrimonio o della situazione debitoria”[52].
In dottrina, invece, si osserva che l’irregolarità o incompletezza dovrebbero in ogni caso costituire un ostacolo alla sollecita ed esatta ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari dell’impresa; con la conseguenza che è esulerebbe il reato allorché le violazioni siano di minima entità, irrilevanti e le scritture si presentino, pertanto, “sufficientemente” regolari e complete[53].
Quanto, infine, al periodo di tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento la giurisprudenza ha affermato la sussistenza del reato anche nel caso in cui l’omessa o irregolare tenuta non sia protratta per l’intero triennio precedente la sentenza di fallimento[54].
In giurisprudenza si è precisato, poi, che “la bancarotta fraudolenta documentale e la bancarotta semplice documentale si distinguono per il profilo oggettivo della condotta del fallito, rilevando nella bancarotta semplice l’aspetto formale dell’omessa o irregolare o incompleta tenuta delle scritture contabili obbligatorie per legge, mentre nella bancarotta fraudolenta quello sostanziale dell’omessa o incompleta tenuta di tutti i libri e le scritture contabili genericamente intesi e dell’impedimento della ricostruzione del volume d’affari o del patrimonio del fallito”[55].
10.1. L’elemento soggettivo
Riguardo all’elemento soggettivo richiesto dalle ipotesi di bancarotta semplice, dottrina appare divisa. Da una parte vi sono coloro che ritengono sufficiente la mera colpa in relazione a tutte le fattispecie considerate dall’art. 217. Secondo altri Autori, invece, l’elemento soggettivo si differenzierebbe in relazione alle diverse ipotesi contemplate dalla norma.
L’ultima impostazione è preferita dalla prevalente dottrina[56]. Invero, è chiaro che le ipotesi previste al n. 2 (consumazione di notevole parte del patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti e al n. 4 (aggravamento del proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra colpa grave) sono punibili anche a titolo di colpa, così come il medesimo elemento soggettivo non pare compatibile con il n. 3, considerando che il fine di ritardare il fallimento presuppone la sussistenza del dolo in capo all’imprenditore fallendo.
In ordine alla bancarotta semplice documentale, la Cassazione ha precisato che “l’elemento soggettivo può indifferentemente essere costituito dal dolo o dalla colpa, che sono ravvisabili quando l’agente ometta, con coscienza e volontà o per semplice negligenza, di tenere le scritture mentre per la bancarotta fraudolenta documentale prevista dall’art. 216, comma primo, n. 2, l. fall., l’elemento psicologico deve essere individuato nel dolo generico, costituito dalla coscienza e volontà della irregolare tenuta delle scritture con la consapevolezza che ciò renda impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio dell’imprenditore”[57].
Una parte della dottrina rileva, tuttavia, come l’articolo 217, comma 2, non presenta riferimenti testuali alla colpa, né pare possibile agganciare la responsabilità colposa all’inosservanza degli obblighi prescritti dall’art. 2214 c.c., posto che tale disposizione non persegue alcuna finalità cautelare e non può pertanto integrare alcuna ipotesi di colpa specifica[58]. In senso contrario, è stato osservato che per tradizione più che secolare la bancarotta semplice può essere usata anche con colpa, ma non con qualsiasi grado di colpa: occorre una colpa grave. Ciò è desunto dal disposto del n. 4 dell’art. 217 il quale pone questa esigenza a livello generale e onnicomprensivo[59].
11. Caso Alitalia
Con la sentenza del 25 febbraio 2021, la Suprema Corte – sezione penale – ha affermato alcuni rilevanti principi in tema di bancarotta per dissipazione e con ciò sancendo – per quello che qui interessa – l’esatta individuazione del criterio discretivo tra la condotta distrattiva e quella dissipativa ex art. 216 l. fall., nonché tra quest’ultima e la bancarotta semplice per “operazioni manifestamente imprudenti” ex art. 217 l. fall..
Andando per gradi, la questione principale, tra le molte prospettate nei motivi di ricorso, attiene alla definizione dell’esatto perimetro entro il quale il giudice penale – ai fini dell’affermazione di responsabilità in relazione alle fattispecie di bancarotta fraudolenta – possa sindacare le scelte imprenditoriali compiute dagli amministratori di una società poi posta in liquidazione, in un momento in cui risultavano peraltro già evidenti le condizioni di crisi finanziaria in cui versava la stessa, e ciò con particolare riguardo alla fattispecie di bancarotta fraudolenta per dissipazione, in cui la valutazione in ordine alla ragionevolezza o meno della scelta imprenditoriale ben può incidere sulla configurabilità del reato.
Per quel che riguarda la bancarotta per dissipazione, la Suprema Corte chiarisce che la dichiarazione di fallimento si atteggia come “evento che condiziona il perfezionamento del reato, ma non è collegato da alcun nesso di causalità necessaria con la condotta” (p. 106).
Orbene è noto che il concetto di dissipazione è sempre stato considerato di difficile interpretazione, anche in considerazione della non sempre agevole differenziazione dalla condotta di bancarotta semplice conseguente a spese eccessive o a operazioni manifestamente imprudenti o di pura sorte (art. 217, comma 1, nn. 1 e 2 l.fall)[60].
Da un punto di vista letterale, “dissipare” è sinonimo di disperdere, dissolvere, dilapidare, sperperare, sprecare e sembra fare riferimento a chi si dedica ad occupazioni frivole[61] e fa “evaporare” il suo patrimonio (in questo senso era orientata la giurisprudenza più datata, che annoverava le spese sostenute “per soddisfare le esigenze di una vita viziosa o la propria vanità”[62]).
In un’ottica maggiormente in linea al mondo di oggi, la dissipazione può essere definita, sotto il profilo oggettivo, come l’incoerenza assoluta delle operazioni poste in essere in relazione alla prospettiva delle esigenze dell’impresa, condotta connotata, sotto il profilo soggettivo, dalla consapevolezza dell’autore di diminuirne il patrimonio per scopi ad essa estranei[63]. E quindi, ad esempio, è stato affermato che la dissipazione sussistesse in caso di sistematica vendita di merce sottocosto, qualora tale prassi sia inconciliabile con il raggiungimento dello scopo sociale e incoerente con il soddisfacimento delle esigenze dell’impresa, e sia dimostrata la consapevolezza dell’agente di diminuire il patrimonio societario per scopi estranei all’oggetto sociale[64].
D’altro canto, nel codice penale è rinvenibile un concetto simile; in particolare, nell’art. 570, al secondo comma n.1), si prevede la condotta di quel familiare che “malversa o dilapida i beni del figlio minore o del coniuge”. E il significato non è lontano da quanto esposto sopra, ossia che i beni vengono “consumati” per scopi che non hanno niente a che fare con l’economia e il benessere di quei soggetti (figli minorenni, moglie, marito) e della famiglia in genere[65].
Ed anche la dottrina sul punto ha specificato che può aversi dissipazione anche in ipotesi di atti a titolo oneroso, che però non concernono le finalità dell’impresa[66], individuando il discrimen tra la bancarotta semplice, ai sensi dei nn. 2 e 3 comma 1 dell’art. 217 L.F., e la bancarotta fraudolenta – appunto – per dissipazione.
Sulla scorta di tali precedenti giurisprudenziali e del conforto della Dottrina, la sentenza sul caso Alitalia osserva correttamente che la bancarotta dissipativa è connotata, quanto alla condotta, dall’impiego del capitale aziendale in investimenti e spese del tutto “incoerenti”, tanto con le necessità, quanto con gli obiettivi strategici dell’azienda stessa; quanto all’elemento psicologico, l’agente deve avere piena consapevolezza di stare intaccando il patrimonio, per destinarlo, in tutto o in parte, al perseguimento di finalità del tutto eccentriche rispetto alle ragioni per le quali l’azienda è nata, opera e permane sul mercato. Con tali affermazioni viene annientato l’argomento difensivo che, riferendosi ai principi della business judgement rule[67], aveva negato che potesse essere di competenza del giudice penale sindacare le scelte strategiche dell’imprenditore, comportanti necessariamente l’assunzione del rischio d’impresa, derivandone – secondo le prospettazioni difensive – che, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, l’esito infausto di una o più “operazioni”, per quanto arrischiate, non darebbe luogo al reato di bancarotta fraudolenta per distrazione e, ancor meno, a quella per dissipazione.
A fronte delle predette difese, il giudice di legittimità ha replicato, innanzitutto, con la considerazione che all’imprenditore è richiesta una condotta ispirata alla diligenza professionale di cui all’art. 1176, c. 2, c.c., e che, in secondo luogo, occorre distinguere tra il sindacato sulla discrezionalità delle scelte imprenditoriali, che comportano conoscenze tecniche e non consentite al giudice penale, e, dall’altro lato, la valutazione (da parte del giudice) della assoluta estraneità rispetto agli scopi dell’impresa di iniziative, operazioni e investimenti del tutto alieni rispetto alla mission aziendale. La Suprema Corte ne ha fatto derivare che il criterio della business judgement rule non può applicarsi in ipotesi di condotta dissipativa, costituendo quest’ultima la negazione stessa di qualsiasi criterio gestionale che possa pretendere di esser fondato su scelte minimamente razionali[68].
Nel caso di specie, il board dell’Alitalia, secondo quanto verificato nelle fasi di merito, tanto con condotte commissive, quanto con condotte omissive, disperse gran parte del patrimonio aziendale in operazioni finanziarie o di gestione prive di qualsiasi fondamento logico o di prospettive strategiche. Emblematica della prima condotta (commissiva) è l’operazione di acquisizione del gruppo Volare, operazione che non presentava alcuna coerenza con le direttrici del piano industriale e, per di più, veniva assorbita una società in grave crisi. Questa circostanza provocò un effetto dissipativo delle finanze della Compagnia aerea, già compromesse.
Per quanto concerne la condotta omissiva integratrice della dissipazione, la gestione del settore “Cargo” è stata considerato l’episodio emblematico. Invero, nonostante esso fosse dotato di soli cinque aerei, gli venivano assegnati 135 piloti, eccedendo quindi il fabbisogno, senza alcun intervento di riorganizzazione e razionalizzazione. È stata così configurata una ipotesi di dissipazione per omissionem ai sensi, del comma 2 dell’art. 40 c.p., sul presupposto che l’imprenditore ha l’obbligo di adoperarsi per impedire il tracollo della sua azienda. Da qui la correlazione con una condotta dissipativa, che può aversi sia laddove si manifesti in spese folli, sia che si manifesti in atteggiamenti ignavi e negligenti. Ciò che emerge è che l’imprenditore ha precisi doveri, venendo meno ai quali, in caso di fallimento, può esser chiamato a rispondere di bancarotta per dissipazione.
Se ne desume che, mentre l’individuazione della linea di confine tra un’operazione connotata dall’assunzione di un rischio, anche elevato, ma calcolato e ragionevole (del tutto “coperto” dal ricordato business judgement rule) ed una condotta (attiva) integrante dissipazione del patrimonio aziendale può essere non agevole e può prestarsi a pericolose oscillazioni giurisprudenziali, quella che è definita come “dissipazione omissiva” è certamente riconoscibile con maggiore sicurezza, quando il non facere di chi avrebbe dovuto attivarsi abbia determinato un oggettivo impoverimento della struttura aziendale, seguito poi dal fallimento della stessa[69].
Secondo la Corte, più nel dettaglio, trattandosi di un reato di pericolo – e, peraltro di pericolo concreto -, il giudice deve “porsi nell’ottica del soggetto agente nella fase in cui egli aveva operato la scelta imprenditoriale, ma deve, altresì, considerare l’effetto che tale scelta ha, in concreto, determinato sull’assetto patrimoniale una volta intervenuto il fallimento (o la dichiarazione di stato di insolvenza)”.
In tale contesto, inoltre, posto che si tratta di fattispecie punita non a titolo di colpa, bensì a titolo di dolo, non si tratta, sempre secondo i giudici di legittimità, semplicemente di valutare le scelte discrezionali dell’imprenditore (e di tutte le conseguenti disquisizioni sui criteri ed i limiti di tale possibile valutazione).
Al contrario, allorquando si è già determinata una vicenda dannosa per la garanzia dei creditori, la verifica consiste nell’accertare se l’agente avesse previsto come possibili determinati esiti e conseguenze della propria scelta e della propria conseguente condotta, accettando la loro verificazione, anche nella eventuale consapevolezza del danno che le stesse avrebbero potuto arrecare alla garanzia dei creditori e abbia, ciò nondimeno, agito.
La Corte precisa, altresì, che per individuare quali siano i confini del sindacato sulla gestione dell’impresa si deve guardare all’oggetto di tutela della norma incriminatrice. Partendo da tale premessa, la Corte sostiene che, considerato come nella bancarotta fraudolenta per dissipazione il bene tutelato sia l’interesse dei creditori a che il patrimonio sociale assolva alla funzione di garanzia cui è preposto, le condotte dissipative sono sia quelle del tutto incoerenti con l’oggetto sociale (com’è invece nel caso di bancarotta patrimoniale fraudolenta distrattiva), sia quelle che si dimostrino irragionevoli rispetto alle esigenze economiche dell’impresa e che dunque mettano a rischio il patrimonio sociale ingiustificatamente.
Posto che si tratta di un reato di pericolo concreto, allora, se in una situazione sostanzialmente prefallimentare si pongono in essere delle operazioni che pur coerenti in astratto con l’oggetto sociale siano – alla luce delle condizioni economiche in cui di fatto versa l’impresa – strutturate ed intraprese in modo di per sé antieconomico, tali operazioni non potranno che essere valutate come contrarie agli interessi della società e, dunque, dissipative.
In altri termini, posto che nel giudizio penale l’affermazione di responsabilità presuppone l’accertamento del pericolo concreto cui è stato esposto il patrimonio sociale in dipendenza di una specifica scelta imprenditoriale, ciò che rileva per il giudice penale, secondo la Corte di Cassazione, “non è una scelta irragionevole, ma una scelta del tutto macroscopica ed abnorme, ossia manifestamente configgente ed incoerente con la tutela del ceto creditorio e con la logica di impresa, tenuto conto del concreto contesto di riferimento sottoposto al giudicante”.
Da ciò deriva che ogniqualvolta dal punto di vista della garanzia patrimoniale la scelta si riveli irragionevole, sia in termini assoluti che relativi rispetto alla concreta situazione in cui versava la società, la business judgment rule non può costituire un valido limite al sindacato del giudice penale.
Alla luce delle considerazioni svolte, la Corte ha ritenuto che, limitatamente alle condotte dissipative, la situazione patrimoniale e finanziaria della società avrebbe dovuto indurre i suoi vertici a escludere le scelte imprenditoriali di fatto assunte in quanto era ragionevole prefigurarsi la messa in pericolo del patrimonio sociale e quindi delle garanzie creditorie.
Il principio espresso dalla sentenza, ancorché sia l’esito di un complesso apparato argomentativo, appare sul punto condivisibile. L’estensione dell’applicabilità della business judgment rule ad un contesto differente da quello in cui tale regola è stata elaborata, costituirebbe, infatti, una scelta ermeneutica suscettibile di determinare inevitabili problemi esegetici, anche, e soprattutto, rispetto alla fattispecie di bancarotta patrimoniale fraudolenta dissipativa. La condotta tipica del reato, infatti, si pone (per definizione) in irrimediabile conflitto con la funzione di garanzia patrimoniale dei beni dell’impresa e rispetto ad essa, pertanto, al giudice penale non è richiesta alcuna valutazione (rectius: ingerenza) sul piano tecnico-economico. È fondamentale, tuttavia, che il giudice penale non prescinda da un’attenta valutazione del profilo soggettivo. In tale ottica dovrà quindi sempre verificare, nella prospettiva ex ante, che l’agente abbia ponderato tutte le possibili conseguenze delle proprie scelte nel contesto di una specifica condizione economica e, ciò nondimeno, abbia comunque accettato di attuare la condotta prescelta nonostante fosse prevedibile il conseguente pericolo per le garanzie patrimoniali dell’impresa.
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SCIUMBATA, La riforma del diritto societario. I reati societari, G. LO CASCIO (a cura di), Milano, 2008.
SOANA, I reati fallimentari, Milano, 2012.
[1] Vedi C. Pedrazzi, F. Sgubbi, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, Bologna, 1995, pagg. 1 e ss.
[2] N. Mazzacuva, E. Amati, Diritto penale dell’economia, cit., pag. 173
[3] P. NUVOLONE, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 1955, pag. 25.
[4] Cfr. F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Leggi complementari, vol. II, Reati fallimentari, a cura di C.F. GROSSO, Milano, 2014, p. 28
[5] CONSULICH F., Il diritto penale fallimentare al tempo del codice della crisi: un bilancio provvisorio, in http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2020/05/Consulich-Approfondimenti-definitivo-22-maggio.pdf 2020
[6] C. PEDRAZZI, F. SGUBBI, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, Bologna, 1995, p. 4
[7] Vedi A. PAGLIARO, Il delitto di bancarotta, Palermo, 1957, pagg. 12 e ss.
[8] C. SANTORIELLO, I reati di bancarotta, Torino, 2000, pagg. 8,9.
[9] F. ANTOLISEI, op.cit., pagg. 39 e ss.
[10] A. ALESSANDRI, Diritto penale commerciale. Vol. IV. I reati fallimentari, Torino, 2019, pag.32.
[11] F. Antolisei, Leggi complementari, cit., 78; A. Fiorella, M. Masucci, Gestione dell’impresa e reati fallimentari, 2014, pag. 28; E.M. Ambrosetti, E. Ronco, M. Mezzetti, in Diritto penale dell’impresa. Quarta edizione. I reati fallimentari, Bologna, 2014, cit., 298
[12] F. Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., pag. 36.
[13] Cfr., ex plurimis, Cass., Sez. Un., 25 gennaio 1958, n.2, in Giust. Pen., 1958, II, pagg. 513 ss..
[14] F. Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., pag. 105.
[15] F. Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., pag. 64.
[16] F. Antolisei, Manuale di diritto penale, cit., pag. 64; N. Mazzacuva, E. Amati, Diritto penale dell’economia, cit., pag. 173.
[17] A. Pagliaro, op.cit., pp. 143 e ss.
[18] La decisione della Cass. Sez V penale, in data 8 febbraio 2017, nell’ affermare che la sentenza di fallimento nei reati pre fallimentari è condizione obbiettiva di punibilità ha precisato che: il momento consumativo del reato – anche ai fini della competenza territoriale e del decorso della prescrizione- rimane fissato nel momento e nel luogo ove tale condizione si verifica (tempo e luogo della dichiarazione di fallimento). In www.penalecontemporaneo.it
[19] “È punito con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato in liquidazione giudiziale (fallito), l’imprenditore che, fuori dai casi preveduti nell’articolo precedente:
a) ha sostenuto spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alla sua condizione economica;
b) ha consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti;
c) ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare l’apertura della liquidazione giudiziale;
d) ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione di apertura della propria liquidazione giudiziale o con altra grave colpa; e) non ha soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o liquidatorio giudiziale.
La stessa pena si applica all’imprenditore in liquidazione giudiziale che, durante i tre anni antecedenti alla dichiarazione di liquidazione giudiziale ovvero dall’inizio dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata, non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge o li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta.
Salve le altre pene accessorie di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna importa l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a due anni”.
[20] Vedi N. Mazzacuva, E. Amati, Diritto penale dell’economia, cit., pag. 217 e ss.
[21] Vedi A. Alessandri, Reati in materia economica, cit., pag. 365 e ss.
[22] Vedi A. Alessandri, Reati in materia economica, cit., pag. 365.
[23]Vedi N. Mazzacuva, E. Amati, Diritto penale dell’economia, cit., pag. 219. Sul tema si veda Corte di Cassazione, Sez. V, 22 giugno 1971, n. 894: la Suprema Corte qualifica come eccessive le “spese personali o per la famiglia che, pur essendo razionali e più o meno connesse alla vita dell’azienda risultano sproporzionate alla capacità economica dell’imprenditore”, laddove si integrerà la condotta dissipativa allorquando le stesse siano qualificabili quali “spese non necessarie, fatte dall’imprenditore a scopo voluttuario ovvero per soddisfare le esigenze di una vita viziosa o la propria vanità”.
[24] R. Bricchetti – R. Targetti, Bancarotta e reati societari, in Teoria e pratica del diritto, Milano, 2003, p. 161.
[25] F. Antolisei, op.cit., p. 183
[26] Cfr. Cass. 22 giugno 1971, n. 894
[27] Cfr. Cass. 3 luglio 2015, n. 45186
[28] Cfr. Cass. 30 ottobre 2019, n. 51242
[29] Cfr. Cass., 19 ottobre 2011, n. 47040.
[30] In senso contrario A. Alessandri, op.cit., p. 97, il quale non ritiene le lotterie operazioni né tantomeno investimenti tipici dell’attività d’impresa
[31] Cfr. Cass., 7 marzo 1989, n. 12874.
[32] In questo senso N. Mazzacuva – E. Amati, op.cit., p. 254
[33] Cfr. Cass., 10 giugno 1998, n. 2876 e, nello stesso senso, anche Cass., 22 febbraio 2005, n. 6462.
[34] Cfr. Cass., 9 giugno 2015, n. 35716. In tale fattispecie la Suprema Corte ha ritenuto immune da censure la decisione del giudice di merito che ha affermato la sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, a fronte di ingenti finanziamenti per sostenere una distinta attività economica relativa a società in incontestate difficoltà economiche, senza dimostrare su quelle basi previsionali e negoziali si fondasse l’attesa di un maggior rendimento, e per di più in assenza di impegni scritti alla restituzione delle ingentissime somme versate.
[35] Sono state considerate gravemente imprudenti le seguenti operazioni poste in essere in stato di dissesto: locazione dell’intera azienda in favore di altra società, che non offriva serie garanzie di solvibilità, e per un canone locativo di gran lunga inferiore rispetto al valore dei beni locati; la stipulazione di un contratto estimatorio mediante il quale la merce di magazzino era stata immediatamente consegnata all’altra società, con facoltà per quest’ultima di acquistarla per sé, venderla a terzi o restituire alla controparte; una cessione di contratti relativi a beni oggetto di locazione finanziaria detenuti dalla stessa società cedente.
[36] Cass., 4 giugno 2003, n. 24231.
[37] Cass., 4 giugno 2003, n. 24231. Nel caso di specie, la Suprema Corte ha condiviso l’interpretazione del giudice di merito che aveva considerato gravemente imprudenti alcune operazioni negoziali poste in essere da una società in stato di dissesto, e precisamente la locazione dell’intera azienda in favore di altra società, che non offriva peraltro serie garanzie di solvibilità, e per un canone locativo di gran lunga inferiore al valore dei beni locati; un contratto estimatorio mediante il quale la merce di magazzino era immediatamente consegnata all’altra società, con facoltà per quest’ultima di acquistarla per sé, venderla terzi o restituire alla controparte; una cessione di contratti relativi a beni oggetto di locazione finanziaria detenuti dalla stessa società cedente.
[38] Cfr. A.Alessandri, op.cit., p. 99.
[39] N. Pisani (a cura di), Diritto penale fallimentare. Problemi attuali, G. Giappichelli Editore – Torino, 2018, p. 97.
[40] Cfr. Cass., 15 luglio 2015, n. 38077 e Cass., 25 settembre 2013, n. 43414.
[41] A. Alessandri, op.cit., p. 100.
[42] N. Mazzacuva – E. Amati, op.cit., p. 258.
[43] L. Conti, Diritto penale commerciale. I reati fallimentari, Torino, 1991, p. 246.
[44] P. Mangano, Disciplina penale del fallimento. Corso di lezioni, Milano, 2003, p. 91
[45] Cass., 15 dicembre 2005, n. 4015
[46] Cass., 14 aprile 1999, n. 10364.
[47] La Suprema Corte ha precisato che “in tema di bancarotta documentale, qualora sia assente o insufficiente l’accertamento in ordine allo scopo eventualmente propostosi dall’agente e in ordine alla oggettiva finalizzazione di tale carenza, la mera mancanza dei libri e delle scritture contabili deve essere ricondotta all’ipotesi criminosa della bancarotta semplice. In altre parole, l’omessa tenuta delle scritture contabili, può essere sussunta nella più grave fattispecie di quell’art. 216, comma primo, n. 2) l.fall. solo se risulti assistita non dal dolo generico, ma dal dolo specifico di realizzare un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, al pari delle condotte di sottrazione, distruzione o falsificazione di libri o scritture contabili”. Cfr. Cass., 7 luglio, 2015, n. 50098.
[48] C. Pedrazzi, Sub art. 223, in C. Pedrazzi – F. Sgubbi, Reati commessi dal fallito. Reati commessi da persone diverse dal fallito, in Commentario Scialoja-Branca. Legge fallimentare, Galgano (a cura di), Bologna, 1995, p. 178.
[49] Così Cass., 11 aprile 2016, n. 23621
[50] Cass., 25 gennaio 1996, n. 247
[51] Cfr. Cass., 29 gennaio 2016, n. 20695.
[52] Cass., 27 aprile 2001, n. 17049.
[53] F. Antolisei, op. cit., p. 200.
[54] “Nel reato di bancarotta semplice documentale, la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili non deve protrarsi per l’intero triennio precedente alla dichiarazione di fallimento, sussistendo il reato anche se tale condotta venga tenuta, durante il periodo di tempo indicato, per un arco temporale inferiore ai tre anni. (Fattispecie in cui libri erano stati regolarmente istituiti, ma mai compilati)” Cass., 20 dicembre 2011, n. 8610.
[55] Cass., 13 giugno 2016, n. 38302.
[56] N. Mazzacuva – E. Amati, op.cit., p. 262.
[57] Cass., 6 ottobre 2011, n. 48523.
[58] C. Marini, La bancarotta fraudolenta “impropria”, in AA. VV., Reati in materia economica, A. Alessandri (a cura di), Torino, 2017, 510.
[59] F. Antolisei, op.cit., p. 193
[60] Si veda, in dottrina, ex plurimis, Bricchetti- Pistorelli, La bancarotta e gli altri reati fallimentari, Milano, 2017, p. 74; M. Punzo, Il delitto di bancarotta, Torino 1953, p.143; C. Santoriello, I reati di bancarotta, Torino 2000, p. 65. Sul punto si legge in sentenza: (p. 105): “La differenza tra le due fattispecie sta nella connotazione della bancarotta fraudolenta sia sul piano oggettivo – caratterizzato dalla natura dell’operazione, del tutto priva di ogni profilo di coerenza con le esigenze dell’impresa – che soggettivo – individuato dalla coscienza e la volontà dell’agente di diminuire il patrimonio per scopi del tutto estranei all’impresa -, laddove le operazioni manifestamente imprudenti, di cui al n. 3 [rectius: 2 NdR] dell’art. 217 legge fallimentare, devono presentare, in astratto, un elemento di razionalità nell’ottica delle esigenze dell’impresa, cosicché il risultato negativo sia frutto di un mero e riscontrabile errore di valutazione”. Per la precedente giurisprudenza di legittimità, vedasi da ultimo: Cass., 9 dicembre 2020, n. 34979, per la quale “Il delitto di bancarotta fraudolenta per dissipazione si distingue da quello di bancarotta semplice per consumazione del patrimonio in operazioni aleatorie o imprudenti sotto il profilo oggettivo, per l’inconciliabilità con lo scopo sociale e l’incoerenza con il soddisfacimento delle esigenze dell’impresa delle operazioni poste in essere, e soggettivo, per la consapevolezza, da parte dell’autore della condotta, di diminuire il patrimonio societario per scopi del tutto estranei all’oggetto sociale”.
[61] Per F. Antolisei, op. cit., p. 56, la dissipazione si concretizza in spese per “lussi eccessivi, ricevimenti particolarmente sontuosi, avventure galanti”.
[62] Cass., Sez.V, 18 settembre 1971, n. 119090.
[63] M. Fumo, Bancarotta per dissipazione e aggiotaggio informativo. Definizioni, precisazioni e principi nella sentenza sul “caso Alitalia”, in https://archiviopenale.it/File/DownloadArticolo?codice=6869e283-fa89-40f8-80a8-38682841a30a&idarticolo=27100
[64] Rispettivamente: Cass., Sez. V, 5317, 4 febbraio 2015, n. 262225 e Cass., Sez. V, 38707, 19 settembre 2019, n. 277318.
[65] M. Fumo, op.cit., p. 13
[66] Bricchetti- Pistorelli, op.cit., pp. 73 e ss.
[67] Come è noto, trattasi di un principio di origine statunitense, la cui giurisprudenza ha affermato e sostiene che le scelte gestorie, che per legge o per atto interno competono allo staff aziendale non possono essere oggetto di sindacato da parte del giudice (né dai soci). Sul terreno processuale, si tratta di una vera e propria regola di giudizio in tema di diritto societario che tende a creare una sorta di presunzione di correttezza (e quindi di incriticabilità) circa l’operato degli organi societari di vertice, a meno che non si provi che siano venuti meno alla c.d. duty of care. La nostra giurisprudenza civile di legittimità, tuttavia, ha chiarito che la presunzione in questione incontra un limite nella valutazione di ragionevolezza delle operazioni, valutazione da compiersi sia ex ante, secondo i parametri della diligenza del mandata- rio, alla luce dell’art. 2392 cod. civ., sia tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere. Cass. civ. Sez. I, 3 agosto 2016, n. 641164).
[68] M. Fumo, op.cit., p. 15
[69] Cfr. M. Fumo, op.cit., p. 16.
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