La buona fede come regola di validità dell’atto? Excursus ed implicazioni

La buona fede come regola di validità dell’atto? Excursus ed implicazioni

Sommario: 1. Premessa: la nozione di buona fede – 1.1 Excursus storico-normativo e ordinamenti europei a confronto – 2. Concezione valutativa e concezione precettiva della buona fede – 2.1 Concezione precettiva della buona fede e  conseguenze giuridiche – 2.2 Buona fede, obblighi di protezione e abuso del diritto – 2.3 Buona fede, contatto sociale ed obblighi di informazione – 3. La buona fede come regola di validità dell’atto?

 

 

1. Premessa: la nozione di buona fede

Il termine “buona fede” o bona fides, che trova la sua genesi nel diritto romano, viene utilizzato in svariate norme del Codice civile ed in relazione a molteplici istituti, assumendo forme e significati diversi.

E’ opportuno pertanto, prima di specificarne i principi e i risvolti applicativi, effettuare una prima bipartizione tra buona fede in senso soggettivo e buona fede in senso oggettivo.

La buona fede in senso soggettivo consiste nell’erronea convinzione del soggetto di comportarsi conformemente alla norma, o di agire senza ledere un altrui diritto, od ancora nel far affidamento su una situazione giuridica difforme da quella reale. In queste ipotesi, il legislatore talvolta fa salvi gli effetti giuridici sui quali il soggetto aveva confidato, altre volte, limita o esclude la responsabilità o le conseguenze giuridiche negative per il soggetto stesso. Così accade per gli effetti del matrimonio che, seppur dichiarato nullo, vengono preservati nel caso in cui i coniugi lo abbiano contratto in buona fede e cioè ignorandone l’invalidità; in tema di possesso, che se assistito dalla buona fede ed a determinate condizioni, comporta l’acquisto a non domino della proprietà; effetti non diversi vengono attribuiti alla buona fede per ciò che concerne la circolazione dei titoli di credito; in materia di adempimento della obbligazioni, in cui la legge sancisce la liberazione del debitore che paghi il proprio debito in buona fede al creditore apparente; nell’ampiezza della restituzione dell’indebito nel caso di buona fede dell’accipiens; ed infine in materia di contratti, la buona fede tutela il terzo da eventuali effetti pregiudizievoli nei suoi confronti come nel caso della simulazione e dell’annullamento del rapporto. Si tratta  dunque di situazioni fortemente eterogenee fra loro e non riconducibili ad un fenomeno giuridico unitario.

Per ciò che concerne la buona fede in senso oggettivo, invece è pacifico ricondurre la stessa ad una regola di condotta, ad un dovere di correttezza, e trova espresso riferimento giuridico nell’art. 1375 c.c. in ambito contrattuale, e nell’art. 1175 c.c. in materia di rapporto obbligatorio tra debitore e creditore.

L’ampiezza, il carattere elastico e duttile della buona fede intesa come regola di correttezza, come dovere di comportamento, ha d’altra parte negli anni a seguire l’entrata in vigore della Costituzione e fino a non molto tempo fa, rilegato la stessa al significato di esatto adempimento delle obbligazioni, suscettibile dunque di una scarsa applicazione concreta, in quanto non in linea con l’assolutezza del dogma della volontà delle parti e non ancora passibile di essere riletta alla luce del dettame costituzionale. Ripercorrendo brevemente l’excursus storico-normativo della buona fede oggettiva nel nostro ordinamento possiamo comprendere al meglio il significato che oggi ha assunto nel nostro ordinamento, nonché la sua incidenza sugli altri sistemi giuridici europei.

1.1 Excursus storico-normativo e ordinamenti europei a confronto

Nel nostro codice previgente, il Codice civile del 1865, imperniato della cultura giuridica del Code Napoléon del 1804, la buona fede era disciplinata solo nel settore contrattuale all’art. 1124, mancavano dunque riferimenti della stessa in ambiti diversi e si tendeva a sovrapporre la buona fede all’equità, fino a svuotarne ed a banalizzarne il significato normativo.

Diversamente, alla vigilia della nuova regolamentazione del 1942 iniziò ad affermarsi una concezione oggettiva della buona fede rinvenibile nella regola di condotta, e suscettibile di applicazione anche al di là della disciplina contrattuale.

Con la nascita dell’attuale codice, il Legislatore del 1942 adotta una nozione di buona fede quale principio di buona fede-correttezza, intesa come clausola generale e trova la  sue radici nella cultura civilistica tedesca. Una concezione che non solo si distacca dall’equità e dagli usi, rendendola autonoma nell’ambito di esecuzione del contratto, ma estende la sua portata applicativa anche ai rapporti obbligatori di fonte non contrattuale ed alle trattative pre-contrattuali; vengono inoltre enunciate specifiche ipotesi applicative in merito (artt. 1358-1460 c.c.).

E’ altresì opportuno considerare come, negli ultimi anni, la tendenza  è quella di una rilettura del principio di buona fede alla luce di un sistema dei valori costituzionali ascrivibile in particolare al principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., e alla Carta dei diritti dell’Unione Europea(Capo IV ‘Solidarietà’), così da estenderne in modo significativo l’importanza, l’ampiezza e la portata  politico-istituzionale.

Non meno rilevanti sono le esperienze giuridiche degli altri ordinamenti europei in materia di buona fede, soprattutto quello tedesco, francese ed anglo-americano, che ormai in modo consolidato considerano d’importanza fondamentale tale principio; riconoscendo i primi nel BGB all’art. 242, uno spiccato valore giuridico e il superamento della concezione volontaristica e, i secondi,  un giudizio di buona fede  inteso come strumento di controllo in ambito negoziale e di formazione del consenso, nonché una clausola generale integrativa di un corpo di regole comportamentali ormai consolidate.

Nello specifico l’ordinamento tedesco, conferisce alla buona fede(Treu und Glaube) la capacità di incidere sull’autonomia contrattuale, attribuendo al giudice il potere di modificare il contenuto del contratto, così da ripristinarne l’equilibrio, attraverso un giudizio di bilanciamento improntato su ragioni di convenienza ed opportunità. Nella sostanza, nel BGB, a differenza del nostro attuale ordinamento, il concetto di buona fede finisce con il sovrapporsi a quello di equità.

Diversamente , l’ordinamento francese all’art. 1134 c.c., privilegiando il dogma assoluto della volontà, e dunque il principio di autonomia delle parti, considera la bonne foi come incidente sulla fase di esecuzione contrattuale, così da limitare l’ingerenza del giudice in ordine alle scelte contrattuali. Giova evidenziare che, negli ultimi anni, anche il sistema francese, si è in parte conformato agli orientamenti più attuali, aderendo  ad una applicazione generale della buona fede in relazione al comportamento tenuto dalle parti contrattuali, ma privilegiando al contempo il principio dell’autonomia contrattuale quale retaggio giuridico dell’Ancien Régime.

Non meno significative solo le esperienze anglosassoni, dove in numerose pronunce, sia la dottrina che la giurisprudenza, approdano ad importanti  decisioni sulla base del principio di good faith e correttezza, sia per quanto concerne la fase iniziale di formazione del consenso fra le parti(negotiation) , che in caso di inadempimento contrattuale dove la buona fede assurge a vera e propria regola generale.

2. Concezione valutativa e concezione precettiva della buona fede

Esplicitata la concezione della buona fede intesa come correttezza e prima di rispondere al quesito sulla possibilità di considerare la buona fede quale regola di validità dell’atto giuridico, giova soffermarsi sulle due principali tesi che, in ordine alla suesposta nozione, si sono succedute nel tempo: la concezione valutativa e la concezione precettiva della buona fede.

La concezione valutativa della buona fede, ormai ampiamente superata dalla giurisprudenza più recente, considera la regola della correttezza come attinente alla sola fase dinamica del rapporto obbligatorio, opera dunque solo in seconda battuta e cioè a posteriori, orientando il giudice sul criterio di valutazione del comportamento adottato dalle parti nel concreto svolgimento dell’obbligazione, Questa tesi ormai del tutto superata, limitava l’applicazione del principio  della buona fede solo ai casi in cui vi erano specifiche disposizioni in tal senso.

A questa concezione, si oppone la concezione precettiva, oggi maggiormente seguita, in base alla quale la buona fede opera in prima battuta , stabilendo già a priori quali comportanti le parti devono tenere, nonché la fissazione di specifici obblighi al quale si ricollegano autonome azioni di adempimento, inibitorie e risarcitorie. Questa tesi assegna alla buona fede il ruolo di autonoma fonte di obbligazione: la buona fede non è più solo uno strumento di valutazione del comportamento delle parti in conformità al regolamento negoziale, ma diventa un ulteriore fonte del rapporto giuridico anche se non espressamente pattuita dalle stesse.

2.1 Concezione precettiva della buona fede e conseguenze giuridiche

Appurata la concezione precettiva della buona fede, occorre esplicitare quali siano  conseguenze giuridiche che  ne derivano, nello specifico con riferimento agli  obblighi di esecuzione delle prestazioni contrattuali non previste, di modifica del comportamento durante l’esecuzione del contratto, di tolleranza e di rispetto a modifiche delle prestazioni che non incidono sulla sostanziale utilità, di avviso e di informazione, nonché di corretto esercizio di poteri discrezionali.

Vedremo più specificamente in seguito che, parte della giurisprudenza si è orientata, ampliando la teoria precettiva, nel considerare la buona fede come uno strumento che consente di invalidare il contratto qualora le parti pongano in essere comportamenti in contrasto con il principio in esame. Tale indirizzo, che considera la bona fides non più come regola precettiva ma di validità dell’atto, trova  fondamento nel combinato disposto degli art. 1175 e 1322, comma 2 c.c., con l’art. 2 Cost., e considera l’autonomia contrattuale come un mezzo per realizzare fini solidaristici e l’art. 1322 comma 2, c.c. come vaglio di meritevolezza, da commisurare anche alla luce del criterio di correttezza. Ciò comporta che non è più sufficiente che il contratto venga stipulato in assenza di vizi formali, ma deve altresì produrre un risultato giusto, cioè conforme a buona fede. Questa teoria che valuta la buona fede, non come regola di condotta ma come regola  di validità, idonea ad invalidare il regolamento negoziale che sia in contrasto con lo stesso attraverso lo strumento della nullità virtuale di cui all’art. 1418 comma 1 c.c., come vedremo, non è stata ben accolta dalla dottrina prevalente che considera la buona fede come un criterio che se da un lato è idoneo ad intervenire sul programma contrattuale integrandone il contenuto, prevedendo ulteriori obblighi ed oneri per le parti, dall’altro non può ergersi a parametro di validità del regolamento negoziale.

La ratio  buona fede è quindi quella di “controllare” le condotte doverose così da realizzare in modo corretto l’assetto voluto dalle parti. Questa ricostruzione è stata confermata in ordine alla natura delle norme che prevedono obblighi di informazione gravanti sugli intermediari finanziari nella prestazione dei servizi di investimento. Infatti le disposizioni che impongono all’intermediario finanziario di comportarsi secondo buona fede, correttezza e diligenza si collocano nella parte che precede la stipula del contratto di intermediazione finanziaria ed in parte nella fase esecutiva di esso: è obbligo del professionista durante queste operazioni, curare l’interesse del proprio cliente,  aggiornarlo sull’andamento e sui rischi dell’operazione consentita; si tratta di norme dettate non solo nell’interesse del singolo cliente, ma anche a tutela dell’interesse generale dell’integrità dei mercati finanziari. La loro violazione quindi, non può comportare la nullità contrattuale, non essendo espressamente prevista una sanzione, e non essendo neanche riconducibile alla violazione dell’informazione pre-contrattuale, in quanto quest’ultima non rientra fra gli elementi essenziali del contratto.

2.2 Buona fede, obblighi di protezione e abuso del diritto

La concezione precettiva della buona fede ricollega la stessa ai cc.d.d. obblighi di protezione, obblighi che negli ultimi decenni hanno assunto un significato fondamentale sia in ambito contrattuale, che nelle obbligazioni in generale, nonché ampiamente recepite dalla giurisprudenza di merito e di legittimità.

Non esiste una definizione, né un contenuto specifico degli obblighi di protezione, che hanno come principale riferimento, l’istituto di origine tedesca del contatto sociale. Secondo tale teoria, correttezza e buona fede sono fonte di obblighi protettivi anche nei confronti dei soggetti con i quali si sia intrapresa una trattativa contrattuale e la cui violazione comporta la responsabilità per i pregiudizi cagionati. Tali obblighi di protezione, sono considerati come fonte di responsabilità aquiliana e contrattuale in senso stretto e colmano il vuoto lasciato dalla netta contrapposizione tra le due forme di responsabilità. Infatti la violazione degli obblighi di protezione, tutela la responsabilità da inadempimento dei danni cagionati alla controparte, che altrimenti troverebbe tutela nel generico principio del neminem laedere.

Strettamente connesso agli obblighi di protezione è l’istituto del divieto di l’abuso del diritto, che sanziona il titolare di una posizione giuridica di vantaggio che eserciti in modo ingiusto e sproporzionato il proprio diritto nei confronti della controparte. Infatti la buona fede in questo caso viene intesa come criterio per stabilire un limite funzionale e modale alle pretese e ai poteri del creditore ed in generale del titolare del diritto. In tale ambito di riferimento, la ratio della buona fede di cui agli art. 1175 e 1375 c.c. asserisce all’esigenza che la tutela del diritto debba essere sempre condizionata dalla scopo per il quale lo stesso è riconosciuto e protetto da parte del nostro ordinamento giuridico. La buona fede pertanto non è più solo un criterio che orienta la condotta delle parti, ma un canone per limitarne le richieste e i poteri in capo a chi detiene la titolarità , operando dunque  nell’ambito dei rapporti obbligatori, come fonte integrativa e di reciprocità degli effetti dell’autonomia privata e colmando o limitando gli obblighi assunti dalle parti o derivanti dalla legge.

Sia il divieto di abuso del diritto che gli obblighi di protezione, trovano il loro riferimento nell’art. 2 Cost. e nella Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., cioè nel dovere di solidarietà sociale, tendente a salvaguardare gli interessi dei soggetti con i quali il singolo individuo viene in contatto nelle sue relazioni sociali ed economiche , con le conseguenze che laddove la sua condotta risulti pregiudizievole per la controparte e incurante dell’altrui sfera di interessi, l’ordinamento lo priverà, a seconda dei casi, o della tutela giuridica o lo sanzionerà, ritenendolo responsabile per i pregiudizi da lui cagionati.

2.3 Buona fede, contatto sociale ed obblighi di informazione

Per contatto sociale, privo anch’esso di specifica norma di rifermento, si intende una relazione intercorrente tra due soggetti, nel quale il primo  fa affidamento nell’adempimento di un dovere di diligenza gravante sul secondo, in relazione alle capacità tecnico-professionali di quest’ultimo. Esso si concretizza in un comportamento diligente durante l’esecuzione delle specifiche attività del soggetto qualificato, così da evitare pregiudizi nei confronti del soggetto con il quale sia venuto in contatto. In caso di violazione, pur in assenza di una esplicita fonte contrattuale, il soggetto in virtù degli obblighi di protezione, risponderà per violazione della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. .

Ulteriore problema applicativo ricollegabile alla clausola della buona fede è stato affrontato dalle Sezione Unite della Corte di Cassazione con la sentenza del 18 dicembre del 2007 n. 26617 avente ad oggetto il rifiuto da parte del creditore di accettare il pagamento del debitore mediante assegno circolare, pretendendo il pagamento in denaro. Ci si è chiesti se tale diniego da parte del creditore integri o meno violazione del principio di buona fede e inoltre se tale rifiuto renderebbe applicabile la disciplina dell’inadempimento e gli effetti della mora del debitore. Sulla  questione prima dell’intervento delle Sezioni Unite si era formato contrasto giurisprudenziale. Secondo parte della dottrina, quella prevalente, la validità del pagamento dipendeva dall’accettazione del creditore, che poteva avvenire anche tramite fatto concludente della riscossione dell’assegno; secondo l’orientamento minoritario invece, il rifiuto del creditore  di ricevere l’assegno circolare comportava la violazione degli obblighi di buona fede. Le Sezione Unite prima nella sentenza del 2004 e poi nella sopracitata sentenza del 2007, si sono conformate all’indirizzo della dottrina tedesca in base al quale la prestazione dovuta si estingue quando è efficace per il creditore e cioè quando entra nella libera e piena disponibilità del suo patrimonio.

Tale tesi inoltre è perfettamente in linea con l’idea dottrinale più recente favorevole ad incentivare la c.d. smaterializzazione del denaro e dunque a servirsi di metodi di pagamento al denaro contante.

Le Sezioni Unite nel 2007 attraverso la considerazione che, l’assegno bancario è, nell’attuale ambiente socio-economico, un normale mezzo di pagamento che soddisfa un grado di sicurezza maggiore rispetto al denaro contante, hanno operato un’interpretazione adeguatrice dell’assegno circolare all’art. 1227 c.c., facendolo rientrare all’interno di un’ipotesi alternativa di pagamento. Ciò infatti che si mira a tutelare è l’interesse del creditore alla disponibilità della somma di denaro e non l’interesse del creditore al possesso della liquidità.

Ne consegue che la moneta non è l’oggetto del pagamento, ma il pagamento, e che risultano ammissibili ulteriori mezzi di corresponsione, se garantiscono il medesimo effetto per il creditore del pagamento in contanti.

Una tipica applicazione del principio di buona fede nella fase pre-contrattuale è rinvenibile negli obblighi di informazione. Essi assumono una rilevanza particolare soprattutto per ciò che attiene alla tutela dei consumatori. Infatti hanno come obiettivo quello di proteggere gli interessi delle parti attraverso lo scambio di informazioni che potrebbero essere rilevanti ai fini della conclusione del contratto, queste ultime infatti, potrebbero incidere in modo significativo,  sul programma contrattuale. Il divieto dell’obbligo di informazione può comportare ipotesi di inadempimento contrattuale od anche l’annullamento se il contraente debole viene indotto in errore o ancora se la violazione dell’informazione avvenga in maniera dolosa.

Nei contratti asimmetrici, quali quelli conclusi tra il professionista e il consumatore, in particolar modo l’obbligo di informazione assume una connotazione più pregnante. Infatti il contraente debole fa specifico affidamento  in un soggetto qualificato, avente cioè specifiche competenze tecniche-professionali. Pertanto, pur non esistendo una espressa disposizione normativa in tal senso, la buona fede è il fondamento che sta alla base dell’affidamento del consumatore nei confronti del professionista. Gli obblighi di informazione che devono essere espletati nella fase pre-contrattuale rilevano ai fini della decisione del consumatore sulla conclusione o meno del contratto. Inoltre tali obblighi assumono rilevanza anche nella fase esecutiva del contratto, quando cioè sono finalizzati all’esecuzione dello stesso. Pertanto in caso di violazione, può essere richiesta la tutela risarcitoria, nonché la risoluzione del contratto per inadempimento. Ipotesi specifiche degli obblighi di informazione sono rinvenibili nei contratti di assicurazione e nei riguardi dell’agente immobiliare.

Il primo caso, riguarda la c.d. clausola di regolazione del premio che viene appunto inserita nei contratti di assicurazione. Clausola con la quale l’assicurato, si impegna a fornire alla fine di ogni anno, le informazioni necessarie per la fissazione e per l’aggiornamento del premio definitivo. Ci si è chiesti se, in caso di inottemperanza di tale obbligo, si possa sospendere automaticamente  la copertura assicurativa in applicazione dell’art. 1901 c.c.. La giurisprudenza maggioritaria ha ritenuto  applicabile l’art. 1901 c.c., in base all’assunto che la mancata informazione dell’obbligo di comunicazione comporta una impossibilità di quantificazione del premio. Le Sezioni Unite della Cassazione hanno  invece deciso in senso contrario, negando l’applicabilità dell’art. 1901 c.c., in quanto la clausola di regolazione in esame non ha natura accessoria ma autonoma, inoltre la sospensione del contratto di assicurazione sulla scorta dell’art. 1901 c.c. scatta nel caso di mancato pagamento del premio e non di violazione degli obblighi di informazione. Pertanto il carattere autonomo dell’obbligazione di pagamento del premio fa si che esso venga considerato in ordine alla buona fede oggettiva, come comportamento corretto che le parti devono tenere durante la fase di esecuzione del contratto, e nel bilanciamento degli interessi sia dell’assicuratore che dell’assicurato. Dunque l’assicuratore potrà sospendere la garanzia per inadempimento dell’assicurato solo se tale inadempimento valutato in ordine alla buona fede non sia di scarsa importanza.

Per ciò che concerne infine l’obbligo di informazione derivante dall’agente immobiliare nei confronti dei soggetti interessati ad acquistare, esso si sostanzia in un dovere di corretta informazione dell’agente nei confronti dei contraenti, riguardo alle circostanze a lui note o conoscibili secondo l’ordinaria diligenza, e nel divieto di dare comunicazioni false o non attendibili. Tali obblighi, sono rinvenibili anche nel caso in cui la violazione dei doveri di informazione da parte dell’agente, abbia comportato la mancata conclusione dell’affare.

3. La buona fede come regola di validità dell’atto?

Il consolidarsi della teoria precettiva, ha portato parte della dottrina, a considerare la buona fede come strumento capace di incidere sulla validità dell’atto, così da comportarne l’invalidità ex art. 1418, co. 1 c.c., quale specifica ipotesi di nullità virtuale, derivante dall’ingiustizia dell’atto.

Tale tesi, trova fondamento nel combinato disposto degli artt. 1175 c.c. e 1322, co. 2 c.c., con il principio solidaristico di cui all’art. 2 Cost.  e sostiene che il contratto, per poter essere considerato valido, oltre ad essere stipulato in assenza di vizi formali, deve produrre un risultato giusto in conformità al giudizio di buona fede. Questo indirizzo segna il passaggio da una buona fede intesa quale regola di condotta e dunque fonte di responsabilità, a regola di validità, e quindi capace quindi di invalidare l’atto negoziale laddove sia in contrasto con la stessa.

Prima di addivenire all’orientamento in merito della dottrina prevalente ed ai conseguenti risvolti pratici, occorre dare atto delle pronunce più rilevanti sul tema, rese sia dalla Corte Costituzionale in primis la n.248 del 2013, ribadita dalla successiva n.77 del 2014 in tema di caparra confirmatoria manifestamente ingiusta, sia della Corte Suprema a Sezioni Unite Civili n. 9140 del 2016  e più di recente con la n. 22437/2018, quest’ultime entrambe  in relazione ai contratti assicurativi con clausole “claims made”.

In particolare, nelle due ordinanze summenzionate la Corte Costituzionale del 2013 e del 2014 sulla caparra confirmatoria, ha respinto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1385 c.c. sollevata sulla base della  considerazione che quest’ultimo non prevederebbe il potere d’ufficio di ridurre la caparra confirmatoria manifestamente eccessiva, potere invece statuito esplicitamente per la clausola penale all’art. 1384 c.c. Il Giudice delle leggi ha ritenuto di sanzionare la caparra confirmatoria sproporzionata con la nullità, parziale o totale, ai sensi dell’art. 1418 c.c., per violazione dei doveri di solidarietà derivanti dal combinato disposto degli artt. 1175 c.c. e 2 Cost.

Al medesimo ragionamento interpretativo è approdata la giurisprudenza di legittimità con la sentenza a Sezioni Unite del 6 maggio del 2016 n. 9140 in relazione alle clausole “claims made”, laddove ha considerato nulli i contratti  di assicurazione stipulati con clausole “claims made” contrarie ai principi di buona fede e validità. Nello stesso senso, seguitano, anche le più recenti Sezioni Unite n.22437/2018, che “aprono” al giudice la possibilità di sindacare equitativamente anche l’ingiustizia sostanziale del negozio giuridico.

Analogamente, si sono orientate le Sezioni Unite Civili n.4224 del 2017 , in tema di acque pubbliche, statuendo l’esclusione dell’esigibilità del pagamento  del canone di una concessione di derivazione di acque pubbliche, nel caso di mancata fruizione della stessa, per impossibilità di funzionamento dell’impianto non imputabile al concessionario.

Tutti gli orientamenti suesposti paiono andare incontro a un principio generale di bona fides quale regola di validità dell’atto e non più come regola di condotta. Tale considerazione è stata fortemente criticata dalla dottrina maggioritaria, secondo la quale il criterio di buona fede se da un lato può essere considerato quale strumento volto ad imporre ulteriori obblighi in capo alle parti, integrando il contenuto del contratto, dall’altro lato non può essere assunto a parametro di validità dell’atto. La buona fede, si evidenzia, nel nostro ordinamento, a differenza dell’equità, è una clausola generale derivante dall’art. 2 Cost. e non è espressamente codificata dal legislatore. Seguendo tale impostazione, inoltre si consentirebbe al giudice di intervenire sull’atto con conseguente violazione del principio di autonomia privata .

Altra dottrina, evidenzia come ciò comporterebbe una sovrapposizione tra regole di condotta e regole di validità, ma le differenze in merito sono notevoli e di fondamentale rilevanza: le regole di validità sono volte a stabilire i requisiti strutturali dell’atto e gli oneri che le parti devono osservare affinché lo stesso sia valido, diversamente le regole di condotta attengono ai reciproci obblighi comportamentali e vengono parametrati in relazione al legittimo esercizio di un potere nei confronti della controparte.

Notevoli incongruenze attengono inoltre sia alla ratio che ai rimedi posti in essere in caso di violazione delle stesse. Riguardo al primo aspetto, le regole di validità sono espressione del dogma della volontà e sono statiche in quanto attinenti alla conformità in concreto del regolamento di interessi, le seconde invece implicano solo una graduazione di quest’ultima e sono dinamiche in  quanto attinenti alle modalità comportamentali. Anche il secondo punto non appare di minore importanza se consideriamo che la violazione delle regole di condotta o di comportamento, sono causa di responsabilità (precontrattuale) ed aprono al rimedio della risoluzione del rapporto giuridico; le seconde invece incidono sulla validità dell’atto, determinandone la nullità virtuale ex art. 1418, co. 1 c.c.


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