La Cassazione sulla rilevanza delle preesistenze nella quantificazione del danno
La Suprema Corte di Cassazione, con la recente e importante sentenza n. 28986 dell’11.11.2019, ha chiarito i criteri di accertamento e quantificazione del danno in presenza di pregresse lesioni.
La questione presenta notevoli e molteplici punti di interesse, che è bene affrontare partendo dal caso concreto che si è presentato ai Giudici.
Un soggetto era rimasto vittima di un sinistro stradale, patendo un trauma contusivo all’anca destra e agiva per ottenere il risarcimento dei danni subiti, convenendo in giudizio il soggetto che aveva causato l’incidente e la sua assicurazione. La vittima, però, in passato aveva già subito un incidente stradale, in cui aveva riportato la frattura dell’arto attinto dal secondo trauma, riportando un’invalidità permanente nella percentuale del 60%.
Riteneva l’attore che Il secondo incidente avesse pertanto aggravato i postumi residuati al primo, costringendolo ad un intervento di protesi all’anca ed elevando la misura dell’invalidità permanente al 70%. Chiedeva pertanto la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni subiti, tenendo conto della superiore invalidità riportata.
La compagnia assicurativa convenuta contestava quanto dedotto dall’attore, contestando l’applicazione del criterio di quantificazione dei danni invocato dall’attore. Il Tribunale accoglieva la domanda di parte attrice, rilevando in particolare che era vero che l’intervento di protesizzazione d’anca non era causalmente riconducibile al secondo sinistro e che il secondo sinistro aveva causato un’invalidità permanente pari al 6,5%. Ma era anche vero che il secondo sinistro aveva colpito una persona che presentava già un pregressa invalidità, che ne aveva compromesso la salute. Pertanto, di tale pregressa invalidità doveva tenersi conto, anche in rispetto dei principi di equità e uguaglianza sostanziale.
Una cosa è infatti un trauma contusivo cagionato ad una persona sana. Altra cosa è un trauma della stessa specie cagionato a una persona già invalida: le conseguenze afflittive in questo secondo caso saranno senz’altro maggiori.
Il Giudice di prime cure, pertanto, concludeva ritendendo che il risarcimento del danno dovesse essere corrisposto dal convenuto non già monetizzando una invalidità del 6,5%, bensì calcolando la differenza tra il grado di invalidità permanente di cui la vittima era già portatrice prima dell’infortunio (6,5%) e quello complessivamente residuato all’infortunio (66,5 %).
Ciò significa che la sottrazione ai fini del calcolo del danno, secondo il Tribunale, deve essere operata non già tra i diversi gradi di invalidità permanente, bensì tra i valori monetari previsti in corrispondenza degli stessi. Diversamente opinando, secondo il Giudice di primo grado, si sarebbe pervenuti a dei risultati distorti e iniqui per difetto.
La Corte d’Appello di Milano confermava tale impostazione. Parte convenuta proponeva così ricorso per Cassazione.
La Suprema Corte, investita della questione e rilevando l’importanza della stessa, ha ritenuto opportuno trattare l’argomento in modo completo, con delle importanti precisazioni, soffermandosi sul concetto di causalità materiale e giuridica e sul rispettivo accertamento in ambito civilistico.
Come è noto, l’art. 2043 c.c., nella definizione del principio del naeminem laedere, impone l’accertamento di due nessi causali: quello tra condotta e lesione e quello tra lesione e conseguenze dannose.
Il primo nesso riguarda la causalità materiale e va accertato ai sensi degli artt. 40 e 41 del codice penale.
Il secondo, invece, riguarda la causalità giuridica sussistente tra la lesione e la menomazione, che va accertato diversamente con i criteri ex art. 1223 c.c..
Ciò poiché compito del sistema della responsabilità civile non è quello di reprimere un fatto antigiuridico, imputandolo al suo responsabile, bensì quello di compensare la vittima dalle conseguenze dannose di un fatto, secondo dei criteri di giustizia distributiva. In altre parole, il soggetto civilmente responsabile deve essere chiamato a rispondere di un fatto e delle sue conseguenze dannose secondo un criterio per cui quelle determinate conseguenze possono più probabilmente essere allocate a un determinato soggetto, piuttosto che ad un altro. Ciò con la conseguenze traslazione della perdita dal soggetto che l’ha subita al responsabile in termini economici. Si pensi al riguardo al concetto di responsabilità oggettiva, in cui un soggetto è chiamato a rispondere di fatti che gli sono imputati oggettivamente, per il solo fatto di avere una determinata relazione con una cosa o un’attività, come accade nelle ipotesi di responsabilità per lo svolgimento di attività pericolose ex art. 2050 c.c. o di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 c.c..
Non convince la diversa impostazione, che pure è stata avallata da alcuni autori e da certa giurisprudenza, secondo cui il codice civile imporrebbe un unico accertamento causale infrazionabile ex art. 1227, quello della causalità materiale, da accertarsi secondo il criterio penalistico contenuto nell’art. 41 c.p.
Si perverrebbe infatti a conseguenze non eque, in quanto: – alcun risarcimento verrebbe corrisposto se la causalità naturale esclude un nesso diretto tra condotta ed evento; – se la causa naturale ha invece un’incidenza concorrente e non esclusiva, al responsabile autore della condotta verrebbero addossate comunque le conseguenze dannose per intero.
L’accertamento della causalità giuridica ha pertanto il compito di delimitare l’area del danno risarcibile. L’interprete, dopo aver accertato il collegamento tra condotta ed evento, dovrà valutare quali conseguenze dannose possono essere giuridicamente imputate al soggetto agente.
I due concetti di causalità materiale e giuridica entrano in gioco anche nel caso in cui occorra accertare quali siano i danni risarcibili ad un soggetto che presentava già una lesione o una menomazione.
Può difatti accadere che la lesione pregressa abbia concausato la lesione successiva, senza che quest’ultima sia una conseguenza diretta della condotta e in questo caso della lesione pregressa non si terrà conto (si pensi al caso di scuola di un soggetto emofiliaco che subisce un minuscolo taglio).
In questo caso, se le lesioni pregresse non hanno inciso sulla misura del danno, la determinazione dello stesso dovrà essere fatta come se a patire le conseguenze dell’infortunio fosse una persona sana, in virtù dell’inesistenza di un nesso di causalità giuridica tra la lo stato anteriore e i postumi.
Occorrerà effettuare la quantificazione chiedendosi quali sarebbero state le conseguenze dell’illecito in assenza della patologia preesistente.
Può però accadere che le menomazioni pregresse concorrano ad aggravare le conseguenze dell’illecito. Ovvero, che le lesioni riportate in seguito all’infortunio siano più gravi di quelle che avrebbe patito una persona sana in conseguenza di un infortunio della stessa specie.
In siffatti casi, la Suprema Corte, con la sentenza in commento, ha offerto soluzioni precise. Ha osservato che si deve tenere conto delle lesioni pregresse nella liquidazione del risarcimento e non nella determinazione del grado di invalidità permanente, che va sempre accertato in concreto, senza innalzamenti o riduzioni. Nella liquidazione del risarcimento si deve inoltre tenere conto delle preesistenze monetizzando l’invalidità accertata e quella ipotizzabile in caso di assenza dell’illecito e sottraendo l’una dall’altra.
I Giudici di legittimità escludono inoltre che nella liquidazione del danno da lesione del bene salute si possano utilizzare gli stessi criteri che trovano applicazione nel caso della lesione della capacità lavorativa. Ciò in quanto la salute è un bene inesauribile, che non può essere avulso dal concetto stesso di vita.
Dunque, nel caso di lesione del bene salute, occorrerà valutare il grado di invalidità permanente obiettivo, senza variazioni, anche nel caso di soggetto già affetto da invalidità. Successivamente, si dovrà verificare quali attività la vittima era in grado di svolgere prima del sinistro e quelle che è in grado di svolgere dopo.
Successivamente, in applicazione come detto del giudizio controfattuale, occorrerà valutare quali sarebbero state le conseguenze dell’illecito in assenza della pregressa patologia. Se queste risultano aggravate dalla patologia pregressa, allora la preesistenza sarà rilevante: in sua assenza, infatti, il pregiudizio patito dalla vittima sarebbe stato minore.
A questo punto, accertato il nuovo grado di invalidità, si dovrà monetarizzarlo e sottrargli il grado di invalidità pregressa, anch’esso monetarizzato.
La Suprema Corte chiarisce quanto detto con un esempio: se un soggetto, già monocolo, subisce la perdita dell’occhio sano, diventando cieco, a questi non potrà essere risarcito il valore monetario della percentuale di invalidità prevista per la perdita di un occhio, ma si dovrà quantificare il risarcimento sulla base della perdita dell’intero senso della vista.
Naturalmente, ad evitare rigide applicazioni del criterio sopra esplicato, vi è sempre la valutazione equitativa del giudice di cui all’art. 1226 c.c., atta ad evitare risultati manifestamente iniqui per eccesso o per difetto.
I Giudici di legittimità hanno pertanto confermato la sentenza della Corte d’Appello di Milano, che ha correttamente fatto applicazione dei criteri di liquidazione del danno.
Del resto, l’impostazione seguita dalla Suprema Corte si pone perfettamente in linea col principio di personalizzazione del danno e con la funzione stessa del risarcimento in sede civile, cioè quella di ristorare un soggetto dalle reali conseguenze pregiudizievoli immediatamente e direttamente riconducibili alla condotta lesiva dell’agente.
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Laura Bellanca
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